Qualche settimana fa Pietro Citati descriveva su Repubblica l’ennesima violenza edilizia in un centro storico: la costruzione, inspiegabile nella sua assurdità, di un grosso albergo nel bel mezzo di una frazione del comune di San Candido/Innichen (provincia di Bolzano), finora rimasta intatta nella bellezza dovuta, come sempre, a un secolare equilibrio degli spazi e dell’architettura. Messo da parte il mito di un Alto Adige meglio amministrato di ogni altro territorio nazionale dal punto di vista paesaggistico, Citati collocava l’esempio di inaspettato scempio accanto a un breve scenario di rovine ambientali irrecuperabili. Fra queste, la costa ligure per l’intera parte occidentale e, a seguire, la Costa Azzurra (anche lei, la leggendaria nobile signora). Mi ha sorpreso – e soddisfatto – il riferimento alla Liguria perché raramente avevo sentito lamentarne l’attuale condizione derivata da oltre mezzo secolo di estesi interventi edilizi, per decine di milioni di metri cubi in continuità costiera e poi risalenti le colline: per la maggior parte concessi dai municipi, per il resto tollerati e in seguito oggetto di sanatoria. Il Ponente ha mangiato il proprio territorio, ha abolito quel fantastico e necessario paesaggio costituito da centri costieri largamente spaziati fra loro e dialoganti coi paesetti distribuiti sulle colline, questi come guardie del mare dall’alto e tramiti della risalita alle Alpi Marittime. Soddisfatto, dico: poiché alla fine del 2004 in Eddyburg avevo lanciato un avviso proprio riguardo alla Liguria: “è la regione primatista per data d’inizio e per quantità proporzionale della cementificazione costiera eccetto l’estremo lembo sud-orientale prima di La Spezia” cui appartengono le Cinque Terre patrimonio dell’umanità (Abusi incredibili, 24 dicembre 2004; ora in Parole in rete. Interventi in Eddyburg, giornale e archivio di urbanistica, politica e altre cose, Libreria Clup. Milano 2005, p. 169). Peraltro viene da Rapallo – la città a oriente di Genova vessillo della libera costruzione di ogni obbrobrio per seconde case – il terminerapallizzazione, sinonimo per distruzione totale come avvenne a Coventry, la città inglese sottoposta durante la guerra a spietati bombardamenti aerei “a tappeto”: coventrizzazione significa radere al suolo: così varrebbe l’ossimoro rapallese costruire per distruggere.
Torniamo a occidente. Un aspetto, un fenomeno specifico, tanto caratteristico da non trovarne altri di ugual portata nel paese, sono le produzioni floreali. Ricavo la locuzione da una vecchia, quarantennale Guida rossa del Touring club italiano, che impiega giustamente una parola, produzione – che suona fessa riferita ai fiori, a noi ancora infiltrati da infantili nessi fiori/poesia, fiori/gentilezza e così via –, giacché “è la statistica delle produzioni floreali a definire meglio di ogni altra l’economia agricola della Liguria”. Fiori recisi, a cui si aggiungano piante ornamentali, fiori e foglie per profumi, già allora il 73% del valore prodotto in Italia. Colture specializzate, si legge, “notissime le serrette mobili, con vetrate facilmente spostabili”. Ecco, man mano lungo i decenni questa forma di agricoltura che già evidenziava profonde zeppe e contraddittorietà del paesaggio agrario e del paesaggio tout court, tende a specializzarsi sempre più, ad abbandonare ogni componente artigianale, a diventare industria vera e propria priva del benché minimo rispetto del suolo naturale. Le “serrette” di allora diventano grandi serre conquistatrici, alla pari delle nuove case, di una larga fascia costiera da Albenga fino a Ventimiglia; occupano le colline e le poche conche risparmiate dalle costruzione di condomini, ville, casette. Sono esse la forma originale locale dell’espansione e pervasione edilizia aggiuntiva, queste serrone lunghissime, qualcuna isolata qua e là ma per lo più sovrapposte l’una all’altra sfruttando le chine o le balze, e in successione lineare sul pendio e in piano. Ogni fabbricato, perché di questo si tratta, lungo anche decine di metri, alto quanto è necessario, di colore biancastro e opaco come un muro a vederlo da lontano, si salda in alto e in basso, al capo e alla coda con gli altri o agli altri rimanda attraverso brevi vuoti come spazi perduti: per oltre settanta chilometri diverse serie verticali e orizzontali di ammassi di corpi crudamente estranei alle nostre attese di appaganti visioni e sensazioni paesaggistiche, muraglie vetrose o plasticose, in proiezione ortogonale. Un’”agricoltura” tra mille virgolette, senz’altro un grosso affare che ha conquistato i mercati internazionali, ha distrutto altre colture come la vite e l’ulivo, si è affermato a causa della tracotanza di imprenditori grossi medi piccoli nonché grazie al favore degli amministratori locali e al timoroso disimpegno delle soprintendenze.Per tacere del disinteresse degli urbanisti e degli architetti, salvo inascoltate critiche provenienti da tesi di laurea dimenticate. A ogni modo, un esempio unico di decostruzione del paesaggio, un esempio raro di ambiente sostitutivo che più brutto è difficile immaginare, un esempio di coltivazione falsificata lontanissima dalla concezione che identifica la coltura con la cultura, la cura, la ragione (colere artes et studia; curare: rationem habere). Gl’imprenditori turistici e i sindaci lamentano la diminuzione dei soggiorni. Bene. Detratte le cause economiche generali, da sempre scarsamente incidenti, saranno finalmente le masse dei ciechi in occhi, cervello e anima ad essersi accorti dell’imbroglio e a scegliere altrimenti?
Nelle città chioschi di fioristi li vedi a numerosi angoli di strade, nelle piazze, sotto i portici. Vedi mazzi di fiori divisi per specie, ogni fiore identico all’altro, prodotti a macchina in serie, come di plastica. Passi, noti i colori ma non senti il minimo profumo.
30 agosto 2005