Pasticci, contraddizioni, assurdità nella protesta di un gruppo di architetti italiani contro gl’incarichi assegnati in questi ultimi anni ad architetti stranieri (vedi nel sito gli articoli riprodotti da giornali, gl’interventi, i documenti, date 10, 11, 18 settembre a partire dagli articoli di Pierluigi Panza sul “Corriere della sera” del 7 e 8). “Grandi” architetti contro “grandi” architetti, meglio “grandi” nomi contro “grandi” nomi? Sì e no. Infatti qualche firmatario dell’appello appartiene egli stesso, come i noti stranieri disputati, al jet set internazionale dell’architettura; il nome di qualcun altro, poi, è piccolo. Altri italiani non sottoscrittori (come Fuksas e Bellini), pieni di incarichi anche all’estero, vantano un proprio disinvolto internazionalismo privo di dubbi spendendo banalità sulla globalizzazione, un po’ mitigate da una certa differenziazione dai colleghi riguardo a questioni rilevanti, come la mancanza di opposizione all’abusivismo e ai condoni (dice il primo) o l’avvertimento a non cancellare le soprintendenze ma a riformarle e a qualificare maggiormente i concorsi (dice il secondo). Mi fermo subito alla motivazione più sconcertante contenuta nell’appello, appunto l’accusa alle soprintendenze di essere loro specialmente responsabili del mancato “sviluppo in Italia della nuova architettura”. Questa è davvero grossa. Qui si fanno carte false. Quali sarebbero le “molte opere significative rimaste sulla carta” a causa del “diritto di veto dei soprintendenti”? Non credo che a tal proposito si debba distinguere fra italiani e stranieri, e bado ai fatti. Una delle ultime contese ha riguardato, dal principio del 2004, la costruzione dell’auditorium progettato da Oscar Niemeyer per Ravello. Ampie discussioni in Eddyburg, documenti pro e contro, firme e controfirme… Per quasi tutti i frequentatori del sito l’opera violava le regole urbanistiche esistenti, inoltre danneggiava gravemente la funzionalità e la bellezza dell’ambiente, per parte sua già oltre i limiti della sopportabilità edificatoria. La soprintendenza, davanti all’arrogante decisionismo del Comune sostenuto da tanti nomi non tutti belli della cultura, del giornalismo, del management insofferenti della legalità, lasciò fare, l’auditorium vinse la partita. All’estremo opposto temporale una delle prime contese a vasta risonanza, quella relativa al progetto di Wright per il Memorial Masieri sul Canal Grande (vedi anche nel sito il mio Pirani non docet, 7 maggio 2004): un caso completamente diverso. Si intendeva inserire un edificio di modeste dimensioni in un breve tratto della cortina lungo il Canale. Le istituzioni locali e no, soprintendenza compresa, bocciarono il progetto, meravigliosamente (wrightianamente) ispirato alla storia alla natura ai sentimenti, accecate dal pregiudizio verso un’architettura moderna ritenuta comunque offensiva di un presunto inesistente stile del Canale: quando la cortina, lo sappiamo, espone architetture di cinque o sei secoli che è solo la forza della continuità e della partecipazione della strada d’acqua a tenere insieme. Fu il Comune, ossia la grettezza degli amministratori, più che la soprintendenza, a manifestare da subito il vero e proprio odio verso il progetto. Stessa sorte, per la medesima ragione, ebbe in seguito il progetto di Le Corbusier per un ospedale. Non è possibile un discorso risolutivo sui presunti impedimenti delle istituzioni contro la modernità in architettura. In sessant’anni è successo di tutto nel nostro paese, oggi lo abitiamo come fosse passata una terza guerra. Che ha devastato e soprattutto, come in un ossimoro, ha costruito costruito costruito, case e cose, al 99 per 100 estranee alla buona architettura e al disegno intelligente se non emblemi di inutilità, bruttezza e corruzione morale. È questo semmai che rivela la debolezza o la atarassia o l’opportunismo di certe soprintendenze, vuoi superate dai poteri dei politici e degli amministratori locali, vuoi strette anch’esse nel cerchio dei favori, delle collusioni e degli imbrogli pilotati dai proprietari fondiari e dagli imprenditori coi loro affidabili alleati dei governi e delle amministrazioni. La buona architettura, pochissima per definizione, praticamente invisibile girando il paese, si è introdotta dove ha potuto e le soprintendenze c’entrano poco. Tuttavia non sono mancati funzionari indipendenti, liberi e coraggiosi che hanno praticato la difesa a oltranza contro i nemici dei beni architettonici e artistici. Filippo Ciccone cita giustamente Adriano La Regina, il difensore di Roma inviso ai potenti (ha lasciato la carica, quasi costretto, a giugno dell’anno scorso), il difensore dei soprintendenti decentrati il cui “potere totalmente autonomo” (nell’appello), inaccettabile per gli appellanti sorprendentemente disinformati, non è più tale da anni a causa delle riforme strutturali (per esempio l’istituzione di direttori regionali di nomina politica) e delle forme di neo-centralismo governativo che però un “ministero ormai allo sfascio” (Ciccone) non riesce a gestire: La Regina, il soprintendente ai beni archeologici ritenuto inflessibile che in definitiva ha accettato la nuova sistemazione dell’ Ara Pacis in base al discutibile progetto di Richard Meier, anni fa membro di un gruppo il cui linguaggio fu definito da certi studiosi iper-razionalista.
Vado avanti con gli esempi. Il bravo architetto ticinese Mario Botta, straniero per modo di dire, condividendo l’appello, candido o furbo apprezza il centralismo e sprezza la figura del soprintendente. Grazie tante. Un po’ di pudore per favore! Jacopo Gardella, nell’articolo del 18 settembre in “la Repubblica” qui riprodotto, denuncia (senza far nomi, chissà perché) la scorrettezza, anzi la sostanziale illegalità dei due più importanti “interventi monumentali di questi anni” a Milano, la ristrutturazione della Scala e il nuovo teatro Arcimboldi, definiti e attuati senza concorso pubblico. Botta ebbe l’incarico comunale per la Scala su promozione di Sgarbi quando questi era sottosegretario, vale a dire del potere centrale, centralistico si vorrebbe dire. Ora, ripeto ciò che pochissimi nel nostro ambiente hanno osato obiettare: nessuna soprintendenza gli impedì di costruire la grossa inutile torta cilindrica che ci godiamo dalla piazza, volgendo le spalle a Palazzo Marino, di fianco all’imponente volume scenico e al di sopra del tetto del palazzo ex Biffi-Scala. Ma, si sa, criticare l’assurda costruzione vuol dire essere bollati come incapaci di comprendere la validità del linguaggio moderno parlato legittimamente accanto all’antico o ad altra lingua; inoltre è raro un giudizio critico da architetto ad architetto se entrambi appartenenti al gruppo ristretto degli italiani migliori e/o noti. Inutile, perché l’esigenza rappresentata dal volume destinato genericamente a sevizi era superata dall’acquisto dell’edificio in Via Verdi confinante con il complesso scaligero e perfetto, nella sua bruttezza da rimediare attraverso un bel progetto di riconfigurazione, per contenere quei misteriosi servizi (e perché misteriosi? Perché anche nelle visite guidate che la Scala offre la visione del cilindro all’interno è semplicemente non è ammessa). Suona male, caro Botta, il ricordo del vecchio divieto veneziano. Intanto, nel disinteresse delle soprintendenze ma anche degli architetti supposti colti, universitari e no, Mario Botta compreso, era stata distrutta la deliziosa Piccola Scala, opera Novecento di Piero Portaluppi indispensabile per le opere liriche appunto piccole, per quelle in forma di concerto e così via.
L’atteggiamento di Gregotti, progettista del teatro Arcimboldi oltre che di un intero pezzo di città sensazionale esempio di espansione urbana fuor di ogni piano o idea complessiva preventivamente dichiarata (più volte oggetto di riflessioni in Eddyburg), rivela le contraddizioni e le ambiguità che l’imprudente ricorso ad affermazioni radicali e corporative costringe a vivere. Lui firma l’appello, poi si mette da parte avvertendo l’esagerazione di aver incolpato le soprintendenze per un presunto mancato “sviluppo italiano dell’architettura” e ne richiede soltanto minor burocratizzazione e maggior qualificazione culturale, penso verso l’arte e la società: dotazione quest’ultima che forse non è troppo abbondante in suoi colleghi italiani o stranieri e che invece dovrebbe esigere, lui che colto è, quando osino dar lezioni di comportamento. Poi anche Gregotti dà un saggio di candore o di strana schizofrenia: la causa principale dell’invasione straniera, accanto al basso livello culturale di molte amministrazioni pubbliche, sarebbe dovuta alla “struttura dei concorsi”. Quale struttura quali concorsi, quand’egli, come ricorda Jacopo Gardella, ha partecipato all’infrazione delle regole europee e dell’etica professionale attraverso l’assegnazione privata del progetto Arcimboldi. Ad ogni modo il tema dei concorsi è quello sul quale gli appellanti avrebbero dovuto mobilitarsi seriamente e non solo per quei capestri verso i giovani denunciati ancora da Gardella. Mi riferisco soprattutto ai falsi concorsi come quello indetto dal Comune di Milano per l’area della Vecchia Fiera: non un confronto fra progetti autorali veri ma una gara fra imprese invitate che offrono un prodotto col suo prezzo quasi chiavi in mano (ma che poi potrà essere molto diverso). Ogni impresa o gruppo di imprese trascina con sé un architetto necessariamente famoso a scala di mercato globale dell’architettura (è questo che probabilmente fa privilegiare il ricorso a nomi stranieri altisonanti), lo utilizza come un’effige pubblicitaria, assume i suoi rendering o modelli quali informazioni figurative più o meno fantasiose per épater la impropria giuria dell’improprio concorso. Gli architetti avrebbero dovuto attaccare pesantemente il risultato: quell’indecente progetto Hadid-Isozaki-Lebeskind, i tre famosi al servizio della cordata vittoriosa Generali-Ligresti-Lanaro-Grupo Lar Desarrolos Residentiales: le tre torri ora note a quasi tutti i milanesi grazie all’impressionante battage della giunta municipale e contestate dai residenti nella zona, tre ognuna per sé dalle forme insensate, che non sanno organizzare lo spazio, che accettano l’incredibile scarsità di verde (altro che nostro Central Park propagandato dal sindaco Albertini), che rivelano la totale incapacità di ascoltare Milano, la sua storia, la sua crisi (per un quadro degli interventi in ballo a Milano vedi nel sito i miei Le nuove Milano estranee. L’architettura servile, 30 ottobre 2004, e Non- architettura a Milano, 19 luglio 2004). Ecco il punto debole che i più bravi architetti italiani e in particolare i milanesi, purché irreprensibili nei loro gesti professionali e culturali, dovrebbero denotare in colleghi stranieri chiamati da imprenditori e imprese di costruzioni a servirli: l’impreparazione o l’inettitudine a capire il contesto del progetto e dell’opera, a introiettarne la storia i valori e i sentimenti mentre lo si avvicina fin dal principio: non bastano le visite sul posto per risolvere il problema. Si obietterà che lo stesso varrebbe per architetti italiani molto attivi in altri paesi, come i globalisti Fuksas, Bellini, Benini… Beh, se rivendicano un internazionalismo architettonico indifferente, vuol dire che dei contesti se ne impipano. Le contraddizioni non hanno fine, peraltro: come può un Gregotti, che al massimo riconosce se stesso in un “internazionalismo critico”, formula di comodo d’altronde, progettare intere città in Cina? (Non so, apriamo finalmente una vera discussione sull’architettura, che forse è morta davvero come è morta l’urbanistica dalla quale si era separata, perciò indebolendosi anziché rafforzarsi come si era potuto credere: “è morta quale mestiere civile comunitario di lotta o almeno di avvertimento verso l’individualismo che ignora il contesto sociale-spaziale e pretende solo l’esaltazione del sé – anche quando il risultato appare, a chi esercita i propri sensi e dunque sa riconoscere proprietà e bellezza, irrimediabile errore e inopinabile bruttezza”, La partecipazione in urbanistica e architettura. Scritti e interviste, Unicopli, Milano 2003, p. 82. Cade a proposito qui il ricordo della pesante critica – finalmente! – dell’oscillante Gregotti ai progetti per Ground Zero: “… tutta la vicenda architettonica che ha accompagnato con solerte e interessata prontezza la tragedia dell’11 settembre è stata una rara collezione di stolti esibizionismi personali… sotto l’insegna del Guiness dei Primati – ha vinto naturalmente chi ha proposto il grattacielo più alto [Daniel Lebeskind] – e dell’assenza di ogni sobrietà espressiva”, in “la Repubblica”, 2 marzo 2003. Spero che l’autore del duro giudizio non se lo sia concesso stante la foreignness dell’architetto). Non peroro alcun regionalismo architettonico; ma non dimentico che la crisi del Razionalismo italiano ed europeo fu dovuta anche o soprattutto all’omologazione di uno stile internazionale posto al di sopra della storia e dello spirito dei luoghi, un pensiero senza sbocchi di fronte alle pressanti domande poste agli urbanisti e architetti dalle città, salvate o disastrate, appena finita la guerra.
Imprenditori/imprese e architetti: gli appellanti, invece che sparare su nemici inesistenti, dovrebbero combattere contro il predominio, purtroppo oggi ben consolidato, degli immobiliaristi e quindi denunciare l’umiliante sudditanza degli architetti sia in occasione dei falsi concorsi o gare, sia quando vengano scelti come da un padrone il suo maggiordomo. Come accettare, per esempio, la volgare arroganza di un qualsiasi Luigi Zunino, giovane personaggio inesistente per i cittadini se non i pochi attentissimi agli intrighi finanziari e fondiari e borsistici, arrivato tardi sulla scena milanese esibendo il mestiere di “sviluppatore”, che vanta di “scegliere il meglio”, di qua un Norman Foster di là un Renzo Piano quasi fossero marionette appese al filo? (articolo del “Corriere” dell’8 settembre). Si obietterà che è destino degli architetti, da sempre, di essere prescelti dai potenti e dai governanti per i maggiori progetti. Sì, ma Zunino o Ligresti o Lanaro o Tronchetti Provera non sono Giulio II o Sisto V, e il lombardo governatore Formigoni, che ha scelto Ieoh Ming Pei per il personale “grattacielo più alto d’Europa”, non è l’urbinate duca Federico di Montefeltro.
Milano, 22 settembre 2005