“Che succede in Val di Susa”?, “Ragioniamo: a che serve la TAV?”, “Sotto il treno”, “Ma io dico no all’Alta velocità”… La Grande Opera che ha provocato la sollevazioni degli abitanti e delle istituzioni locali apre belle discussioni: Edoardo Salzano la mette in un modo, Carla Ravaioli in un altro, Guglielmo Ragozzino e Giorgio Bocca in un altro ancora. Non credo che la virtù stia nel mezzo tra i favorevoli e i contrari, benché non mi senta affatto propenso, in generale, a rispondere solo sì o solo no a certe domande a meno che ciò sia l’unico modo di dichiarare la propria posizione. Voglio dire che non possono aver ragione entrambi, oppositori valsusani e sostenitori illuminati. Salzano fa benissimo a sollevare il problema della mancanza di democrazia nella decisione, quindi a ricordarci i fondamenti della pianificazione democratica: insomma le popolazioni, un po’grette difensori del bene locale devono essere convinte saggiamente dai riformisti agenti secondo gli interessi di tutta la nazione. Questa volta non mi schiero con te, caro Edoardo. Nessuno di noi urbanisti, sociologi, politici e altri, frequentatori permanenti del sito è sospettabile: per semplificare: stiamo tutti dalla parte del ferro contro la gomma – come si diceva una volta – e ci siamo battuti a favore di una politica delle infrastrutture che privilegiasse in assoluto la ferrovia/treno invece dell’autostrada-strada/auto, così come nelle città una politica del trasporto pubblico, in particolare i tram, avverso alle auto per ogni dove. Ma cerchiamo di non trascurare le domande del povero territorio nazionale come fosse una persona che implora con un filo di voce di salvargli le poche residue parti sane del corpo. Per parte mia ho anche pubblicato un pezzo sul sito, un anno fa (16 novembre 2004), del quale ripropongo il titolo programmatico Alta velocità. Morte delle ferrovie (e del paesaggio), alias morte del sistema arterioso, come dire morte del paese. Carla Ravaioli, con la consueta eleganza problematica, riconosce naturalmente l’obbligo del confronto democratico (chi di noi non lo vorrebbe?), tuttavia svolge un filo di pensiero molto originale che, sotto forma di una serie di punti interrogativi secondo un suo modo di dissertare che ben conosco, inerenti a un’alternativa “strutturale” (così le ho detto) nello scambio delle merci in territori ristretti anziché nel territorio globale, lascia intravedere la propria sostanziale opposizione intellettuale all’opera. Da Bocca e Ragozzino, soprattutto dal primo forse per la comune origine piemontese, mi sento ben rappresentato nel negare totalmente l’opportunità di una ferrovia che può sembrare in teoria non così assurda, direi provocatoria e fin da subito condannata come il ponte sullo Stretto o il veneziano Mose, ma che lo diventa nella data condizione del paese – di storia, di società. E di tempi. Come per le metropolitane concepite così in ritardo da renderne aleatoria la realizzazione oggigiorno per puro spavento davanti ai costi del tube svincolato dai tracciati stradali (a parte il prezzo della corruzione come nella craxiana linea 3 milanese), abbiamo perso il tren dell’avvenir e dobbiamo prenderne uno nostro, locale eppur senza cimici. Contestiamo l’AV (in verità denominabile ufficialmente AC – alta capacità – poiché il modello italiano, già verificato tra Firenze e Roma, non permette lo sfruttamento dei 350 Km/h alla francese o alla tedesca, bensì al massimo di 250) quale scelta sbagliata nel ventaglio dei progetti e degli interventi prioritari. Non può essere prioritaria un’opera di tale natura in un paese che ha continuato ad abolire o a sotto-utilizzare al limite della cancellazione normali ferrovie ritenute secondarie, bollate fin dal tempo del centro-sinistra democristiano/socialista con la stupida e pretestuosa definizione di “rami secchi”; un paese che negli ultimi anni ha menato colpi di scure alla cieca (anzi a occhiacci ben aperti da assassino) su tutta la rete considerata primaria, tagliandone parti, chiudendo stazioni, massacrando quelle grandi storiche mediante orribili interventi di commercializzazione degli spazi, gettando la conduzione dei treni – salvo la guida – nelle mani di pochi poveri giovani precari. Altro che nuove tratte “europee” superveloci finalmente anche per noi italiani! Avrebbero dovuto i governi, non se ne salva nessuno, farli rifiorire tutti quei rami, varare una vigorosa operazione di riassetto, completamento e modernizzazione dell’intera rete esistente (cominciando da elettrificazione, doppio binario, negazione delle motrici diesel sulle tratte considerate minori, eccetera). Sapete, cari amici, che, esempio a caso, uno dei trasporti ferroviari fondamentali per le relazioni Italia-Francia-Spagna, da Roma a Port Pou, non usufruisce del doppio binario per intero fra Genova e Ventimiglia? In ogni modo il completamento della rete normale è un obbligo anche per risolvere antiche discriminazioni verso vasti territori e popolazioni: la Calabria e la Sicilia, non prive di tracciati storici funzionanti meglio cent’anni fa (“… il treno si mosse. Vi fu il rauco segnale d’una tromba, poi lo strappo agli attacchi tra carro e carro, lo strappo alla ruote, poi un opaco chiarore che passò entro il vano di una porta, e poi la nera stazione già passata, la nera torre del serbatoio per l’acqua già passata. Comiso già passata nella nera notte di fichidindia cha passava via da sinistra a destra”, Elio Vittorini, La garibaldina); la Sardegna poi, dotata di servizio ferroviario quasi una finzione, tanto che gli abitanti, evidentemente abituati a ignorarlo, non sembrano nemmeno disponibili a protestare e a rivendicarne una riforma. Infine bisogna da una parte migliorare le comunicazioni ferroviarie trasversali nello stivale, dall’altra recuperare o reinventare la coerenza territoriale dei tracciati locali spesso di origine privata pervadenti capillarmente il territorio e persino risalenti le valli specialmente in Piemonte e Lombardia, man mano lasciati degradare, rovinare, sparire e, in qualche occasione dovuta a salvifico clientelismo politico, sostituititi malamente da un’esistente strada percorsa da un autobus affondato nel traffico automobilistico. Quest’ultimo recupero o ricostruzione contribuirebbe soprattutto a mitigare, e di molto, il patimento sopportato da una massa di pendolari per lavoro o studio.
Si osserverà: allora si doveva contestare anche la Bologna-Firenze e altro. Abbiamo condiviso la lotta degli amici triestini del Wwf contro la tratta che massacrerebbe il Carso. La prima invece poteva essere sostenuta quale radicale alternativa alla variante autostradale, sperando che davvero lo spostamento di gran parete delle merci dalla gomma al ferro potesse avverarsi: anche mediante una forte spinta politica, oggi assai dubbia, non bastando certamente di per sé la nuova occasione ferroviaria a convincere gli autotrasportatori. Peraltro non tutti i casi sono uguali. Circa la Milano Torino, oggi perfettamente verificabile nel tratto da Novara al capoluogo piemontese, Giorgio Bocca ha mille, un milione di ragioni, non meno che circa la Val di Susa. Non ripeto qui le sue vive denunce che sarebbe indecente attribuire a un suo presunto piemontesismo. Ma almeno questo voglio ricopiare: “per risparmiare un quarto d’ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d’Italia una gigantesca linea Maginot”. Mi ero mosso nello stesso senso scrivendo il pezzo a novembre dell’anno scorso. Inaccettabile non è solo la devastazione del paesaggio agrario, di sparizione di un larghissimo nastro di storiche risaie da Galliate a Santhià, ma anche il surdimensionmento ferro-cementizio delle opere d’arte per la ferrovia e il rifacimento di tutto il complesso autostradale che per lo più la fiancheggia: sovrappassi, entrate e uscite coi loro bravi quadrifogli, trifogli, anelloidi come nemmeno nei vecchi album di Gordon e l’imperatore giallo Ming, bordure, barriere, muraglie, pannelloni, reti, pilastroni tanto fitti da reggere non una rampa o un sovrappasso ma una petroliera carica: uno spettacolo impressionante di costruzioni palesemente inutili o esagerate al puro fine di distribuire o incassare denaro. Quindici minuti, forse solo dodici dicono tecnici non collusi con le imprese e certi politici non tutti di destra. Pagati cari.
Andate, andate a vedere; percorrete l’autostrada attenti a non spiaccicarvi perché distratti da tanto teatro dell’orrore. Poi spedite una e-mail a eddyburg.
Quanto alla Val Susa, se avrete l’età adatta la percorrete fra vent’anni potendo scegliere fra nuova e vecchia ferrovia, l’autostrada, due strade statali, varie strade locali, controllerete i tempi. Se vorrete potrete farmi conoscere le vostre impressioni telefonandomi o inviandomi un messaggio scritto: in paradiso naturalmente.
Lodo Meneghetti
11 novembre 2005