Quarant’anni dalla “legge ponte”. Passati come attraverso una lunga guerra, vissuti nel paese dinnanzi a immani distruzioni. In mezzo alle macerie il ponte sul fiume “del tempo e del disinganno” non è stato ancora costruito totalmente. L’anniversario del progetto cadrà il prossimo 6 agosto. Legge 765/1967: seguirà, otto mesi dopo, il decreto “degli standard urbanistici”, così lo denominavamo (l’incipit del testo dice “limiti inderogabili di…”) . Eddyburg se ne è occupato, si è persino discusso dove, in quale anfratto del sito incasellare l’argomento. Ponte: due le interpretazioni: la prima, ponte lungo un anno per collegare i dispositivi della legge fino all’atto della loro concreta applicazione rimandata appunto a un anno dopo; la seconda, ponte lungo alcuni anni o decenni o secoli fino all’approvazione di una nuova legge urbanistica generale a sessantacinque anni dalla legge 1150 del 1942. Per la seconda, tempo pontiere lungo quattro decenni mancante delle ultime pietre o delle ultime gettate di calcestruzzo armato. Non possiamo ancora scendere sull’altra riva. La prima da opinione divenne presto testimonianza allibita di fatti gravissimi, di avvenimenti urbanistici ed edilizi di segno uguale a quelli che l’articolo 17 della legge intendeva bloccare, ovvero un’edificazione rovinosa nei comuni privi di piano regolatore o piano di fabbricazione ma anche, per certi aspetti diversi, nei comuni dotati di tali strumenti. L’inconcepibile anno “vuoto” dal 6 agosto 1967 al corrispondente giorno del 1968, dunque oltre il decreto degli standard del 2 aprile, è stampato nella memoria degli anziani, forse solo in loro, sfortunatamente.
In quei dodici mesi bastava gettare un pilastro di calcestruzzo a caso in un fondo, persino alla vigilia della scadenza, per assicurarsi la costruzione di un edificio, nel caso migliore progettato falsamente. Nel paese imperversava una specie di banditismo edilizio autorizzato; un bislacco comportamento delle amministrazioni pubbliche sguarniva le città e le campagne d’ogni possibile difesa. Altro che “limiti inderogabili” a venire. I provvedimenti legislativi, indipendentemente dal rinvio dell’obbligo, furono comunque facilmente aggirabili a causa della loro gracilità. La decantata fantasia italiana potette scatenarsi nelle forme più ardite, né mancò l’intensa partecipazione dei tecnici campioni di opportunismo e servilismo. Gli speculatori d’altronde proseguivano tranquillamente nella loro azione cominciata prima che la guerra fosse terminata. Fu un diluvio di metri cubi edili, come un’enorme frana da sotto in su, all’incontrario e un milione di volte più vasta di quella di Agrigento (19 agosto 1966, a dicembre la relazione-denuncia dell’ingegner Michele Martuscelli sul n. 48 di “Urbanistica”), ragione preminente della legge 765: da un lato tentativo di tamponare in qualche maniera la ultraventennale libertà concessa agli imprenditori di ricavare dal territorio e dalle città il massimo di rendita e profitto, dall’altro dimostrazione della impossibilità politica di volerlo fare davvero. La costituzione ambientale storica del paese era già in buona parte sovvertita. Antonio Cederna aveva cominciato a scrivere nel 1949 gli articoli su “il Mondo” in seguito confluiti nel libro I vandali in casa (1956) e i vandali avevano già scorrazzato in lungo e in largo, Leonardo Borgese aveva scritto sul “Corriere della Sera” i primi articoli della sua campagna in difesa del Bel Paese fin dal 1946, Cesare Brandi era intervenuto senza tregua a denunciare la distruzione del paesaggio naturale e artistico a partire dal 1956. Il destino di una Napoli come rappresentata nel film di Francesco Rosi Le mani sulla città, 1963, appariva segnato in maniera irrimediabile.
Rileggiamo la conclusione della commissione Martuscelli (con Ambrosetti, Astengo, Di Paola, Guarino, Molajoli, Russo e Valle), per non dimenticare (perorazione a coloro che vi propendono): “la commissione sente il dovere di segnalare la gravità della situazione urbanistico-edilizia dell’intero paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite… E non può non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto – deciso e irreversibile – al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”. Dopo un attimo di sosta attonita, i girgentini, fors’anche ammirati da alloctoni di molle carattere, ripresero la lena e posero mano più ferma anche alla dirimpettaia Valle dei Templi, l’antica e da loro malvoluta Akragàs, reclamandola come proprietà ereditaria e dunque atta ad essere meglio impiegata, invece che mediante il classico statico, mediante il moderno dinamico, ovvero la costruzione in successione di buona edilizia compensativa dell’ingiusta perdita. E vennero mano a mano le 700 costruzioni di vario genere nella Valle a ridefinire il paesaggio, il secondo nuovo dopo il primo dominato dallo spaventoso prospetto dell’insensata espansione urbana destinata al crollo.
Chi potette visitare l’eccezionale ambiente storico e archeologico di Agrigento fino alla metà degli anni Cinquanta non si trovò nella medesima situazione di Alexis de Tocqueville e di suo fratello Eduard che videro, “là giunti, l’immensa cerchia delle mura di Girgenti… e quasi tutto quel che resta dei monumenti antichi schierato sul bastione naturale che dà sul mare” (AdT, 1827). Tuttavia non vide quasi niente di spaventoso. Poteva godere di un paesaggio che giustapponeva la ricca città greca morta e la povera città storica viva in uno scenario nel quale le due realtà parevano ignorarsi ma, a saper ascoltare, potevano dialogare. Quando ritornò ai templi negli anni Sessanta prima della frana cercò di procurarsi ad arte un qualche godimento dando le spalle all’orrida immanenza della città e osservando la residua Akragàs da sud; se non avesse resistito e, come Orfeo, avesse girato la testa, la nuova città non sarebbe sprofondata al fondo dell’Ade come Euridice e lui avrebbe vomitato.
Quale nuova esperienza visiva e percettiva per chi vorrebbe trovarsi lì oggi? Altro ambiente altro paesaggio? La Valle piena di robaccia? Girgenti più brutta di prima? Mettiamo che il visitatore abbia quarant’anni, proprio l’età della legge influenzata dal disastro dimenticato. Sarebbe talmente abituato ad aggirarsi nella merda di città e territorio che troverebbe normalità la merda agrigentina, uguale al fiume puzzolente che ha invaso ogni parte del paese e che scorre ognora più gonfio. Perché insistere sul caso siciliano? Perché voler ricordare la determinazione del bravo direttore dell’Urbanistica al Ministero dei lavori pubblici? Perché l’auspicio suo e della commissione fu subito tradito, la disgregazione e il saccheggio urbanistico, del resto esaltati nel tempo dell’assurdo o del surreale concesso dal legislatore, continuarono come e più di prima, vissero trionfali gli anni, i lustri e i decenni. Ora tagliano il traguardo del 2007 e si fanno ammirare pronti a future avanzate benché sconcertati dinnanzi alla sorprendente scarsità di materia disponibile.
Gli urbanisti democratici confidarono negli standard urbanistici quale soluzione di rottura in contesti privi di adeguate dotazioni di servizi e attrezzature, quale panacea dei mali urbani. Facile calcolarli, prevederli nel complesso e anche distribuirli nel disegno del piano; difficile tradurli nella realtà urbana. La separazione fra intenzione-progetto e mancanza di realizzazione resero più sicura e rapida la privatizzazione della città. Dove i Comuni, specie alcuni delle regioni rosse già propensi alla pianificazione, dedicarono maggior impegno a collegare disegno e attuazione forse ottennero condizioni urbane un po’ più “svedesi” ma non poterono scalfire, da una posizione puramente amministrativa, la contraddizione cruciale che sarebbe stato compito politico della sinistra dipanare. L’urbanistica tradizionale ferma alla cultura delle dotazioni non poteva servire a spostare benefici sostanziali verso la massa dei lavoratori senza collaborare, con mezzi propri dell’intellighenzia, a modificare il rapporto fra classe dominante e classe lavoratrice riguardo, per così dire, all’appropriazione della città e del territorio. Sancita la frattura fra astrazione e concretezza, il fervore dotale dell’urbanistica approdò non sempre involontariamente all’assurdo o alla falsificazione.
Leggo l’intervista di Edoardo SalzanoStandard urbanistici fra tempi e spazi (22 marzo, presa da Eddyburg il 27), con accenni anche all’attesa della nuova legge urbanistica. Mi sembra di ascoltare voci di allora: “Una legge sul governo del territorio deve essere in grado di modificare i rapporti di forza e le regole di trasformazione urbana in favore di chi esprime un uso sociale della città come bene comune”.
Intanto nella Milano una volta epitome di affabilità e generosità (o così s’era dipinta) oggi non esistono asili nido bastanti al bisogno delle giovani mamme. Destino dello standard, quando il tasso di natalità è meno della metà rispetto al 1968.
Intanto altre voci ascoltate nelle ultime settimane, tutte dal suono alto e intenso, ci hanno investito. Voci che raccontano delle ultime violenze d’ogni genere verso le parti del paese sfuggite finora al caterpillar. Una cascata di allarmi e denunce. Ho qui accanto una pila di ritagli dai giornali e stampe da Eddyburg, recenti. Dalle città alle campagne, dalle coste ai territori interni: sembra che lacerti di un’Italia riuscita finora a ritrarsi dalla guerra non ce la facciano più a resistere alle botte, stiano gettando la spugna e accettino il comune destino, la perdita di sé per sempre.
Le parole. Ecomostri lombardi speculazione Fiera Milano speculazione corre sul treno metrò sotto laguna abusivismo e incuria Unesco boccia Toscana infelix quanto cemento intorno Mantova battaglia parco Portofino litiga Liguria sul cemento salvare Monticchiello pesante impatto Napoli 400 appartamenti senza permessi stop cemento mappa degli scempi cemento Orbetello sindaci ignavi fermate cemento salvare Toscana territorio violentato Campania Recco condomini sulla via romana Fuksas fermatelo riviera di torri paesaggio deturpato territorio consumato resa dei conti porticciolo foce Arno San Rossore 200000 mc ecomostro Bologna Romilia Vema Padana orrore Navigli come Bombay senza difesa natura farsa Bagnoli chi ferma cemento ville a schiera nel parco non si demolisce così Paese… la pila è ancora altissima.
Allora. La proposta di legge urbanistica è approdata al Parlamento. Tre a due, per Salzano, il rapporto mi piace/non mi piace. Quali saranno gli esiti alle Camere? Dal punto di vista della questione territoriale esistono posizioni d’ogni genere. Aspettiamo. Tuttavia non possiamo ignorare che la frattura fra realtà territoriale e progetto legislativo nazionale, come nella storia dello standard, è decretata da tempo. Come potrà una legge nazionale, probabilmente attenta agli interessi degli imprenditori, ai cosiddetti diritti edificatori, all’opportunità – magari un po’ meno obbligata che nella legge Lupi – della contrattazionefra ente pubblico e proprietà privata, come potrà imbracciare lo scudo imperforabile a difesa degli ultimi pezzi d’Italia storica dal pericolo di soluzione finale? Ora dominano le leggi regionali; devo ripetere ciò che i frequentatori di Eddyburg conoscono circa il disinteresse o l’ambiguità delle amministrazioni verso la battaglia incondizionata in difesa del paesaggio residuo? Lamentare nuovamente la loro sordità (esemplare il comportamento del governo regionale toscano) verso le critiche per l’irragionevole trasferimento del problema ai comuni grandi e piccoli e piccolissimi? Oggi, oltre ai presidenti di Regione, dominano sindaci e giunte sbeffeggianti i Consigli: coi loro interventi edilizi mangiano il territorio quando ne esista ancora, se ne ingozzano insieme alle imprese di costruzione-distruzione. Tutto legale (più o meno). Come potrà una legge nazionale impedirlo se i partiti politici non vogliono affrontare il problema cruciale – da me più volte trattato – dei poteri nelle Regioni e nei Comuni, le sedi della storica autonomia democratica trasformata in decisionismo personale? Preoccupazione e tristezza prova chi le battaglie per l’autonomia locale le ha fatte ai tempi delle diuturne discussioni nei Consigli e dei duri controlli prefettizi volti, più che al rispetto della normativa, al merito di pubbliche deliberazioni delle maggioranze di sinistra. Questa la giusta battaglia per la democrazia, non la pretesa odierna d’indipendenza in decisioni che, relative alla località, riguardano l’intera comunità nazionale.
La difesa dei beni artistici e paesaggistici è scritta nelle leggi d’anteguerra e nella Costituzione. Come potrà lo stato, con o senza nuova legge urbanistica, rafforzare il proprio compito in questa materia quando una brutta specie di smaccato liberismo non solo si è consolidato nella legislazione e pianificazione locale ma ha impresso la coscienza di politici e amministratori? Cosa gl’importa a quest’ultimi di leggi generali vecchie e nuove mentre possono muoversi disinvoltamente dentro le molteplici occasioni offerte da un’urbanistica falsa designata dagli insopportabili acronimi normalmente indecifrabili dai cittadini? Oggi uno dei più miti dal punto di vista del linguaggio, Pgt, Piano di governo del territorio, costituisce invece la mensa preparata, penso, per l’ultima abbuffata degli obesi imprenditori e proprietari fondiari.
Conoscete gli obiettivi dichiarati dalla giunta milanese, d’altronde in linea con una prassi in atto da oltre dieci anni? “Deregulation… liberalizzazione… autoregolazione del mercato… no alle destinazioni d’uso… sviluppo delle capacità insediative… perequazione mediante la Borsa dei diritti volumetrici (compravendita dei diritti)… volumetrie aggiuntive al legittimo possesso… densificazione… valorizzazione [ah!] delle aree degradate nei parchi… grattacieli…”.
Eh, già… gli standard e i bisogni dei cittadini, la legge urbanistica nazionale, la preservazione del paesaggio, il risparmio di terra, la difesa dello spazio pubblico… eccetera eccetera.
Milano, 1 aprile 2007