Cinque anni dal mio primo intervento in eddyburg.it. È passato un lustro da quando, dopo un soggiorno a Venezia, inviai a Edoardo Salzano una copia delle lettere scambiate con l’Istituto veneto di scienze, lettere e arti (Ivsla). Chiedevo all’istituto di ascoltare certi miei rilievi e impressioni relativi ad alcuni orribili aspetti, probabilmente ritenuti minori, della condizione della città; volevo “avere una spiegazione delle ultime sconfitte” e sollecitavo l’Ivsla a promuovere iniziative “per fermare i vandali”, a rivolgersi all’università e a “coloro che conoscono e amano davvero Venezia”. La risposta fu gentile e dichiarante “incompetenza” (!). Né diedero segnali di interessamento l’Istituto universitario di architettura e la Facoltà di architettura di Milano. (Il mio intervento è forse ricuperabile nell’archivio del sito, annata 2002, titolo Mascherata veneziana. Chi possedesse Parole in rete, la prima delle due raccolte dei miei scritti in eddyburg pubblicate da Libreria Clup, lo troverà subito a p.15). Ritornai nel nostro sito (se posso dire così) solo nel 2003, e uno dei primi argomenti fu di nuovo il destino di Venezia. Presi spunto da unarticolo di Francesco Erbani, Se la laguna si trasforma in un Club Méditerranée (Repubblica del 13 aprile). Oggi, nel quinquennale ricordato, mentre forse la maggioranza dei veneziani residui si incanta del ponte di Calatrava (“la grande cazzata”, Salzano) mentre stanno loro sottraendo l’ultima Venezia da sotto i piedi, ho voluto rimettere insieme certi pensieri sulla città conosciuta, e ho deciso di comunicarli ai frequentatori del castello edoardeo.
Il buon piatto di risebisi (così ci suonava risi e bisi)al ristorante-albergo all’Angelo, quasi al fondo di Calle Larga San Marco, pochi passi e si era sul ponte del Rio di Palazzo. Un netto ricordo dell’infanzia, il primo viaggio nella città unica a otto-nove anni d’età, coi genitori e la sorella. Certo non il solo: gli altri, i canali i battelli le gondole, i campielli coi giochi e le voci dei nostri coetanei; correre fra le calli e su e giù per le scale dei ponticelli; stare un’ora almeno sul battello, o sulla gondola lungo i canali stretti guardando scorrere le persone e le case sulle rive; c’impressionava il gondoliere. Ma quel risotto coi grani di riso mescolati ai pallini verdi, un po’ di prezzemolo e di parmigiano (la mamma aveva richiesto di limitare la cipolla) a noi ragazzi era piaciuto specialmente, diverso ma buono per semplicità. Eravamo abituati al risotto alla milanese. Dicevamo spesso alla mamma fa’ il risotto giallo. Semplice, con lo zafferano e senza midollo. Ai bambini non piacevano i cibi ricchi, troppo elaborati. Amavamo il risotto e la cotoletta impanata (senza il “manico” cioè l’osso, una milanese declassata) con le patatine. Sempre quello, giallo. La potente paniscia novarese, coi cavoli e i fagioli, la carota e il sedano, pezzetti di cotica o di costine, solo poche volte all’anno. Risebisi, forse mai più mangiato a Venezia in seguito (dove lo fanno bene, oggi, chiedo a Edoardo).
La città meravigliosa. Presi a frequentarla nel dopoguerra con qualche amico, specialmente in occasione delle Biennali d’Arte. Commissario straordinario della prima edizione postbellica, 1948, era Giovanni (Giò) Ponti che l’anno seguente sarà mio insegnante al corso di Architettura degli interni, arredamento e decorazione. Segretario generale per le arti decorative, Rodolfo Pallucchini. Seguivamo gli avvenimenti dell’arte quanto ci fosse concesso dalle misere condizioni economiche. Riuscivamo a passare qualche giorno a Venezia dormendo in brutte locande e limitando i pasti a quasi niente, mai ci sedevamo a un tavolo di qualche locale, questo fino a metà degli anni Cinquanta. Venezia era piena di segni dell’età e della guerra, ma era dritta secondo la sua storia di città rara e salva per il bene del mondo, non l’avevano ancora rovesciata. La città era vera, non una finzione per turisti; i veneziani esistevano numerosi e resistevano.
Ci tornerò spesso in seguito, potremo (plurale dovuto alla condizione di coppia) goderla senza faticose restrizioni economiche. A un certo punto, mentre tutte le altre città crederanno di aver raggiunto i vertici della modernizzazione riempiendosi di automobili e di veleni, di traffici d’ogni genere invadenti gli spazi civili, Venezia si presenterà alla mente e al cuore delle persone sapienti come l’unica città davvero moderna, la città che si sognava mentre ci si districava nella giungla metropolitana. Mancavano le automobili gli autocarri i camioncini le moto i motorini! Le altre, mortifere, cercavano disperatamente di circoscrivere qualche spezzone del centro (più o meno storico) per renderlo esclusivamente pedonale e non sempre ci riuscivano se non malamente, al contrario Venezia era lì bella e pronta, tutta pedonale, tutta aperta alla persona invece che alla macchina. I canali, poi, come fossero coerenti ai moderni manuali di classificazione delle strade, servivano secondo i mezzi e comunque la cosiddetta motorizzazione per via d’acqua costituiva una taglia, una pena cento volte minore di quella usuale nelle città.
Dal punto di vista urbanistico e architettonico non erano mancati gli obbrobri (per esempio il nuovo Danieli in Riva degli Schiavoni, il Bauer a San Moisè, la Cassa di Risparmio in Campo Manin…), ma la forza coesa dell’organizzazione storica dello spazio, essa stessa totalmente architettura, non aveva perso la guerra contro i vandali come era accaduto a Milano, Roma, dappertutto.
Poi la modificazione da città più moderna del mondo a nonluogo oppresso dal più volgare consumismo estraneo è proceduta senza tregua. Da quando? Ho calcolato, in base alla mia esperienza, a partire da trentacinque, quaranta anni fa. I frequentatori di eddyburg conoscono gli avvenimenti o possono ritrovarne il racconto. Ricordo però che all’inizio degli anni Novanta nacque una nuova speranza. Fu Antonio Cederna a sostenerlo in un articolo su Repubblica del 25 aprile 1990, La rinascita di Venezia (ora pubblicato come “scelto da Luigi Scano” in Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, a cura di Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala, Bonomia University Press). Il piano per il centro storico, “un grande progetto di restauro” varato dalla giunta rosso-verde (sindaco Casellati, assessore Stefano Boato, consulente Scano) sulla base del lavoro precedente avviato da Salzano quand’era assessore all’urbanistica, avrebbe potuto mutare il destino della città, soprattutto fermare l’esodo degli abitanti e riportali almeno a centomila unità (oggi sono meno di settantamila). Sarebbe spettato alla nuova amministrazione dopo le elezioni “attuare il piano e sventare quell’autentica disastrosa calamità che sarebbe l’Esposizione universale del Duemila”. Quest’ultimo, l’unico obiettivo raggiunto. Il progetto è stato tradito e il futuro prossimo renderà irreversibile l’omologazione di Venezia alle altre città. Al posto suo la nuova AIZÉNEV:
- venti milioni all’anno di turisti;
- palazzi storici e belle case normali ristrutturati, fracassati, frazionati, per ottenere alberghi, residence, alloggi da affittare per una settimana o per un week end, negozi e grandi magazzini;
- poche migliaia di abitanti residenti non resistenti, larve atte a “portar fuori il cane” dei nuovi proprietari stranieri;
- laguna sconvolta dal gigantesco macchinismo del Mose (l’“isola intermedia”, il “porto rifugio”, i nuovi moli e le barriere, le paurose “paratoie” diavolesco moloch addormentato sul fondo);
- metropolitana, ossia la terribile “cosa dall’altro mondo” che piomberà (giustamente…) sulla città rovesciata, la più inconcepibile (“incompatibile con la ragione”, Garzanti…et al.) idea che i nemici di Venezia potessero manifestare, fra loro persino l’intelligentone sindaco Massimo Cacciari (non posso capacitarmi pensando alla gente che sale da sottoterra alle previste fermate di Murano, Misericordia, Ospedale Civile, Arsenale);
- e i danni denunciati da me cinque anni fa, continuati fino all’esaurimento della materia da trattare: pareti di edifici di qualsiasi genere dipinti di “rosa e rosa rossi di ogni gamma… assurdi color fragola o giallo polenta… accostamento fra diversi anche su pareti ortogonali” - “finestre in alluminio anodizzato-oro applicate sul filo esterno della muratura al posto dei bellissimi antoni di legno” - “cornici, sporti, segnapiani, colonnine e altri elementi architettonici in pietra d’Istria, rinnovati, anziché con leggera lavatura a getto secondo le buone regole, mediante verniciatura color bianco splendente…”.
(Il cerchio aperto dal corsivo iniziale si richiude su AIZÉNEV: la città da odiare).
12 agosto 2007