Leggendo Alle sorgenti della Metropoli di Fabrizio Bottini su eddyburg (24.10.09) torna in mente il modello insediativo di William Morris, come traspare da News from Nowhwere (1), che ci autorizza a parlare di dimensione metropolitana mentre non ci importano le altezzose accuse di ingenuo utopismo che gli sono toccate. Nell’«Inghilterra comunista» immaginata al 2003 non sarà più necessaria l’abnorme concentrazione della popolazione nei termini propri della grande città industriale poiché la renderebbe inutile il radicale mutamento nello sfruttamento della forza meccanica. Il movimento della popolazione fra le grandi città e la campagna porterebbe a nuovi equilibri tanto per organizzazione territoriale che per rapporti fra le componenti sociali. Si ridimensionerebbero le città enormi come Londra, invece diventerebbero cardini del sistema territoriale «socialista» le città piccole, ricomposte in modo da collegare strettamente le periferie alle aree agricole, da conservare ampie fasce separatrici di «campagna integra» e da assegnare al centro anche le funzioni di «giardino». L’alternativa deriva la propria certezza da una dura critica della realtà di allora e nello stesso tempo presagisce le nostre odierne valutazioni di determinati processi sociali e territoriali. Già anni prima Morris aveva scritto:
«Pensate alla dilagante congestione di Londra, che inghiotte con la sua detestabilità e campi e boschi e brughiere senza pietà e senza speranza, che divide i nostri deboli sforzi per fronteggiare anche i suoi mali minori quali il cielo fumoso e i fiumi torbidi; […] la stessa campagna aperta viene invasa da miserabili costruzioni che scacciano le solide e grigie costruzioni che ancora esistono […]. In breve, il cambiamento dall’antico al moderno comporta la certezza di un peggioramento nell’aspetto del paese» (2).
Morris incontestabile anticipatore: è infatti vero che oggi le città sono dilagate e che le aree metropolitane, laddove siano tali per essere luogo di relazioni complesse, consistono in detestabile distruzione dello spazio agrario, e laddove manchi tale complessità presentano agglomerazioni anche peggiori per uso dello spazio e dell’edificazione; è infatti vero che a deboli sforzi è corrisposto un aggravamento dei mali e che il problema ecologico appare insolubile; è infatti vero che le costruzioni invasive nella campagna sono, ora, miserabili, da un punto di vista diverso da quello di allora ma coincidente coi principi morrisiani se il giudizio riguarda la qualità urbanistica e architettonica nelle nuove sterminate periferie: volgarità, squallore e arroganza si alternano e si intersecano, così esaltando la dignità delle vecchie costruzioni e dei coerenti insediamenti storici in pericolo di essere travolti dall’aggressione edilizia. Il progetto, possiamo denominarlo così, del socialista inglese assume significati ancor più stimolanti le nostre attuali meditazioni se lo osserviamo attraverso l’ottica del rapporto fra l’uomo e i tempi e i modi del vivere: il lavoro, il tempo libero, il riposo…
«William Morris è il primo pensatore socialista che ha introdotto la filosofia del lavoro e del tempo libero direttamente nelle questioni di formazione degli insediamenti» (3).
Non vige contrapposizione fra lavoro e tempo libero nella misura in cui il lavoro debba essere degno di essere eseguito in condizioni ambientali appropriate e il tempo libero possa contenere tempi di lavoro piacevole e utile alla società; in altri termini: le necessità e i diritti dell’uomo si articolano in lavoro onorevole, ambiente circostante confortevole e bello, riposo per la mente e il corpo. L’armonizzazione delle funzioni vitali in un unitario senso della vita corrisponde all’organizzazione territoriale. Il modello, come possiamo ricostruirlo teoricamente e perfino disegnarlo, è policentrico e come tale oppositivo al dilagare della grande città e alla distruzione della campagna. Il ruolo sociale e spaziale della grande città ridimensionata e delle circostanti città piccole (e medie, pare a noi) assettate, diremmo ora, a misura d’uomo, si risolve nel contrario di quello di «divoratrici dei campi»: entità ben delimitate, secondo un disegno che non temiamo di definire propriamente urbanistico relativo sia alle relazioni fra edificato nelle diverse funzioni e la campagna, sia fra le diverse realtà urbane costituenti l’ordine policentrico emergente dal contesto agrario.
fot f. bottini |
Ordine che sarà «il vecchio tricheco baffuto Ebenezer Howard» (Bottini) a prospettare in maniera più circostanziata e non meno convincente. Mi riferisco non alla città giardino di per sé ma all’ipotesi di sistema insediativo mediante «grappoli di città», cioè non l’espansione a macchia d’olio da una città madre, ma un decentramento secondo entità urbane distaccate di misura contenuta, riproducibile quando si tocchino determinate soglie limite. Ne sorte una struttura policentrica integrata da sistemi di trasporto pubblico e da spazi ben definiti di città e di campagna. Una dimensione metropolitana alternativa a quell’abnorme crescita così ben descritta da Morris con l’esempio di Londra che inghiotte «campi e boschi e brughiere…». Una dimensione e un’organizzazione territoriali non rinunciatari dei valori urbani, anzi apportatori di nuove e maggiori possibilità di utilizzo proprio grazie alla ricchezza del policentrismo e al connettivo agricolo che lo garantisce. Rifacciamoci al «Diagram» (4) di Howard.
Come si sa, il grappolo, ripetibile più volte, sarebbe costituito da una città-campagna centrale di 58.000 abitanti e da altre sei di 32.000 dislocate all’intorno. Nell’insieme un organismo urbano-rurale di 250.000 unità in cui «ogni abitante del complesso, pur vivendo in una piccola città, sarà in realtà l’abitante e potrà godere dei vantaggi di una città grande e bellissima; e tuttavia le fresche delizie della campagna saranno a pochi minuti di cammino o di carrozza» (5). La rapidità di spostamento è garantita da una rete ferroviaria (“metro”) che unisce tutte le città satelliti fra loro e a quella centrale. Più grappoli possono designare un ampio territorio, sempre policentrico, a scala grande-metropolitana e regionale. Facciamo un po’ di conti per smentire il luogo comune relativo a presunti difetti consistenti in una densità umana troppo bassa.
Prendiamo uno dei satelliti di 32.000 unità, 30.000 appartenenti al territorio urbanizzato vero e proprio e 2.000 insediate nella campagna produttiva. Secondo lo schema howardiano la città, 1.000 acri (400 ha, 4 kmq), presenterebbe una densità di 7.500 ab/kmq, circa quella del territorio comunale di Milano. La densità propriamente territoriale media dell’ insieme di città e largo spazio agrario pertinente, 6.000 acri (2.400 ha, 24 kmq), sarebbe di 1.143 ab/Kmq, un indice né troppo basso né troppo elevato che esteso a tutto il complesso metropolitano di 250.000 abitanti e alla relativa moltiplicazione a scala regionale rispecchierebbe, insieme alla notevole densità urbana, la straordinaria attitudine del modello policentrico ad assicurare urbanità e ruralità ugualmente forti. (Come la proposta howardiana abbia influenzato l’urbanistica inglese dagli ultimi anni di guerra, poi diversi piani di Mosca e tutta quella pianificazione in Europa rivolta a decongestionare la grande città mediante centri satellite, è ben noto).
Cosa mi risponderebbe «il vecchio tricheco» se potessi raccontargli che avremmo potuto realizzare in Lombardia e nel Milanese un magnifico sistema metropolitano policentrico, operando al tempo giusto (almeno dall’immediato dopoguerra), senza bisogno di fondare dal nulla varie Garden City (o Concord…), ma valendoci del persistente eccezionale policentrismo storico distribuito nella vasta campagna secondo diversi ordini di grandezza dei centri urbani? E che, invece, abbiamo realizzato l’osceno sprawl?
Milano, 11 Novembre 2009
(1) News from Nowhwere, Pubblicazione a Londra 1890, a Boston 1891. Edizione Italiana Notizie da nessun luogo, Garzanti, Milano 1984.
(2) W. Morris, Architettura e socialismo (1881-1892), Sette saggi a cura di M. Manieri-Elia, Laterza, Bari 1963, p. 119.
(3) E. Golzamt, L’urbanistica dei paesi socialisti (1971), Mazzotta, Milano 1977, p. 177.
(4) E. Howard. Garden Cities of Tomorrow(1902). Edizione italiana L’idea della città giardino, Calderini, Bologna 1962, p. 121. La prima pubblicazione dell’opera avvenne nel1898 con un titolo completamente diverso e forse più significativo: Tomorrow, a peaceful path to real reform.