Io ho sperimentato una particolare forma di perdita e di ritrovamento della mia lingua materna. Si tratta naturalmente di una vicenda intellettualmente minore, non solo perché si tratta di un caso personale. Benchè oggi il problema delle diversità linguistiche, della sopravvivenza dei dialetti e delle lingue «minori» può fornirle qualche interesse. Faccio tale affermazione di convinta modestia perché io non posso presentare e offrire qui l’esperienza di una scrittura costruita sullo sdradicamento dai luoghi originari della mia lingua. La mia vicenda di personale spaesamento non ha dato luogo - come è accaduto, ben più drammaticamente, agli scrittori, a coloro che si sono impegnati in linguaggi creativi - a una reinvenzione di linguaggio, resa necessaria dalla perdita dell’alfabeto materno dell’infanzia. Insomma non posso dire con Emile Cioran che abbandonare la propria lingua costituisca « il più grave infortunio che possa capitare a uno scrittore, il più drammatico». Cioran ha fatto ricorso a una bella immagine a tal proposito. Ha scritto: «Se si potesse insegnare la geografia al piccione viaggiatore, il suo volo incosciente, che va diritto alla mèta, diventerebbe impossibile … lo scrittore che cambia lingua si trova nella situazione di questo piccione sapiente e disorientato». Ma io, per mia fortuna, non ho dovuto abbandonare il rumeno per scrivere in francese.
L’approdo finale della mia esperienza, sotto questo stretto profilo, si potrebbe dire che è, molto più modestamente, il silenzio. Lo spegnimento della lingua della vita per potere accedere alla lingua della comunicazione ufficiale, al cosiddetto linguaggio della scienza. L’esperienza che posso qui rapidamente raccontare è dunque quella di una mutilazione, che solo in negativo può portare un qualche rapsodico contributo alla esplorazione del tema che ci è richiesta dal convegno. .
Io sono nato in Calabria, a Catanzaro, sul finire della seconda guerra mondiale, e vi son vissuto per tutta l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza, profondamente immerso nel dialetto locale. La mia origine sociale e le mie frequentazioni quotidiane, già dagli anni dell’ infanzia, mi hanno tenuto alquanto lontano dall’italiano ufficiale, salvo, naturalmente, l’apprendimento scolastico e le mie letture. Ma tutte le altre lingue scoperte a scuola dall’italiano al francese, dal latino al greco, sono servite a mostrarmi altri e più complessi mondi espressivi, non certo ad alterare e intaccare il «vincolo di sangue» che mi legava al dialetto. Quest’ultimo restava sempre, del resto, la lingua vera della classe, del gruppo, della piccola comunità dei compagni. Linguaggio della complicità, dello scherzo, dell’ironia, della trasgressione, dell’amore, del sesso.
Vivere immersi nella propria lingua, nello stesso luogo in cui si è nati, dà un senso di identità e di pienezza che rafforza oltre ogni misura il vincolo esistenziale con le parole. Il linguaggio diventa una seconda natura, un elemento di vita necessario e al tempo stesso inconscio e involontario, come respirare l’aria: se volete, il senso di orientamento del piccione viaggiatore di Cioran. Allontanarsene ha un prezzo, anche nel caso in cui non si è costretti a una scrittura letteraria in una lingua straniera.. Io, ad esempio - non so se questa testimonianza è troppo personale - ho sempre identificato l’abbondano obbligato del dialetto con la perdita, o il forte affievolimento, di quel tanto di attitudine umoristica che faceva parte del mio temperamento.La battuta di spirito, nella mia mente, sin dalle origini, si è formata con le parole primigenie del mio dialetto. L’ironia, lo scherzo, lo sberleffo, talora lo scherno esplodevano sempre all’interno della piccola cerchia della vita comunitaria, dentro quella che potrei chiamare una « comunità linguistica». Ed essi avevano le proprie parole e i propri codici. E’ probabile che ci sia sempre un sostrato storico, una speciale stoffa semantica sedimentatasi nel tempo, alla base dell’umorismo. Il dialetto possedeva inoltre delle parole uniche, dei termini che racchiudevano tipologie umane intraducibili in altre lingue. Penso - tanto per suggerire un’idea - a un termine come strolacu - probabile corruzione di astrologo - con cui venivano designate le persone bislacche e inconcludenti che allora - ma solo allora - non mancavano nel campionario antropologico corrente. Ma ancora più speciale era il termine culistru: una espressione sottilmente onomatopeica di cui non ho mai riscontrato l’eguale in altre lingue. Lo si usava per schernire la persona narcisista, vanesia, piena di sé. Quella parola la bollava alludendo al movimento e alla torsione delle terga di chi quasi femminilmente si pavoneggia. Ma il dialetto aveva espressioni impareggiabili per fare umorismo anche sulle situazioni più penose. Benché, fortunatamente, non più corrente ai miei tempi, quando in casa non c’era nulla da mangiare, si era soliti dire che a gatta passìa subba ‘a furnacia: la gatta passeggia sulla fornace, la cucina desolatamente spenta.
Debbo tuttavia dire che la perdita in certi casi è anche un ritrovamento. Un legame identitario troppo forte talora impedisce, per mancanza di comparazione con altre lingue, di cogliere le strutture profonde della propria. Solo quando dalla mia città mi sono trasferito a Roma, quando ho dovuto rinunciare in maniera costante e quotidiana all’uso del dialetto, ho scoperto dei piccoli tesori semantici che prima mi erano sfuggiti. Mi sono accorto, ad esempio, dell’assenza, nella lingua italiana di un verbo capace di esprimere la disposizione corporale e psicologica della persona che vuol dormire o sta già dormendo.Il dialetto calabrese la possiede, ed è una tenerissima metafora poetica, tratta dal mondo animale: ‘ngattarsi, cioè raggomitolarsi come fa il gatto che vuol dormire.Ngattati e dorma erano le parole premurose con cui alla sera la mamma metteva a letto il suo bambino o la sua bambina . Nessun termine della pur ricchissima e meravigliosa nostra lingua può rendere il termine papariare, così diffuso un tempo nel «lessico familiare» della mia città, e così carico di figurazioni e risonanze intraducibili. E’ il verbo che esprime l’andare a zonzo, come fa la papera, ma con un tocco speciale di dissipazione del tempo, di dondolamento nell’incedere, e di nessuna cura della méta da seguire. E sempre restando nel mondo animale senza sinonimi mi appare ancora oggi il termine runduniare: il particolare moto senza posa di certe persone irrequiete che come il rondone vanno di qua e di là cercando qualcosa di indefinito, che sfugge agli osservatori esterni. Questi termini mi hanno fatto comprendere, più di qualsiasi ricerca storica, quanto profondo, e per così dire fondativo, sia stato il legame di quel piccolo mondo urbano con i fenomeni della natura, le piante, gli animali, e insomma il dominante contesto rurale da cui esso era ancora circondato
Ora, c ‘è un piccolo paradosso nella mia personale storia intellettuale e professionale Un paradosso che può forse fornire qualche valore alla mia testimonianza. A un certo punto della mia vita io sono diventato uno storico e questo mi ha posto di fronte alla ovvia necessità non solo di accettare, ma di ratificare l’insignificanza della mia lingua originaria anche nella lingua scritta. Comunicare voleva dire usare una lingua irrigidita in codici e regole. Un mezzo “neutro”, privato degli spazi reconditi, delle ombre, dei suoni, dei segreti, delle complicità che ogni dialetto possiede, frutto linguistico di un legame profondo delle comunità con la terra, gli animali, la vita e la morte.Per scrivere di storia io dovevo sopprimere quella personale stoffa storica personale che era il mio dialetto.Le necessità del linguaggio scientifico mi disancoravano ancor più radicalmente dalla patria geografica e culturale che avevo fisicamente abbandonato per intraprendere la vita universitaria e poi l’avventura della ricerca. Ma il paradosso sta nel fatto che l’approdo allo studio della storia ha coinciso, per me, con una più profonda conoscenza della realtà e del passato della mia regione di origine. Tramite la ricerca storica, almeno che ho condotto agli esordi e per una certa fase, io ho scoperto il mondo delle campagne calabresi, il popolo multiforme dei contadini, la loro vita, le loro culture. Grazie alla cancellazione della lingua materna, e accettando i canoni del sapere accademico, io ho incontrato il mio passato, la mia storia, il fondo antropologico su cui quella stessa lingua era sorta. Ma alla geografia dei luoghi, delle economie, dei fatti e dei processi di trasformazione sociale che sono andato esplorando non corrispondeva una geografia dei linguaggi, dei dialetti, delle forme di comunicazione e di rappresentazione di quell’ inesauribile tesoro verbale elaborato in secoli di vita dal mondo popolare. In quella ricostruzione gli uomini e le donne parlavano indubbiamente con i fatti e i processi materiali di cui erano protagonisti o vittime, ma non con le proprie parole. I contadini, incapaci di lasciare tracce scritte della loro esperienza, del loro passaggio sulla terra, restavano muti. Sono rimasti muti anche per me. Solo di tanto in tanto sono riuscito a dar loro voce, utilizzando quei particolari fossili verbali che sono i proverbi e i modi di dire. Reperti inutilizzabili per una storia événementielle, ma imprescindibili per chi voglia ricostruire codici culturali e le strutture profonde della mentalità. «Pari venutu i Cutroni», sembri tornato da Crotone, si diceva nella provincia di Reggio delle persone malandate nel fisico, come se avessero duramente lavorato nelle campagne dove imperversava la malaria. «Faticamu da li stidri da matina a li stidri de la sira»: fatichiamo dalle stelle del mattino alle stelle della sera. Così, con involontaria poesia, si esprimevano le contadine della provincia di Catanzaro nel dopoguerra, mentre lottavano per più dignitose condizioni di vita.
(Testo, lievemente modificato, di un intervento letto al Convegno “I confini della scrittura. Dispatri reali e metaforici nei testi letterari.” Università di Roma La Sapienza, 10-12 marzo 2005.)