Comunità del cibo, cuochi, università: questi i tre temi che ho trattato in una relazione scritta per l’edizione 2006 di Terra Madre, che sarà pubblicata sul n. 1 di Scienze Gastronomiche, la rivista dell’omonima Università. . Li affronto in questa “opinione” che vuole essere anche un mio omaggio ai partecipanti alla Scuola di Eddyburg, che inizia il 26 settembre prossimo.
Non senza ragione qualcuno si può domandare: che cosa tiene insieme, e pone in relazione, le comunità del cibo ai cuochi – tanto i grandi creatori di piatti quanto i semplici ristoratori - e queste ultime realtà, a loro volta, alle Università? Quale può essere il fine di un incontro e di un dialogo tra mondi apparentemente così lontani e diversi? A dispetto di qualche possibile iniziale incomprensione l’incontro di Torino nasce, a mio avviso, da un’idea fertile e di grande respiro e corrisponde perfettamente all’orizzonte progettuale di Slow Food oggi: alle sue attuali strategie di ricerca e di movimento oltre che al complesso delle sue istituzioni, prima fra tutte l’ Università di Scienze Gastronomiche.
Partiamo dalle comunità del cibo, dai contadini, allevatori, pescatori che, venuti da ogni angolo del mondo, sono stati protagonisti del raduno senza precedenti di Terra Madre 2004 e ora ripetono, in forme nuove, l’esperienza. Spesso a tale multiforme realtà dei produttori primari – che costituisce una parte preponderante dell’attuale popolazione mondiale – si assegna un confuso e unilaterale profilo: quello della sua marginalità sociale rispetto al mondo e ai redditi dell’industria.Se si usa il termine contadini, poi, molti pensano addirittura a una realtà arcaica e remota. L’accusa “infamante” di terzomondismo è pronta a scattare per svalutare anche la più generosa e lungimirante delle idee. Non è qui il caso di mostrare analiticamente quanto sia miope e superficiale una tale valutazione. Ma vale la pena rilevare il dato fondamentale che essa dimentica. Poche persone, anche fra i ceti colti dell’Occidente, sono infatti informate e consapevoli di quale inestimabile e insostituibile ricchezza sono portatori i ceti produttivi delle campagne.Una ricchezza che oggi è così ripetutamente gloriata ed enfatizzata nelle società postindustriali: il sapere. E tuttavia, in questo caso, non si tratta di un sapere meramente tecnico, che si può apprendere sui libri, ma di un sapere storico, risultato di una trasmissione millenaria tra le generazioni. Nessuna industria o istituzione può riprodurlo.Esso fa tutt’uno con le culture e le realtà sociali che lo hanno elaborato nel tempo. In realtà le comunità del cibo sono presidi di saperi che ancora sopravvivano e resistono alla marea dell’omologazione culturale che assedia ogni angolo del pianeta. Sono la riserva di sapienza da cui è emersa la nostra storia.
Diciamolo con la chiarezza e l’energia che la cosa merita. La cultura storica contemporanea è vissuta e vive tuttora sulla cancellazione di una incontrovertibile verità: l’agricoltura industriale è nata e si è sviluppata in Europa e negli USA quando, nelle campagne del mondo, tutto era stato già scoperto.Nel XIX secolo, allorché parte quell’avventura, i contadini delle varie regioni del pianeta avevano già da qualche millennio selezionato pressoché tutte le piante e gli alimenti che comporranno la cucina in età contemporanea. Essi avevano infatti già “creato” il grano e gli altri cereali minori nel Vicino e Medio Oriente e in Africa, il riso nel Sudest asiatico, il mais in America Latina.Non meno creatori essi erano stati nel campo degli ortaggi, dalla patata americana alla melanzana asiatica, dai carciofi agli asparagi, dai pomodori alle zucche. E così anche – ma è il caso di ricordarlo? – per l’infinita varietà della frutta selezionata nel bacino del Mediterraneo, nel Medio Oriente, nelle regioni situate lungo la fascia dei tropici.[1] Dunque, l’agricoltura industriale ha ereditato questo immenso patrimonio di conoscenze, - che nessuno aveva mai brevettato e patentato, frutto di millenni di anonime sperimentazioni - e l’ ha diffuso su larga scala accrescendone enormemente la capacità produttiva, selezionando e migliorando alcune nuove varietà, ma riducendo progressivamente, nel corso del ‘900, la biodiversità di quel grande lascito.Non ho la competenza e la sicurezza per essere cosi perentorio come Claude Bourguignon: « Da 2000 anni non è più stata addomesticata una sola pianta agricola».[2] Ma è certo che, se qualche cosa ci sfugge nella lunga vicenda agricola dell’era volgare, essa non ha alcun carattere decisivo. I contadini avevano, in effetti, già selezionato pressoché tutto.
Ebbene, una delle “scoperte” su cui la ricerca storica ci permette oggi di riflettere è che la selezione millenaria delle piante è avvenuta a stretto contatto con il loro uso culinario. A spingere verso la sperimentazione di nuovi semi o di nuovi metodi, all’interno delle comunità, erano le figure che si occupavano della preparazione del cibo. Erano queste che saggiavano la riuscita alimentare delle diverse piante, dei modi di coltivarli, dei diversi terreni utilizzati.. Studi recenti, ad esempio, hanno mostrato il ruolo avuto dalle donne delle Ande nella creazione di migliaia di varietà di patate. Esse conoscevano tuberi in grado di resistere ai geli di oltre 3000 metri di altezza, ma questi erano di gusto amaro, ben diverso da quello dolce delle valli e delle pianure. E così hanno lungamente operato, insieme ai loro uomini, per trovare le varietà in grado di resistere alla molteplici avversità e garantire al tempo stesso uno gusto sempre più gradito ai palati.[3]Del resto tanto gli studi antropologici che le testimonianze contemporanee[4] ci dicono che ancora oggi in genere sono le donne ad avere il compito di selezionare i semi nelle agricolture dei Paesi a basso reddito, e sono sempre loro a occuparsi della preparazione dei pasti.
Allora, da questi rapidi cenni si dovrebbe almeno intuire l’importanza di fare incontrare i cuochi con i saperi originari di cui sono custodi le comunità del cibo.Per i maestri dell’arte culinaria si tratta della possibilità di un contatto diretto con la ricchezza e varietà delle piante, dei sapori, degli aromi, delle combinazioni molteplici elaborati lungo un arco millenario.Può essere qualche cosa di simile alla scoperta che l’avanguardia pittorica europea ha fatto dell’arte africana agli inizi del ‘900.Un incontro rigeneratore, dunque, fra l’arte del cucinare, anche la più raffinata, e lo scrigno primigenio della tradizione, la grande arca di Terra Madre.Ancora più agevolmente si comprende l’interesse di contadini, pescatori, allevatori, per il mondo della grande elaborazione gastronomica, che apre nuovi orizzonti e suggestioni alla sperimentazione agricola.Da qui, davvero, può ripartire, in forme nuove, una storia antica.
Si prospetta dunque un incontro che può arricchire reciprocamente le parti, piccoli e grandi,oscuri lavoratori e stelle del firmamento culinario, e può fornire un contributo al tempo stesso universale alla gloria del cibo: questo bene primordiale e gioia irrinunciabile alla base della nostra vita, realizzabile solo attraverso una cooperazione di comunità, veicolo possibile di equità sociale e di pace, secondo il progetto ventennale di Slow Food. Ma c’è un altro interesse, più largamente politico, alla base di tale possibile dialogo.I cuochi, soprattutto quelli circondati da più universale prestigio,dovrebbero oggi scoprire – e taluni hanno già scoperto -un nuovo impegno nel difendere la biodiversità agricola di cui le comunità del cibo sono gli ultimi custodi. La base stessa della loro arte è in pericolo.La crescente uniformità industriale dei prodotti agricoli minaccia, infatti, anche il loro avvenire.
E l’ Università? Che cosa ha a che fare il mondo accademico con tutto questo, a parte il fatto noto che anche i professori mangiano?Qui risiede, a mio avviso, il nesso apparentemente meno visibile dei tre mondi che saranno protagonisti a Terra Madre 2006. Il meno visibile, ma anche il più necessario e certo frutto del pensiero più ardito di tutto il progetto.Peraltro, esso sta alla basedelle ragioni che hanno portato alla istituzione dell’Università di Scienze Gastronomiche. Le Università, com’è noto, sono centri di ricerca, di elaborazione e trasmissione dei saperi alti delle società del nostro tempo.Ma esse sono state – e in parte, per fortuna, continuano a esserlo – il luogo della libertà del pensiero critico, le cittadelle indipendenti al di sopra dei conformismi e degli interessi sociali dominanti. Ebbene, tale realtà è da tempo soggetta, soprattutto nei Paesi industriali e postindustriali, a un processo di accelerata erosione, che qui non si pretende certo di prendere in esame, ma a cui occorre far cenno.
Intanto, è all’interno degli stessi saperi che si verificano mutamenti di cui non si valuta quasi mai la portata sociale generale. E’ vero, la conoscenza scientifica non fa che accrescersi in termini di singole scoperte, di esattezza dei risultati, di potenza delle sue singole e specifiche applicazioni.Ma è una conoscenza sempre più specialistica, chiusa nei confini della propria disciplina, che non dialoga con le altre e che soprattutto si muove entro il limitato - e ormai distruttivo - paradigma novecentesco di promuovere la crescita economica qualunque essa sia. Per giunta – per un fenomeno interno all’evoluzione della scienza e già segnalato da alcuni pensatori sin dai primi del ‘900 - i saperi scientifici tendono progressivamente a perdere il loro sguardo universale e tradursi sempre più velocemente in applicazioni tecnologiche operative. Da saperi degradano a strumenti.Il contenuto di pensiero generale che un tempo animava le diverse discipline tende a essiccarsi, a esaurirsi nel suo fine utile.Un processo accelerato, peraltro, dalla pressione che il mondo dell’industria esercita sulla cittadella della scienza per avere dispositivi immediatamente inseribili nel ciclo economico.
Questa fenomenologia del sapere non è senza conseguenze sul mondo delle Università. Almeno in alcuni ambiti essa produce professioni forse più agguerrite sul piano strettamente disciplinare – un dato che andrebbe, tuttavia, valutato caso per caso – ma sempre più prive di un collante progettuale generale. Il nesso tra i saperi professionali – spesso sostenuti dall’impegno delle Università pubbliche – e le loro ricadute civili tende ad affondare in una indistinta foschia.Qual’è oggi l’interesse generale che le istituzioni accademiche sono chiamate a favorire e promuovere?Una domanda radicale che, significativamente, non ci poniamo più. Dalle Università, infatti, escono quadri tecnici e figure delle future classi dirigenti che non sembrano possedere altro orizzonte operativo che riprodurre le condizioni di una accresciuta potenza della macchina economica.Oggi possiamo osservare giovani laureati in economia che posseggono le conoscenze più sofisticate in marketing o in gestione aziendale, ma che non hanno neppure una conoscenza superficiale, ad esempio, di come il mercato agricolo mondiale, dominato da USA ed Europa, condanni alla stagnazione o alla rovina le agricolture dei Paesi poveri.Ed essere informati su tale aspetto non è semplicemente un imperativo di carattere morale. Bisogna infatti chiedersi: può un giovane economista europeo ignorare il fatto che la crescente e disordinata immigrazione di disperati provenienti dai vari angoli del mondo – uno dei grandi problemi sociali dell’Europa d’oggi e di domani – è il risultato dell’ iniqua ragione che domina da decenni gli scambi mondiali ? A che serve la sua laurea se non sa questo?Certo potrà svolgere bene il suo lavoro in azienda, ma come cittadino europeo la sua ignoranza è uno scacco collettivo.In questo caso l’arricchimento strettamente professionale coincide con un immiserimento civile. Allo stesso modo possiamo osservare tanti giovani agronomi che sanno tutto sulle patologie della patata o sulla fertilizzazione minerale dei terreni, ma ignorano completamente l’isterilimento e talora l’avvelenamento subito dai suoli agricoli negli ultimi 50 anni di concimazione chimica intensiva .E’oggi in atto un grandioso processo di erosione – risultato anche delle pratiche agricole industriali – che ci fa perdere ogni anno milioni di ettari di suolo fertile in tutto il mondo. Ebbene, le Università devono ancora produrre tecnici che continuano a teorizzare metodi e filosofie produttive destinati a perpetuarlo? L’ossessione economicistica che agita oggi i gruppi dirigenti di gran parte dei Paesi del mondo tende a subordinare ogni sapere e ricerca alle loro immediata utilità economica. Cosi, mentre spesso, in passato, è stato motore storico dell’innovazione e della trasformazione sociale, promotore di arricchimento e di liberazione umana, il sapere accademico rischia oggi di trasformarsi in fonte di alimentazione del più gigantesco processo di conformismo culturale dei tempi moderni. E qui sta, come ognun vede, un nodo rilevante del nostro tempo.Si tarda, infatti, a prendere atto del drammatico mutamento globale che abbiamo di fronte a noi: i dirigenti, i tecnici, gli esperti, che escono dalle Università non possono più limitarsi a rendere più produttive le aziende. Essi devono cercare di rendere le loro economie compatibili con risorse generali sempre più scarse, con equilibri globali sempre più fragili e complessi, essere consapevoli delle ricadute sociali collettive della ricchezza prodotta. Serve un altro sapere, non per produrre di più, ma per produrre meglio, e per distribuire meglio la ricchezza, con una nuova consapevolezza della natura che manipoliamo, e per conservare e valorizzare i patrimoni che abbiamo ereditato.
Ecco, le idee e le conoscenze con cui le Università e i singoli docenti dovrebbero dialogare con le comunità del cibo e i cuochi a Terra Madre è quello che definirei una sapienza delle connessioni. Certo, l’Università mette a disposizione un ventaglio molto ampio di discipline, ma io credo che lo sforzo comune di queste dovrebbe essere indirizzato a mostrare i legami storici, economici, sociali, biologici, ambientali che connettono i produttori agricoli con i creatori di cibo e questi con l’insieme delle comunità umane. Mentre a loro volta i docenti possono apprendere i legami insospettati tra i vari fenomeni della vita che gli altri mondi, quello della produzione e della manipolazione, conoscono per pratica quotidiana. E’ questo, del resto, l’orizzonte davvero nuovo e incoraggiante verso cui sta muovendosi una folta avanguardia del sapere scientifico dei nostri anni. Personalmente considero come la più grande intuizione dell’ecologia in età contemporanea la sua idea base: la scoperta della complessa inscindibilità del vivente. La vita, la Terra, tutta la realtà che abbiamo intorno è un complesso di connessioni e di infinite e mutue relazioni.La rottura di un punto si ripercuote su tutto l’insieme. Per questo gli studi che indagano sui terremoti, sui mutamenti climatici, sulla biodiversità, sulle trasformazioni ambientali, sono oggi ricerche fondate sulle cooperazione delle discipline, sulla alleanza dei saperi.Essi mostrano come la ricerca dell’interesse generale, il perseguimento del bene comune, possa spingere la scienza a uscire dal proprio unilaterale riduzionismo, dalla propria separatezza disciplinare, dal proprio asservimento ad interessi particolari e limitati, e trasformarsi in dialogo e cooperazione. Del resto, anche l’Università di Scienze Gastronomiche istituita da Slow Food nel 2004 è dentro questo orizzonte. Essa non è una nuova Università privata qualsiasi che si aggiunge – com’è avvenuto negli ultimi anni - a tante altre in Italia e nel mondo. La sua ambizione, del tutto inedita, è di creare una figura di gastronomo, che non limita le sue competenze alla preparazione del cibo, ma è anche consapevole che la sua materia prima viene dalle varie campagne del pianeta, frutto dell’oscuro lavoro degli agricoltori, spesso mal pagati, privi di mezzi, svolto in un ambiente sempre più minacciato da inquinamento e distruzione.Il nuovo gastronomo è gravato da una nuova responsabilità – quella che deve accompagnare oggi l’opera di ogni portatore di saperi - che è insieme etica e di conoscenza, al fine di produrre un cibo buono, pulito e giusto, come suona saggiamente il titolo del libro manifesto di Carlo Petrini.[5] Egli non può, infatti, dimenticare che la materia su cui opera è condizionata dalla salubrità ambientale dell’agricoltura, e dai rapporti sociali, dalle condizioni di necessaria equità di cui il lavoro agricolo dovrà godere per continuare a esercitarsi. Non può dimenticarlo anche per la semplice ragione che le basi stesse della sua opera e ragion d’essere potrebbero venire distrutte nel prossimo avvenire.
Le comunità del cibo di Terra Madre rappresentano un concetto nuovo. La comunità del cibo è formata da tutti quei soggetti che operano nel settore agro-alimentare, dalla produzione delle materie prime alla promozione dei prodotti finiti, e che si caratterizzano per la qualità e la sostenibilità delle loro produzioni. La comunità del cibo è strettamente legata – dal punto di vista storico, sociale, economico e culturale – al proprio territorio.
Le comunità del cibo sono di due tipi:
di territorio: la comunità produce più prodotti, anche diversi tra loro, ma tutti legati a un’area geografica delimitata o a una etnìa indigena
di prodotto: la comunità è composta da tutti quegli agricoltori/allevatori, trasformatori e distributori che concorrono, a diverso titolo, alla produzione di uno stesso prodotto su un preciso territorio. In questo caso la comunità del cibo coincide con la filiera produttiva.
I prodotti delle comunità sono realizzati in quantità limitata, da aziende agricole o di trasformazione di piccole dimensioni. Il prodotto o i prodotti delle comunità si distinguono inoltre per la loro qualità:
organolettica: il prodotto è buono;
ambientale: il prodotto è pulito, naturale, sostenibile;
sociale: i produttori ricevono un giusto compenso; inoltre, all’interno delle comunità non sono praticate discriminazioni di alcun genere, né si ricorre al lavoro minorile.
Le comunità del cibo sono i protagonisti principali della rete di Terra Madre, ma è solo attraverso il reciproco scambio di esperienze e competenze con le università e i cuochi che i valori di Terra Madre riusciranno ad avere un’eco significativa presso il grande pubblico.
Dal sito di Terra Madre 2006
[1] Una mappa sintetica di questa geografia delle produzioni agricole originarie in C.Boudan,Le cucine del mondo.Geopolitica del gusto, Donzelli Roma, 2005, p. 95 e ss.
[2] C. e L.Bourguignon, Il suolo.Un patrimonio da salvare,Prefazione di M. Smith, Slow Food Editore, Bra 2004, p.98
[3] Cfr. M.Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi Torino 2005, p. 249
[4] Si veda per l’India la testimonianza di V.Shiva, L’industria biotecnologia si basa su fondamenta di menzogne e illegalità, in L.Silici( a cura di ) Ogm. Le verità sconosciute di una strategia di conquista, introduzione di F.Pratesi, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 52.
[5] Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Einaudi Torino 2005.