Rigidità è per esempio e paradigma quella della forma della casa citata in apertura, sia nel progetto «familiare», sia nell'organizzazione dei quartieri quando esiste qualcosa del genere, sia nella gestione e amministrazione del servizio casa quando questo entra a far parte dei programmi di welfare. Qui nemmeno l'approccio razionalista ed efficientista industriale riesce a andare oltre certi studi meccanici del filone existenzminimum, se è vero che di fatto poi la produzione di abitazioni, e soprattutto la gestione del grande comparto pubblico, resta ancorata al modello granitico della famiglia nucleare. Al punto che in tantissimi paesi, segnatamente la Gran Bretagna dove di fatto si è quasi «inventato il modello», dopo diverse generazioni si scontano ancora diseconomie e polemiche politiche di grande rilievo, quando l'assegnazione e godimento di alloggi pubblici vede una incredibile discrasia tra domanda e offerta, soprattutto a fronte della crescita esponenziale di famiglie di una sola persona a occupare per vari motivi spazi enormi. Un relativo lusso, certo, ma a spese di altri.
C'è poi l'approccio neoliberale mercatista, che prima con la retorica della creative class, del suo contributo allo sviluppo locale, ha provato a sperimentare soluzioni edilizie e urbanistiche diverse, poi riproducendole in modo piuttosto meccanico pro domo sua ha creato e continua a creare ghetti gentrificati per i cosiddetti Millennials, giovani che ancora non si sono formati una famiglia, e che secondo il mercato semplicemente «aspettano di trasferirsi in una villetta unifamiliare». La risposta del privato è quella di realizzare delle sorte di pensionati studenteschi allargati, in cui i microappartamenti (comunque esclusivi e costosissimi per unità di superficie) si mescolano a localini e negozi di tendenza, spazi di coworking e altre amenità a mezza strada fra il campus universitario e una specie di azienda individuale diffusa sul territorio. Ma ancora qui non si coglie affatto che quella condizione individuale forse non è affatto provvisoria, che richiederebbe un ripensamento abbastanza radicale dell'approccio, dei servizi, della città che ci sta attorno insomma.
Perché le nude statistiche, oltre a cose magari apparentemente più effimere ma assai significative come associazioni, pubblicazioni, prodotti mirati, ci dicono che «stare da soli» (cosa diversa dalla solitudine patologica così come viene proposta di solito) è tendenza in grande crescita. Case, quartieri, welfare, trasporti, servizi, paiono inchiodati a quel modello familiare nucleare fissato nel XIX secolo e a quanto pare per ora inamovibile, mentre la realtà va da un'altra parte, a volte solo soggettivamente e psicologicamente, in altri casi anche proiettandosi in modo vistoso sulla realtà. Qualcuno naturalmente ha già provato, in una logica di marketing politico, a calcolare quanto peso relativo possano esprimere le istanze di questo neo-individualismo postindustriale, e se si tratti tendenzialmente di istanze declinabili in senso progressista o liberista-conservatore. Ovvero se orientate più al modello del single solo al comando, oppure a quello democratico dell'eremita meditante. E anche così, guardando agli attriti fra la città com'è e come ce la immaginiamo, con le tensioni nelle periferie tra anziani soli barricati dentro spazi inadeguati e nuove formazioni che rivendicano diritto alla casa, si capisce quanto complicato sia, farsi un'idea ragionevole del senso di destra o sinistra, oggi.