Chi parla di gentrification al giorno d'oggi, spesso si concentra su dettagli forse di qualche importanza ma inessenziali a cogliere l'entità del problema. I più lontani dal capirne le dimensioni sono, come spesso accade, gli esteti, ovvero chi chiama gentrificazione qualcosa che non lo è, assomigliando invece molto al vecchio meccanismo dello sventramento urbano ottocentesco. La città si è evoluta, a spese dei suoi abitanti naturalmente, e presenta potenzialità di investimento per qualcuno, salvo spazzar via quegli abitanti e le loro sovrastrutture edilizio-sociali, si tratti di case, fabbriche, negozi, tessuto stradale e di spazio pubblico. Nel medesimo posto nascerà un nuovo quartiere, abitato e usato da chi è in grado di sborsare quanto atteso dagli investitori.
C'è poi il processo di sostituzione sociale allo stato puro, quello che scientificamente si chiama davvero gentrification, così come fissato mezzo secolo fa dalla sociologa Ruth Glass studiando le trasformazioni di una zona di Londra: gli abitanti di un quartiere hanno costruito faticosamente nel tempo le loro strutture spaziali e sociali, gli equilibri dentro cui vivono, e si tratta di una massa di valore assai appetita dal mercato, con una specifica. Ovvero che delle relazioni sociali al mercato non frega assolutamente nulla, bastando e avanzando il puro contenitore, l'immagine esterna, gli aspetti diciamo così folkloristici. Lo sventramento non c'è, sostituito da un processo strisciante, dove nuove famiglie e attività prendono il posto delle vecchie, gli edifici si «riqualificano», le botteghe si fanno il cosiddetto refurbishment, di solito spariscono le attività produttive e i posti di lavoro.
Fin qui, i dettagli, dei vari modelli, puri e misti (perché le due cose di solito si mescolano), della gentrification. Che non finisce certo a quel punto, dato che come si dice il vuoto in natura non esiste. Per un principio da vasi comunicanti, se le eleganti signore vanno a riempire coi loro divani d'antiquariato le stanze lasciate libere dalle famiglie di lavoratori, non solo queste famiglie di lavoratori dovranno andare a scavarsi nuove nicchie, ma i cerchi concentrici si faranno sempre più ampi. Così il mitico mercato protegge il proprio investimento, confermando la vera natura del processo di gentrification, che non è solo e tanto la sostituzione dei borghesi ai proletari (come dicono ormai spesso infilando orrendi strafalcioni anche i vocabolari e le enciclopedie), ma l'imporsi dell'omogeneità là dove regnava la complessità. Omogeneità è anche l'allargarsi progressivo, all'infinito tendenzialmente, di questo identico sistema socio-economico-spaziale e degli stili di vita. E forse non è un caso se questo modo masochista di concepire la «riqualificazione urbana» si accompagna al ritorno verso le zone centrali di chi le aveva abbandonate per il suburbio borghese una o due generazioni fa. Perché ormai pare che l'omogeneità assoluta, che fa il paio con la mitica privacy familiare, debba essere valore imprescindibile, ma quando ci si allarga oltre un certo limite saltano resilienza e vitalità.
Un segnale chiaro di questo enorme problema, a quanto pare tecnologicamente irrisolvibile al momento, era emerso con gli attentati dell'11 settembre 2001, e un certo ritardo nei soccorsi, dato che i soccorritori professionisti, lavoratori per definizione, abitavano lontanissimi dal simbolico luogo dell'opulenza finanziaria scelto dai terroristi. E del resto da lustri ormai si leggevano storie di insegnanti delle scuole, infermieri negli ospedali e ambulatori, vigili del fuoco e poliziotti, costretti a trasferte infinite per recarsi in un luogo di lavoro strettissimamente connesso alle persone che ci stanno, ma da cui dovevano star fuori. In pratica, loro non erano propriamente «persone», là dentro il gigantesco quartiere omogeneo prodotto dalle aspettative del mercato. Tutto nato nel laboratorio suburbano, in quei quartierini immersi nel verde ma chiusi come fortezze ai non ricchi, salvo ai pendolari giardinieri, colf, operai della manutenzione, guardiani. I quali però potevano abitare solo lontano, a volte lontanissimo, al punto da doversi organizzare come nomadi, in qualche vero e proprio campo abusivo di colf giardinieri badanti, a portata di mano dalle irraggiungibili villette degli arricchiti. Adesso, il medesimo problema si ripresenta nelle forme surreali dell'economia della rete, e dei lavori semi-schiavisti assimilati sadicamente alla cosiddetta sharing economy: sono i tassisti di Uber, letteralmente accampati nei parcheggi, dentro le auto che poi useranno per scorazzare i ricchi clienti qui e là. E la domanda ovviamente, qui non riguarda solo qualche quota di abitazioni economiche da introdurre obbligatoriamente nei quartieri di lusso, neanche fossero le antiche stanze della servitù dei palazzi nobiliari.