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Piero Bevilacqua
La sfida di Barca
24 Aprile 2013
Piero Bevilacqua
E' difficile intervenire sul documento di Fabrizio Barca Un partito nuovo per un buon governo, in un momento nel quale il partito oggetto del disegno riformatore è andato in frantumi...

E' difficile intervenire sul documento di Fabrizio Barca Un partito nuovo per un buon governo, in un momento nel quale il partito oggetto del disegno riformatore è andato in frantumi. E mentre quello speciale sopramondo che è la vita politica italiana è precipitato nel caos. Anche se non si può fare a meno di pensare che proprio in momenti drammatici come questi si possono generare gli ardimenti delle svolte risolutive. D'altra parte, quello di Barca vuole essere un progetto di medio-lungo periodo, com'è giusto, perciò la discussione può riguardare aspetti progettuali per cosi dire fondativi della sua proposta, lasciando sullo sfondo – ma solo fino a un certo punto – le spinosissime questioni immediate.

Di tali aspetti progettuali io privilegerei, per brevità, l'idea di separare nettamente il partito dallo Stato. Un “Partito-palestra”, scrive Barca, radicato localmente, fondato sul volontariato, «sfidante dello Stato stesso» e in grado di procurarsi dal basso le risorse necessarie alle sue attività. Si tratta di un punto di portata strategica. Come da tempo ha messo in evidenza la politologia internazionale, in quasi tutti i paesi avanzati il sistema politico si è andato configurando come un meccanismo di cartel party, un cartello controllato da due partiti dominanti. Nelle democrazie inglese e americana il bipartismo perfetto incarna pienamente tale modello, con due organizzazioni che fanno la stessa politica e competono per il controllo del potere. Questi partiti sono diventati nei decenni i gate keepers, come li chiamano Y. Meny e Y Surel. In Populismo e democrazia, «i guardiani che vietano l'accesso ai nuovi arrivati», impedendo loro l' accesso alle risorse pubbliche e tenendo lontane tutte le forze, i movimenti, le culture politiche minoritarie che vogliono entrare nelle istituzioni. Il PD è nato per incarnare questo modello in una fase storica in cui esso mostrava tutta la sua grave usura storica, il deficit crescente di democrazia che imponeva negli stessi paesi in cui era nato, dove pure aveva garantito, con alti e bassi, un qualche tasso di rappresentatività. Dunque la nascita del PD costituisce un tentativo tardivo e involutivo di “modernizzazione” del sistema politico, che ha creato molti più problemi di quanto non ne abbia risolti. Intanto, anche grazie al sistema elettorale maggioritario, ha finito con l'emarginare e cacciare dal Parlamento le varie culture politiche disseminate nel Paese che non trovano più rappresentanza. La sinistra radicale – formazione anche tatticamente utile in un Parlamento nel quale si vogliono vincere resistenze conservatrici - è stata messa in un angolo. Non senza responsabilità – questo è ovvio – da parte della medesima.

Un partito siffatto, nella fase storica in cui le risorse da distribuire con il welfare diminuiscono costantemente, che ha abbandonato gli ancoraggi con le realtà locali e dunque il supporto della militanza diffusa, vede nelle risorse finanziarie pubbliche (ma anche private!) lo strumento fondamentale per la competizione con il partito avverso. Diventate sempre più ristrette le basi del consenso popolare, anche per effetto delle scelte neoliberiste – promotrici delle virtù del mercato su quelle del governo dei fenomeni sociali – il PD diventa un partito che non promuove più azione sociale, ma produce messaggi e ha perciò bisogno di televisione e di tutti i costosi strumenti del marketing elettorale. Ma ha bisogno anche di potere e di danaro per tutti i suoi dirigenti a livello centrale e periferico. E tale necessità diventa, a sua volta, inevitabilmente, il fine dell'agire politico di un numero crescente di figure sociali, sempre più svincolate da obblighi di appartenenze ideologiche. Il lettore può agevolmente riempire tale schema con la cronaca politica e giudiziaria degli ultimi anni. Quanto la trasformazione di un partito di massa in una macchina elettoral-clientelare abbia devastato lo spirito pubblico nazionale, specie nel Sud, e favorito la crescita della criminalità, è intuibile. Senza dimenticare che tale partito competeva con una forza politica che faceva e fa della violazione delle regole dello Stato di diritto il suo marchio d'origine.

Si comprende, dunque, come la proposta di Barca va a colpire una struttura fondamentale della degenerazione di un potenziale partito di massa. Una questione normativa – dunque eminentemente tecnica - che ha riflessi politici e perfino morali di grande rilevanza. Io credo molto in questo approccio “tecnico” di Barca per una ragione fondamentale. I partiti e soprattutto i partiti della sinistra, hanno perduto ovunque il loro più straordinario collante interno: la religiosità del fine da raggiungere, che metteva a tacere gli egoismi e la riottosità dei singoli, e rendeva il collettivo sufficientemente coeso da reggere agli urti della lotta. Oggi questa coesione si è dissolta, anche per motivi storici generali e positivi. Le società occidentali si sono secolarizzate, la religione ha cessato di essere istrumentum regni – salvo nelle goffe sette sopravvissute nei partiti italiani – il pluralismo delle fedi costituisce la stoffa della soggettività delle grandi masse. Occorre che un partito di sinistra ritrovi il collante capace di surrogare la vecchia religiosità militante. E a tale fine le prediche morali servono a poco.

Ciò che è utile – oltre alla rappresentanza dell'interesse collettivo - sono le norme, la sapienza dei vincoli e delle sanzioni, il coinvolgimento partecipativo. Perciò la questione del finanziamento – affrontato da Barca - diventa rilevante. Io credo, ad esempio, che l'imposizione di un tetto egalitario di spesa a tutti i candidati, nella competizione elettorale, costituisca uno strumento fondativo per separare i partiti dai poteri economici dominanti. Per renderli autonomi e più legati agli interessi popolari, obbligati a cercarsi il consenso con la presenza militante nei territori. Non per nulla negli USA i due maggiori partiti, che raccolgono danaro per faraoniche campagne elettorali, sono alle dipendenze del potere economico-finanziario e la politica dei presidenti è una mediazione faticosa (nel migliore dei casi) che lascia intatti gerarchie e privilegi. Oggi possediamo la strumentazione tecnica - la rete - utile non solo per un monitoraggio costante degli eletti da parte dei cittadini militanti, ma anche per la veicolazione dei saperi, che si producono nei territori, all'interno del partito.

Quali sono questi saperi? Sono un impasto di conoscenze, valori, passioni che si esprimono nella cura dell'ambiente, nella difesa del paesaggio, dei beni culturali e monumentali, nella tutela dei beni comuni dell'acqua, dell'aria e della terra fertile,nella volontà di accesso al sapere, nella critica alle forme devastanti dell'urbanesimo neoliberista, nella ricerca del cibo senza da contaminazioni, nella rivendicazione dell'eguaglianza sociale, nella difesa dei diritti, dei valori dell'accoglienza e del dialogo con gli altri, nella difesa della pace e dei popoli sotto dittatura e privi di cibo, nella rivendicazione del ruolo protagonista delle donne, nella volontà di avere ascolto, di controllare chi detiene il potere e di squarciarne le opacità, di mantenersi costantemente informati sulle cose del mondo.

E' a questa cultura, che fa la sostanza più profonda di una nuova sinistra diffusa e maggioritaria nel Paese, che occorre dare forma organizzata e capacità di partecipazione. Nel gruppo dirigente PD non c'è quasi nulla di tutto ciò. Potrà entrarci con un lavoro sia pure di lunga lena? Qui la prospettiva deve fare i conti con il presente. Il PD è un partito impotente. Una delle ragioni non dette della mancata scelta di andare alle urne nel novembre 2011 è che esso non avrebbe retto alla prova per le proprie divisioni interne e sarebbe esploso, come un areo in volo.

Nessuno si è accorto, in questi ultimi anni, del silenzio fragoroso dei dirigenti di questo partito su episodi anche gravi della vita nazionale? La ragione è semplice: se qualcuno prende posizione si scatena la canea delle contrapposizioni. Ed è il caos. Ciò che è accaduto con l'elezione del capo dello Stato è l'ultimo suggello. Nel frattempo, questo partito fa mancare al paese una reale opposizione, una forza di sinistra, un rappresentanza degli interessi popolari sempre più colpiti dalle politiche recessive, esattamente ciò che sarebbe più vitalmente necessario per trovare uno sbocco alla crisi. La quale nasce, com'è noto, dalla iniqua distribuzione delle ricchezze. E' Grillo che ha supplito a questa assenza clamorosa. E allora? Non sappiamo se la collera popolare ci darà il tempo. Forse Barca potrebbe tentare una vasta ricognizione nelle periferie del PD per verificare se, almeno qui, il partito è ancora vivo e se può essere utilizzato, almeno in parte. Perché il suo gruppo dirigente, in quanto dirigente, è morto da un pezzo.

www.amigi.org. Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto.

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