Anche in Italia la Grande Crisi è finita. Da qualche tempo viviamo una nuova fase. Oggi siamo alle prese con gli effetti della politica economica>>>
Anche in Italia la Grande Crisi è finita. Da qualche tempo viviamo una nuova fase. Oggi siamo alle prese con gli effetti della politica economica della Ue, che ha trasformato la turbolenza finanziaria esplosa nel 2008 in una guerra sociale contro i paesi in difficoltà. Eppure si può trarre un primo bilancio sommario dei risultati politici che essa ha prodotto e continua a produrre. Parlo di risultati politici e mi limito alle forze politiche della sinistra. Non getto neppure uno sguardo al fondo della società che la sinistra tradizionalmente rappresenta e difende: classe operaia, ceti medi, mondo della scuola e dell’Università, lavoratori intellettuali. Qui gli arretramenti sono profondi e generalizzati. Basti pensare all’allungamento dell’età della pensione, all’inferno degli esodati, al dato stupefacente di 6 milioni di poveri assoluti da poco censiti dall’Istat, basti ricordare che quasi un giovane su due non ha lavoro. Per brevità neppure un cenno al sindacato, alla Cgil, un pachiderma che si è definitivamente addormentato.
È sul piano politico, delle formazioni della sinistra, che voglio puntare lo sguardo. Non doveva essere la Grande Crisi, uno dei più clamorosi fallimenti del capitalismo contemporaneo, occasione di crescita delle forze politiche antagoniste, di riorganizzazione del fronte alternativo? Non ha mostrato e non continua a mostrare il neoliberismo di essere, con le sue ricette dogmatiche, il motore che alimenta le turbolenze finanziarie e le disuguaglianze distruttive del tessuto sociale e della stessa stabilià economica?
Dunque una stagione di possibilità per la sinistra, che doveva conquistare masse sempre più deluse e impaurite con la forza persuasiva del proprio diverso racconto. Non è andata così. Con ogni evidenza le varie formazioni dello schieramento multiforme che continuiamo a chiamare sinistra sono uscite tutte ridimensionate, indebolite o profondamente trasformate. Sel alle ultime elezioni del 2013 si è attestata al 3,20%; Rivoluzione civica, che incorporava Rifondazione comunista, al 2,25%. Da qualche mese il Pd — che certo molto parzialmente poteva essere annoverato nell’area della sinistra — è diventato un partito populista, comandato da un capo. Un capo che mira a cambiare, d’accordo con la più squallida destra che mai abbia calcato la scena politica repubblicana, la forma dello stato democratico.
Dunque, sul piano dell’allargamento del consenso, da questi anni, che pure sono stati di mobilitazione e di lotte, di qualche battaglia vinta (referendum sull’acqua pubblica), risultati più miseri non potevamo raccogliere. Senza il 4% della lista «L’altra Europa con Tsipras» saremmo al disastro. Per dirla con una frase folgorante di Pasolini.
Ebbene, io credo che tali esiti dovrebbero costituire oggi il centro della riflessione di tutti i protagonisti della sconfitta. Usiamo la parola necessaria. Sconfitta. Un punto di partenza imprescindibile per assicurare un avvenire possibile alla sinistra italiana, a una forza di opposizione in grado di affrontare le sfide durissime che si annunciano all’orizzonte. Sapendo che, se passa la nuova legge elettorale in discussione in Parlamento, l’irrilevanza istituzionale attende buona parte di quel che resta dello schieramento di sinistra.
Che cosa è accaduto? Perché il consenso elettorale destinato alle forze di sinistra è andato al Movimento 5 Stelle o all’astensione? Naturalmente non basta una revisione critica delle campagne elettorali. Occorre rimettere in discussione esperienze del passato, assetti, strategie, forme di organizzazione, stili di lavoro. Io credo che il dibattito aperto dall’ «Altra europa per Tsipras» – ma anche la discussione su questo giornale, cui ha dato un ulteriore contributo Asor Rosa il 19 luglio — dovrebbe essere accompagnato da «un’azione parallela» che io definirei senza tanti giri di parole, di vertice. Credo nella necessità di ristretti tavoli di lavoro nei quali si studino forme possibili di nuove architetture unitarie delle forze della sinistra. I piccoli partiti sono blocchi di potere, necessariamente prudenti e timorosi. Non si sciolgono senza trattative che ne salvaguardino il patrimonio, i legami sociali. Tale strada non è in contraddizione con le prospettive di una formazione politica che non rassomigli ai vecchi partiti, che si fondi sulla partecipazione dal basso, ma è metodologicamente un momento d’avvio inaggirabile. Ci vuole sempre un punto d’appoggio per rovesciare il mondo. E questo non può essere il magma delle assemblee, che sono la ricchezza della democrazia, dove si accende il fuoco delle idee, ma che poi devono solidificarsi in strutture in grado di rendere permanente la militanza politica.
La lista dell’«Altra europa» non sarebbe mai sorta senza l’iniziativa dall’alto di un gruppo di promotori. E l’assemblaggio delle varie forze, il nome di Tsipras, hanno dato al progetto un contenitore credibile che ha mobilitato le forze rendendo possibile il successo. Lo sforzo di disegnare le forme di un’ampia aggregazione unitaria risponde anche a tale scopo: suscitare energie, dare ai conflitti in atto o attivabili una prospettiva politica durevole e includente.
Negli ultimi anni abbiamo esaltato «Occupy Wall Street» o le acampadas dei giovani madrileni. Col sottinteso che in Italia siano mancate le lotte. Non è così: le lotte sono state innumerevoli, aspre, su tutte le latitudini della penisola e hanno coinvolto gli operai, i disoccupati, gli studenti, gli insegnanti, i ricercatori, i senza casa. Quel che è mancato - e crea alla fine stanchezza, rassegnazione e fuga - è stata una forza unitaria che facesse da collante generale, da continuatore istituzionale della spinta partita dal basso. Oggi l’assenza di un tale soggetto e di una tale prospettiva è alla base dell’inerzia e della rassegnazione che si respira in giro.
Eppure, malgrado tutto, la prospettiva per la sinistra rimane aperta. Obbligatoriamente aperta. E occorre un senso di responsabilità assai elevato da parte di tutti. Di una cosa infatti si può essere certi: alla ripresa autunnale nessuno dei gravi problemi economici e sociali che stanno logorando il paese sarà attenuato. Gli ultimi segnali anzi lasciano presagire un ulteriore peggioramento. Non mi riferisco ai recentissimi dati sulla produzione industriale in calo e sul rallentamento dell’economia tedesca. È stata la Banca d’Italia ad annunciare che nel 2014 la disoccupazione in Italia ha toccato il vertice ufficiale del 12,8% e che nel 2015 crescerà ancora, al 12,9%. Nel frattempo, udite, udite, il debito pubblico ha toccato a luglio il nuovo record di 2.160 miliardi con un aumento di 96 miliardi dall’inizio dell’anno. Dunque alla ripresa autunnale gli italiani troveranno ulteriormente aggravate le loro condizioni: immutata e forse cresciuta la pressione fiscale, sempre più estesa la mancanza di lavoro. E nuovi comuni finiranno nel frattempo in dissesto. Sia che Renzi « faccia - come parla chiaro il linguaggio dei tempi! – la riforma istituzionale, sia che non ce la faccia.
Il senso di una continuità verso il peggio sarà visibile a tutti. Basta del resto osservare il ministro dell’Economia Padoan. Come prima Monti e poi Saccomanni, egli non è il titolare di un dicastero, in grado di perseguire una politica economica autonoma, di mobilitare investimenti pubblici, agevolare il credito. Più modestamente è un broker che pendola tra Bruxelles e Roma, cercando di mediare tra gli interessi del suo paese e il Castello della Grande Ortodossia dell’Unione.
C’è dell’altro. Agli occhi degli italiani la continuità verso il peggio apparirà da un ulteriore dato.
L’alleanza con Berlusconi non è più un fatto transitorio. È diventato un assetto stabile del potere politico. E non è vero che la recente assoluzione del boss di Arcore nel processo Ruby rafforzi l’alleato Renzi. In quella faccenda nessun italiano crede all’innocenza di Berlusconi, come non può credere alla nipote di Mubarak. Al contrario moltissimi nostri connazionali cominciano a convincersi che la «rinascita» di Berlusconi possa essere l’esito mediato di sordidi scambi e patti segreti con Renzi. E comunque il cavaliere bianco, che doveva rottamare la vecchia politica, sempre più appare come il capo di una casta che si è rifatta il trucco, utile a salvare un noto criminale da una condanna, ma che continua a portare danni e disperazione sociale al paese. Dal cilindro di Renzi non escono più conigli. E oggi gli italiani non possono più guardare a Grillo per gridare il loro sdegno o per cercare una prospettiva.
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto