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La pochezza e pericolosità della legge sulla cosiddetta “buona scuola” messa in evidenza da commentatori di ogni tendenza (da ultimo l'ottimo intervento di L. Illetterati su il manifesto del 28/5) ci dovrebbe tuttavia spingere a tentare di delineare i tratti di una scuola all'altezza del nostro tempo. Al di là della necessità di remunerare gli insegnanti italiani con un reddito dignitoso – la più vera e urgente riforma – occorrerebbe avviare una riflessione di prospettiva. La scuola è un asse fondamentale per la trasformazione radicale del capitalismo e costituisce un terreno su cui la sinistra ha potenzialità egemoniche.
E' evidente infatti che su tale terreno le classi dirigenti europee non vanno oltre un basso orizzonte economicistico. Tutti gli interventi riformatori che si sono succeduti in Italia e in Europa su scuola e Università, a partire dal cosiddetto “processo di Bologna” (1999) sino alla “buona scuola” dell'attuale governo - ovviamente con differenti ambizioni - hanno un elemento in comune: quello di ricercare una maggiore efficienza funzionale degli istituti della formazione. Modificazioni e aggiustamenti che non hanno mai riguardato la qualità degli insegnamenti e il modo di impartirli, l'estensione e l'innalzamento dei processi di conoscenza e di formazione, ma i meccanismi “produttivi” delle stesse istituzioni (quantità di laureati e diplomati, tempo e risorse impiegati, assunzione di personale, ecc.).
Significativamente, non pochi, maldestri e ignari, si spingono ad accusare la scuola quale responsabile della disoccupazione giovanile. Ed è questa pressione, che si esercita sul mondo della formazione, a determinare l'ossessione dilagante per la valutazione ed il merito. Quel che preme al legislatore è incrementare e misurare la prestazione dei soggetti che operano nell'istituzione come in qualunque impresa che deve competere. Da qui discende l'intero edificio normativo e burocratico, che cresce su se stesso e che soffoca oggi scuola e università, distratte dai loro compiti formativi e chiamate continuamente a valutare e a valutarsi, a mimare imprese che devono produrre beni e servizi.
Ma è questa la scuola di cui abbiamo bisogno? L'innovazione nei contenuti degli insegnamenti si può davvero esaurire nell'aggiunta di qualche disciplina ( «Arte, Musica, Diritto, Economia, Discipline motorie») e, come recita ancora il testo del Ddl governativo, nel guardare «al futuro attraverso lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti»? La modestia di queste amene genericità partorite dalle burocrazie ministeriali rivela tutta l'angustia culturale in cui è imprigionata la pedagogia neoliberista del nostro tempo. E , per la verità, non solo essa. In realtà, oggi, sul piano dei contenuti e delle discipline la scuola potrebbe costituire uno straordinario laboratorio di riforma scientifica, culturale e morale. Un luogo in cui si formano giovani in grado di pensare in forme nuove la realtà della natura, all'altezza delle sfide gigantesche che dobbiamo fronteggiare.
C'è un altro aspetto di carattere disciplinare e contenutistico che rimane clamorosamente assente dalle indicazioni dei riformatori che intervengono sulla scuola. Non mi riferisco soltanto all'assenza di idee su come valorizzare gli insegnamenti della nostra grande tradizione umanistica, base di formazione ed emancipazione spirituale degli individui, di educazione al pensiero, alla bellezza e alla poesia, e non semplicemente competenza professionale da utilizzare nel lavoro. Anche in questo caso è la storia contemporanea recente a suggerire la direzione necessaria. Il 900 ci consegna un'altra grande frattura. A dispetto del perdurante dominio economico e militare dell'Occidente, è evidente che la visione eurocentrica della storia del mondo oggi appare disarticolata dall'irrompere di nuove forze.