Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano di Paolo Berdini ha comportato un seguito. Voglio dire che nel tempo trascorso da allora ho ripensato lentamente a un tema suscitato dall’autore. Il risultato è questo articolo.
Berdini comincia il suo intervento in maniera inaspettata, originale, spiazzante. Molto utile però ai presenti fra cui numerosi giovani studenti del Politecnico, che suppongo fossero informati delle ultime vicende urbanistiche e architettoniche della città e conoscessero almeno l’essenziale degli eventi storici. Egli racconta del suo arrivo in treno e della decisione di andare dalla stazione Centrale alla “Nuova Milano” di Garibaldi – Repubblica – Isola. Quella di cui l’amministrazione civica e certi commentatori menano vanto. Quella dei grattacieli gettati lì senza un piano particolareggiato del Comune. Venuta su così per iniziativa liberista e irregolare di società immobiliari, banche, presidenza regionale; non discussa e non controllata in alcun Consiglio pubblico.[1]
Berdini dinanzi al borgo del Quatar sbalordisce; dice di essere incredulo, addolorato: perché “Milano è bella”. “Milano è bella”, ripete.
Come dobbiamo interpretare quest’affermazione netta, sicura? Che Milano era bella? Che lo fosse ancora, dopo i fervidi apprezzamenti di Stendhal, prima della grande guerra e ancora negli anni Venti oso dirlo, benché non fossero mancati gl’investimenti anche molto estesi lautamente remunerativi della rendita fondiaria laddove svettava il primato nell’accumulazione dei profitti industriali (comprendenti sostanziosi trasferimenti dall’agricoltura). Rievocando la forma della città, gli elementi urbani costitutivi, la pianificazione, l’architettura nel trascorrere del tempo dal tardo neoclassico all’eclettismo al liberty al primo Novecento, parrebbe resistito una sorta di vincolo a tenere insieme non a slegare la città, anche in mancanza di un obbligo regolamentare a farlo.
Solo con la revisione del razionalismo schematico, prima da parte di Enrico Agostino Griffini (il più anziano degli architetti moderni attivi a Milano) propenso a un ripensamento storicistico, poi di Piero Bottoni col progetto del Quartiere Gallaratese (1955-56, non realizzato), rinasce l’attenzione all’eccezionale contributo dato dalla strada italiana all’abitare bene, socievole, al di là della funzione famigliare dell’alloggio. Bottoni propone la “strada vitale”, una tipologia che da un lato vorrebbe richiamare la tradizione, dall’altro rappresentare la rottura razionalista: corpi bassi continui lungo i bordi per il commercio, i servizi sociali e culturali, le attività artigianali minute (la “vitalità”, dice Bottoni) e alti volumi per le abitazioni retrostanti ed estesi in lunghezza perpendicolarmente ai corpi bassi, e molto distanziati fra loro. Questa soluzione, sebbene non sembri disponibile a collaborare all’”assassinio”, non può tuttavia vantare una reale parentela con la strada storica. Infatti, manca la residenzialità (e le attività vi si mescolerebbero), mancano le famiglie le persone che vi abiterebbero incrociando le loro vite, i rapporti umani che ne nascerebbero. Quegli alti fabbricati si distaccano in tutt’altra condizione spaziale e sociale, secondo una specie di ritorsione lecorbusieriana.
Ben più duri giudizi meritano tracciati denominati “via”, “corso”, “strada” quando non ne hanno la minima rispondenza storica. La storia l’hanno buttata in frantumi gli autori proprio “assassinando” le vere strade insieme a vasti contesti. Per soluzione famosa – e non lo è troppo! – nomino la “racchetta”, prevista dal piano regolatore del 1934 e malinconicamente non negata dagli architetti milanesi negli anni Cinquanta: Corso Europa, Via Larga, Via Albricci, “balordo stradone”, “stradone micidiale” come lo chiama con disprezzo Antonio Cederna, “arrestato in piazza Missori sopra il cadavere di San Giovanni in Conca”.[2] Grossi edifici in lungo in largo in alto, molti “firmati”, interamente dedicati agli uffici, alla finanza e al commercio; delle migliaia di abitazioni preesistenti nessuno si ricorda, a meno di qualche vecchio (etiam ego) che vide da giovane sbriciolare le sobrie case unite nell’allineamento viario, rappresentative di quella celata bellezza tipicamente milanese che altrove ho definito architettura neoclassica da capomastro. Il sopravvissuto palazzo Cinque-Settecentesco Litta Cusini in corso Europa, debole e smarrito, sembra sul punto di essere schiacciato dalla pressione dei nuovi fabbricati che lo fiancheggiano.
Siamo alla ricerca della città “bella”. Cerchiamo l’essenza umana, la bellezza intima, non quella monumentale di cui peraltro Milano è ricchissima. Dal fascismo al dopoguerra ai decenni corsi uno dopo l’altro attraverso incontenibili cambiamenti strutturali[3], la mala urbanistica e la sorella speculazione fondiaria ed edilizia hanno imperversato fino ad oggi non facendo caso su quale tipo (socio-economico) di città piombassero i danni irreversibili (basti accennare alla perdita di mezzo milione di residenti) spacciati per benefici. Il caso e la coerente azione non potevano che esibirsi dove il successo già ottenuto chiamava, quando sembrava inconcepibile rinunciare alla concentrazione. Doveva essere il centro storico, già prescelto dal fascismo, in particolare il centro del centro vale a dire l’area all’interno della Cerchia dei Navigli, il luogo delle manomissioni che man mano avrebbero marcato sempre più chiaramente la natura e la funzione di Milano: banche, assicurazioni, uffici finanziari e fiscali, sedi commerciali dei prodotti di lusso …
Camminiamo nelle piccole strade dietro e di fianco alla Scala, nell’intrico fra Broletto, dell’Orso, Verdi, S. Margherita. Siamo nel super centro, in un vecchio tessuto viario. Buona parte delle cortine ci appaiono come descritto sopra, ma non mancano gli accecamenti e i colpi al cuore. Via Filodrammatici (con la piazzetta dedicata a Enrico Cuccia, località e nome simboli indiscussi della potenza finanziaria della città) si presenta decorosa ma laggiù in fondo si staglia uno spaventoso doppio sopralzo. Giriamo, attraverso via Bossi, in via Clerici, per riscontrare la presenza del settecentesco omonimo palazzo esteso lungo la strada; conosciamo i tesori che conserva. Dirimpetto incombe un gigantesco edificio moderno di sorprendente bruttezza, per di più bianco abbagliante come il gesso e con il corpo centrale arretrato per ottenere maggior altezza: ora proprietà della più potente banca nazionale ma costruito a metà degli anni Cinquanta per uffici Olivetti su progetto di noti architetti “di fiducia”, fra cui il giustamente stimato in ambito olivettiano Marcello Nizzoli (di qui la sorpresa).
Stiamo cercando, come si è visto, un’altra bellezza, quella della città costruita, urbana e umana, per questo abbiamo insistito sul legame tra forma del luogo (strada, piazza...) e residenzialità, tra spazio famigliare e spazio pubblico. In mancanza di tale coerenza, come in gran parte dei quartieri entro la circonvallazione “spagnola” che hanno buttato fuori le famiglie residenti, dovremmo accontentarci di quel che la forma della città offre ancora nelle parti scampate ai vandali, magari ferite ma non assassinate, se non rovinate dagli stessi milanesi.[4] Insomma, dovremmo apprezzare la scena urbana, sapendo che mancano i veri attori e al più vi brulica la “vitalità” nel senso bottoniano. Di tali occasioni Milano ne offre non poche. Ognuno si cercherà le sue, nessuno pretenderà che sciogliamo le complicazioni di questo articolo con un elenco da guida turistica.
Invece invitiamo a ritrovare la bellezza come qui interpretata ai margini esterni della circonvallazione, in zone residenziali (specialmente strade e viali) dove conta il contributo di buona architettura dell’Ottocento e del Novecento ante guerra mondiale. Ora impiego (anche) la prima persona singolare e chiudo dichiarando la mia scelta di luogo esemplare in cui il conto delle diverse parti che concorrono a costruire il tutto torna, soddisfacendo la nostra equazione della bellezza: è un insieme di strade poco al di là dei Bastioni di Porta Venezia. Qui si concentra un gruppo eccezionale di case liberty, magnifiche facciate, sorprendenti particolari d’interni negli accessi, decorazioni ben integrate nell’architettura, sculture, mosaici di ceramica, pezzi di artigianato del ferro …, ogni opera di architetti e artisti contribuisce a costruire una scena urbana unitaria e unica: che, però, non ci basta per distinguere la bellezza urbana.
[1] Un’architetta interpellata da un giornalista ha detto che “Milano ha il grattacielo nel suo dna perché ha eretto la guglia del Duomo con la Madonnina …”.
[2] Antonio Cederna, L’inutile rovina,”Il Mondo”, II°,28 febbraio 1956, poi in I vandali in casa, Laterza 1956; nuova edizione 2006, ridotta, a cura di Francesco Erbani con sottotitolo Cinquant’anni dopo).
[3] Cfr. in Eddyburg il mio Com’era Milano e com’è al tempo dell’esposizione, 22 aprile 2015.
[4] Richiamo all’altro testo da affiancare a quello di Antonio Cederna: L’Italia rovinata dagli italiani. Sottotitolo di copertina Scritti sull’ambiente, la città, il paesaggio 1946-1970. A cura di Vittorio Emiliani, Rizzoli, Milano 2005. Antologia di articoli pubblicati prevalentemente sul Corriere della sera.