Angela Dorothea Merkel è intelligente (cioè capisce) molto più degli altri leader europei. Alcuni di loro non lo sono per connaturata inibizione poiché sono fascisti e nazisti quasi dichiarati (Kaczynski e Andrzej Duda, Orban…); altri sembrano come indica la seconda scelta di un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari, idioti – stupidi; altri ancora, chiamiamoli intermedi, si muovono solo secondo gli umori classisti prevalenti; altri infine, piccoli per piccolezza di patria, devono vivere nell’ombra di uno grosso, adeguandosi.
Per Angela Merkel, incurante di contestazioni e persino di proprie contraddizioni, la Germania ha di nuovo bisogno di immigrati in massa, come nel passato. Solo con l’immissione di popolazione giovane, dice, essa potrà riequilibrare lo stato demografico e, udite udite, il sistema pensionistico. Infatti, il diagramma piramidale della popolazione per età presenta una base molto ridotta e un vertice allargato: pochi giovani e giovani-adulti, tanti anziani. Tassi di natalità minimi (8 per mille, idem l’Italia) e tassi di mortalità superiori (11 per mille, 10 l’Italia), movimenti migratori a parte, minacciano la stessa riproduzione. Tutto questo nonostante la crescita lungo cinque-sei decenni della presenza di stranieri provenienti da diverse nazioni, tuttavia propensi, evidentemente, ad assimilare rapidamente comportamenti di vita famigliare o personale. Ma si devono risolvere due enormi problemi: assicurarlo davvero quel lavoro, del quale il paese sembra avere urgente necessità, ai nuovi cittadini; garantir loro un’abitazione dignitosa insieme a un coerente modo di vita. Solo così si potrà ricostituire un processo relazionale costruttivo e stabile fra rapporti di produzione e riproduzione.
Vogliamo dire, indipendentemente dalla questione tedesca, che la vecchia e durevole logica capitalistica e mercatistica volta a restringere o a espandere la forza lavoro secondo gli investimenti e i disinvestimenti nel gioco fra sviluppo e crisi, può essere battuta da una realizzata condizione sociale e politica incentrata su due atti: riduzione per tutti del tempo di lavoro, magari prendendo spunto dalla provocazione di Paul Lafargue (i francesi hanno provato…) e radicale modificazione del rapporto fra consumo di beni d’uso e di beni di scambio in favore dei primi, compresi quelli immateriali. In altre parole: parallelamente alla diminuzione del tempo penoso (lo è per la stragrande maggioranza), aumento del tempo vissuto con felicità attraverso la cultura, per la crescita di sé razionale e sentimentale.
La Germania è il più popoloso paese dell’Unione, ottantuno milioni di abitanti. Gli stranieri sono più del 10 % (di questi il 20 % vi è nato) ma se si aggiungono gli immigrati pervenuti man mano alla cittadinanza tedesca la percentuale quasi raddoppia, 19%. La tumultuosa ricostruzione sostenuta dall’enorme ammontare degli aiuti americani anche in funzione dell’alleanza antisovietica e la gigantesca espansione industriale degli anni Cinquanta e seguenti richiesero un incessante flusso di mano d’opera da altri stati europei. I meridionali italiani espatriarono in massa, insieme ai turchi (che oggi rappresentano la più numerosa comunità straniera, oltre un milione e mezzo), ai polacchi, ai greci e altri…
Come simbolo del lavoro italiano in terra tedesca scegliamo Wolfsburg (Bassa Sassonia), “Città del Lupo”. Furono specialmente nostri muratori e artigiani a costruire, insieme alle prime case, la fabbrica della “Macchina del popolo” voluta da Hitler nel 1938. Volkswagen, programma industriale, politico e “sociale” bloccato dalla guerra fu rilanciato dopo la sconfitta, intensificato fortemente dal 1955 e negli anni Sessanta grazie al lavoro degli immigrati meridionali. Non fu a caso l’arrivo a Wolfsburg di tantissimi compaesani, fu dovuto a una preferenza, a un atto di fiducia degli industriali e dell’Istituto Federale per il Collocamento della Manodopera e per l’Assicurazione contro la Disoccupazione.
Probabilmente valse il riflesso delle prestazioni d’opera risalenti alla fondazione della fabbrica e della città. Ne derivò anche la modifica del termine che designava i lavoratori: dapprima Gastarbeiter poi, a causa della contrarietà degli industriali a considerarli solo “ospiti”, Südländer. Così il clamoroso successo del Maggiolino (Käfer) incorporava l’abilità e l’affidabilità degli operai siciliani, calabresi, abruzzesi… e la loro accettazione di un modo di abitare che non aveva nulla dell’abitazione famigliare nella propria regione, seppur povera, magari cadente, igienicamente inadeguata.
Una ricerca svolta presso l’Università degli studi di Roma Tre, pubblicata nel semestrale Altreitalie[2], presenta un quadro preciso degli alloggiamenti. Non furono usate le vecchie baracche ma si costruì un Villaggio degli italiani (Italienerdorf) costituito da lunghe “case” a due piani prefabbricate in legno. Nel 1964 erano 46, nel 1966, 58. Gli immigrati tuttavia continuarono a chiamarle baracche: ognuna con 32 stanze per 2-4 persone, a ogni piano una cucina comune, un gruppo di servizi igienici, un locale “per stirare” (?).
Wolfsburg cambiò notevolmente lungo i decenni fino ai giorni nostri. Da luogo-fabbrica dedicato solo alla produzione divenne una città di oltre 120.000 abitanti dotata di tutte le risorse che ne designerebbero l’abitabilità e la gradevolezza. Lo scrittore Maurizio Maggiani, autore di quel romanzo fuori del rigo convenzionale che è Il coraggio del pettirosso[3] racconta in un articolo sul Secolo XIX di una delle sue visite[4]. Ha amici compatrioti, del resto un quarto degli abitanti ha origini italiane o è tuttora nostro concittadino. L’italianità la si trova non solo nei ristoranti nelle gelaterie nei caffè ma anche nelle scuole, nelle biblioteche. Per Maggiani «Wolfsburg è una bella città… ricca di verde, funzionale… i suoi quartieri operai sono formati da villette a schiera, separati da parchi e collegati con ampi viali».
Il maggior vanto civico è la presenza del Phaeno, il più grande museo scientifico interattivo della Germania dotato di 250 postazioni. Progettato da chi? Diamine, dall’immancabile Zaha Hadid (vogliamo subito paragonarlo col meraviglioso Exploratorium di San Francisco, fondato da Frank Oppenheimer nel 1969, un grande spazio entro un’ariosa semplice struttura di ferro, come fosse testimonianza della rivoluzione industriale). Non manca un museo d’arte moderna. Infine la Kulturhaus di Alvar Aalto, che ricordiamo non fra le opere eccelse, funzionava già nel 1962.
Maggiani discorre con gli amici, tutti hanno in certo modo nostalgia dell’Italia; «ma, fatte le ferie se ne tornano a starsene nel cuore della Bassa Sassonia a casa loro, che è Wolfsburg, dove il clima non sarà un granché, ma dove dopo le quattro del pomeriggio nessuno lavora più, si va a passeggiare sui viali, a nuotare nei laghi, al cinema, a teatro, a bere birra sul lungofiume…». E la settimana di ferie autunnali, l’asilo nido sotto casa, le tessere per i musei e le gallerie, il medico che li chiama per accertarsi della loro salute? Allora una specie di paradiso? Forse il nostro simpatico romanziere è propenso a romanzare, ma non a contar balle. In ogni caso un tale paesaggio urbano e umano non può riguardare l’intera Germania; e quali conseguenze proprio lì, nella sede madre dell’azienda, provocherà l’attuale vicenda delle emissioni inquinanti truccate in certi modelli?
Stiamo osservando una fotografia del 1964: in un’aula scolastica immigrati italiani ascoltano qualcuno che li sta istruendo sul lavoro da minatori per essere avviati alle miniere carbonifere di Duisburg, Renania Settentrionale-Vestfalia. Tutta la Ruhr rappresentava, a quell’epoca, una delle massime concentrazioni territoriali minerarie (è noto che sopraggiunto il tempo della chiusura, l’intera regione, con le sue città grandi e piccole, sarà trasformata in un insieme multicentrico ricco di occasioni culturali, paesaggistiche, turistiche). I cavatori italiani meridionali, a nostra memoria, furono più fortunati dei loro colleghi emigrati in Belgio, dove a metà degli anni Cinquanta lavoravano 142.000 minatori, fra i quali 63.000 stranieri comprendenti 44.000 italiani. A Marcinelle, miniera di carbone Bois du Cazier nella periferia meridionale di Charleroi, l’8 agosto 1956 a causa di un irrefrenabile incendio morirono 262 minatori, i sopravvissuti furono solo 13. 136 le vittime italiane, le metà abruzzesi. Sfogliando le notizie in memoriacondivisa.it leggiamo che il ricordo della tragedia è ancora vivo; anche quest’anno nel sito minerario del Bois du Cazier, dal 2012 entrato nel patrimonio mondiale dell’Unesco, si terranno le cerimonie di commemorazione dell’evento.
Ai lavoratori italiani per morire in miniera non occorreva emigrare all’estero. Poco più di due anni prima dello sterminio di minatori a Marcinelle era stata la Maremma, terra di miniere dove l’attività della società Montecatini era iniziata alla fine dell’Ottocento, a essere teatro di una tragedia. Provincia di Grosseto, comune di Roccastrada, frazione di Ribolla (in effetti, un villaggio Montecatini), miniera di lignite sezione “Camorra”: nella prima mattina del 4 maggio 1954 una spaventosa esplosione di grisù causò la morte di 43 operai. I minatori erano in totale poco più di 1.400, in forte diminuzione dal 1948 coerentemente alla politica della Montedison, smobilitare anno dopo anno: condotta che comportava la riduzione delle provvidenze per la sicurezza del lavoro. Il libro “d’epoca” di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I Minatori della Maremma[5] dedica un capitolo a La sciagura di Ribolla.
Fu per noi una lettura importante. Due ricercatori che saliranno la china della letteratura d’autore e della fama fino al vertice ci ragguagliavano sulla storia e la condizione sociale poco conosciute della loro regione, in maniera così accurata e dimostrativa come solo una vocazione allo studio storico e una diretta partecipazione alle vicende potevano permettere. Chi conosceva quale fosse l’abitare per i lavoratori scapoli arrivati lì provenendo da territori lontani? Ecco i “camerotti”, costruiti per cacciarvi i prigionieri di guerra. “Costruzioni a un piano, lunghe e strette, divise all’interno in tante stanzette quadrate…gli scapoli… vivono là dentro, a gruppi di tre o quattro per stanza: brande di ferro, armadietti, pure di ferro, un tavolo, sgabelli… In cima all’armadietto una cassettina di legno… La sensazione è quella, la caserma”.[6]
L’io narrante di La vita agra, il capolavoro di Luciano Bianciardi, sente la “missione” di vendicare le vittime della tragedia: «…venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento [sarebbe la sede della Montecatini a Milano], chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali, dove la cartella personale… di tutti i quarantatré i morti del quattro maggio. Chiedendomi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzione fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore superiore ai seicento gradi centigradi. La missione mia… era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi».[7]
[1] Vedi la prima parte in eddyburg, 2 dicembre 2015.
[2] Katiuscia Curone, Italiani nella Germania degli anni Sessanta: immagine e integrazione dei Gastarbeiter, Wolfsburg 1962-1973, in Altreitalie, rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origini italiane nel mondo, n. 33, luglio-dicembre 2006.
[3] Edito da Feltrinelli nel 1995, ha vinto nello stesso anno i premi Viareggio, Rèpaci, Campiello. Nel 2010 la quattordicesima edizione.
[4] Maurizio Maggiani, Povera Italia, vista da Wolksburg, in Il Secolo XIX (unito a La Stampa), 31 agosto 2010.
[5] Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, Editori Laterza, Bari 1956 – Libri del tempo.
[6] Ivi, p. 50-51. «Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come ‘mera fatalità. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni», dal sito memoriacondivisa.it.
[7] La vita agra, 1967, in Luciano Bianciardi - L’antimeridiano - Tutte le opere, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Cipolla e Alberto Piccinini. Volume primo. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, Isbn Edizioni e ExCogita Editore, Milano 2005, p. 595.