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L’anno appena sorto dalle ceneri di un 2016 che nessun europeo, tanto più nessun italiano vorrà rimpiangere, se proposto secondo la tradizionale retrospettiva di cent’anni prima offrirà un ampio panorama di eventi da non dimenticare, sembrando che essi siano stati di tale importanza da costituire una sorta di primato. In verità ogni anno scorrente che volesse, come una persona, rispecchiarsi nei fatti e nelle cose di un secolo prima, troverebbe a sua volta buone ragioni per sgranare gli occhi dalla meraviglia. Eppure il 1917 vide davvero compiersi avvenimenti epocali, alias irripetibili, corredati poi da numerosi e originali casi minori al confronto, ma significanti per delineare forti e unici connotati dell’annata. Va detto infatti che, diversamente da quel che siamo propensi a pensare, cioè che tutti gli anni, bene o male, presentino un bilancio in pareggio dell’uno (bene) con l’altro (male), è ricca la storia di annate per così dire deboli (forse le più confortevoli per i viventi).
Funzionava a pieno regime la macchina del massacro nella Guerra Mondiale. Il nostro paese visse la tragedia della dodicesima battaglia dell’Isonzo conclusa con la disfatta di Caporetto, 24 ottobre. La rivoluzione russa di febbraio (marzo) non aveva risolto i rapporti fra le diverse formazioni politiche. Sarà la rivoluzione bolscevica di ottobre (novembre) ad abbattere il governo provvisorio «moderato», ad assegnare tutto il potere ai soviet e a dar vita alla Repubblica socialista federativa sovietica russa. Iniziava la guerra civile.
La guerra infuriava e sconvolgeva l’esistenza dei popoli nazionali. Eppure in qualche città pur non estranea alle vicende del fronte interno, qualcuno sembrava non farci caso, invece cercava di esorcizzarla. Il miglior esempio? Parigi dove, fra altre iniziative culturali e artistiche, si distinguevano (paradossalmente…) gli spettacoli dei Balletti Russi: che, superando solide tradizioni e modi convenzionali, sostennero (cito un solo evento fra numerosi) il cubismo picassiano per la triade Cocteau-Satie-Massine col balletto Parade.
L’Olanda riuscì a tenersi da parte. Il popolo olandese aveva costruito la propria stabilità identitaria, morale e materiale, la certezza e la sicurezza del proprio habitat attraverso altre battaglie, per lo più incruente se non quelle necessarie per ribellarsi all’impero. Il secolo d’oro olandese, il Seicento, con propaggini temporali prima e dopo, fu il tempo dell’incredibile repubblica pacificamente dedita a raggiungere il primato mondiale nel commercio senza confini (l’autentico primo propulsore dello sviluppo sociale), delle scienze, delle arti. Dal vertice raggiunto intorno al 1650 non ci fu caduta improvvisa. Potette reggere l’enorme pressione dei grandi regni nazionali come l’Inghilterra e la Francia fino a Settecento inoltrato quando lo sviluppo dei due potenti stati cominciò a intaccare lo slancio olandese. Ad ogni modo la libertà conquistata allora, anzi i princîpi di libertà uniti a quelli di collettività costituiranno la più preziosa eredità per i secoli futuri. (La vicenda repubblicana del piccolo paese affacciato sul Mare del Nord è stata raccontata da Charles Wilson, La repubblica olandese, Il Saggiatore – Alberto Mondadori, 1968).
Al principio del XX secolo gli olandesi, impegnati come sempre nella loro storia a «costruire» il loro territorio, a difenderlo dal mare, a ricavarne demanio pubblico per i bisogni della comunità, si distinguono nuovamente e nettamente, ma in tutt’altro campo, dai grandi stati nazionali. In questi, infatti, deludono i tentativi rivolti a produrre una legislazione in materia urbanistica e edilizia che detenga una forte carica sociale riformatrice, un decisivo cambiamento rispetto al passato. È appunto dall’ Olanda che proviene l’indicazione rivoluzionaria, un’apertura verso orizzonti più vasti col varo della Legge sulle abitazioni (Woningwet), ben conosciuta dai frequentatori di eddyburg, non solo urbanisti o architetti. Che converranno ad osservare che la definizione pare impropria per un provvedimento di vasta portata che spazia dalla questione della pianificazione secondo diversi livelli a quella della realizzazione di una moderna edilizia sovvenzionata.
La condizione obbligante per passare dal nudo terreno all’edificazione pubblica è l’esproprio, da effettuarsi sulla base certa del piano particolareggiato. Esso è il cardine dell’unificazione fra previsione urbanistica (“disegno” del piano) e strumenti economico-sociali per la realizzazione architettonica. Del resto, come la cooperazione è un connotato largamente presente da molto tempo nella società olandese, così l’esproprio è una pratica storica ampiamente accettata dal corpo sociale. Entrambe le tradizioni sono ormai sperimentate e verificate in conformità a obiettivi di interesse generale delle popolazioni. Cooperazione e bisogno di terra per la comunità costituiscono il presupposto per effettuare le colossali opere atte a formare i polders, i terreni strappati alle acque sfruttabili prima per il pascolo, più tardi per le coltivazioni, infine, eventualmente, per ampliare la città.
Hendrik Petrus Berlage all’inizio del secolo appariva dubbioso di un radicale progresso della situazione sociale e artistica nell’Europa dominata dal capitalismo: mancando un ideale di vita, di cooperazione per obiettivi comuni è difficile risolvere i problemi dell’architettura e dell’urbanistica, in realtà un problema unico. Tuttavia egli pare propenso a superare la visione critica attraverso un’apertura di credito verso la socialdemocrazia avanzante. Vincent van Rossen nota che per lui tale avanzamento potrà determinare «un nuovo movimento nell’arte. L’ordine esistente in campo sociale ed estetico merita biasimo: ma “la grande lotta è cominciata”» (Berlage e la cultura urbanistica, in Sergio Polano, Hendrick Petrus Berlage. Opera completa, Electa, Milano 1987, p. 54). In altre parole: per assicurare all’architettura nuova vita occorre condividere l’azione del movimento operaio affinché annulli l’influenza negativa del capitale e dello «spirito» capitalista che impediscono la nascita di un stile nuovo. E, osserviamo, se solo attraverso i comuni intenti la società potrà costruire la nuova città, efficiente e bella, dove più che in Olanda, punto geografico e storico di rapporti sociali sconosciuti altrove, si sarebbero potute trovare risorse umane e culturali adeguate?
C’è stata dunque una lunga preparazione, per così dire, nel campo sociale, politico e legislativo-normativo all’incontro decisivo fra un maestro dell’architettura politicamente impegnato e la prassi urbanistica sotto il controllo pubblico. Il piano di ampliamento di Amsterdam a sud si ricollega sia alla legge del 1901 sia alla vocazione cooperatrice della società olandese in generale e dei cittadini di Amsterdam in particolare. Così l’incarico del 1900 e il primo progetto del 1904-1907 approdarono a un nuovo progetto esecutivo compiuto a un livello di definizione pre-architettonica, nel 1917. Su questa certezza potranno operare gli architetti della «Scuola di Amsterdam» (valga per questo il testo a cura di Maristella Casciato, La Scuola di Amsterdam, Zanichelli, Bologna 1987).
H. P. Berlage, Amsterdam Sud(primo progetto 1904-1907; progetto definitivo 1917) |
Amsterdam Sud, col progetto dei grandi blocchi residenziali di altezza media lungo i margini dell’isolato e il vasto rettangolo interno destinato totalmente a giardino, con l’architettura, vorremmo dire, incorporata nell’urbanistica forse come mai prima e dopo, è troppo nota per descriverne ancora i caratteri particolari e riaffermarne il valore sotto diverse prospettive (ved. fra altro in eddyburg La sostenibile infelicità della divisione / La memoria, 15 marzo 2015). Riprendiamo invece il giudizio di Giedion, l’alfiere indefesso del razionalismo. In primo luogo egli riconosce l’importanza dell’urbanistica residenziale olandese giacché, per esempio, «Amsterdam riuscì davvero a costruire interi quartieri omogenei e rispondenti alle esigenze della comunità»; poi ammira la posizione di Berlage verso «gli organi di controllo edilizio che non dovrebbero considerare case isolate, ma strade intere e tronchi di strade» in modo da raggiungere la massima unità delle case; cita la raccomandazione, dinnanzi alla «produzione di massa» di abitazioni, a «usare di nuovo l’isolato, e più estesamente di una volta»: ma, non può non concludere, secondo la logica razionalista, che «l’Amstellan… rientra nella corrente principale dell’urbanistica ottocentesca…[ed] è rappresentativa dell’intero progetto: c’è una riforma, ma non una concezione nuova» (cfr. Sigfried Giedion, Spazio, tempo e architettura (orig. 1941), Ulrico Hoepli, Milano 1954, pp. 669, 675, 677, 679).
Allora, cosa contraddistingue il blocco berlaghiano, 1917 e seguenti, da esempi ottocenteschi di edificazioni lungo i margini dell’isolato? L’isolato di Amsterdam Sud è costruito lungo i lati e il rettangolo interno è un grande giardino che è rimasto così fino ad oggi, privo di ingombri invasivi, di costruzioni estranee al progetto. Lungo i lati le case instaurano una doppia coerenza: l’omogeneità relativa al blocco e il superiore livello di unitarietà con gli altri blocchi che definisce l’ordine e la bellezza architettonica delle strade e dell’intera parte di città (caso perfetto di architettura urbana). Gli incroci stradali rientrano nella normale geometria della rete. Gli spazi diversi, come le piazzette, appartengono alle soluzioni ottenute dagli architetti.
Prendiamo ora il più importante dei progetti ottocenteschi realizzati, il Plan Cerdà di Barcellona. L’ordinamento dei blocchi quadrati coi lati di 113 metri e con gli angoli smussati è inflessibile, non ammette tregue. Nelle prime prove del progettista gli isolati prevedevano anche l’edificazione solo su due lati, paralleli/frontali o consecutivi/ad angolo. La soluzione definitiva consiste nella costruzione sui quattro lati ma spezzettata in tratti edilizi diversi, anche molto fitti e in migliaia di incroci stradali contrassegnati da un previsto effetto spaziale e volumetrico singolare, grazie alla giustapposizione dei quattro smussi e quella degli altrettanti vuoti degli imbocchi stradali. Non sappiamo se per tutti, per noi contò la sensazione di appartenere a un paesaggio urbano «diverso», ma anche di spaesamento, con una breve oscillazione della certezza d’orientamento. Infine, il quadrato interno immaginato libero da costruzioni per averne un giardino: al contrario, lasciato libero all’inserimento, man mano, di un’edilizia non molto più controllata che dalla ragione della rendita. D’altronde la suddivisione dell’isolato in lotti secondo diverse soluzioni era prevista fin dal principio.
Siamo sotto i nostri cieli milanesi. Anche il piano regolatore di Cesare Beruto prevedeva un’espansione, all’esterno della circonvallazione, con grandi isolati non solo quadrilateri, con lati persino di 200-300 metri. Una destinazione dell’interno esclusivamente a giardino non fu mai pensata e progettata. È lo stesso Beruto a comunicarlo nella relazione alla giunta municipale : «Gli isolati a grandi dimensioni si prestano a qualsiasi destinazione; i nuovi fabbricati vi si possono svolgere a piacimento; nel centro dominerà lo spazio; riescono suddivisibili in qualsiasi sistema di minori lotti, senza alterare la rete stradale principale…» (cit. in M. Boriani e A. Rossari, La Milano del piano Beruto (1884-1889), in Rivista milanese di economia, n.10, aprile-giugno 1984, p. 43). Tuttavia in qualche tratto della realizzazione più interna, lotti regolari e limitati concorrono a identificare un tessuto quantomeno non caotico e strade corredate da cortine edilizie di altezza costante (gli interni non contano…). Per questo, talvolta, lo abbiamo dichiarato preferibile a certo disastroso scompiglio urbanistico cominciato subito nel dopoguerra.
MargaretKropholler, Edificio d’abitazione entro un complesso di case per 2000 alloggi,1921-23.
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In quel cruciale 1917 l’avvio alla realizzazione del piano di Berlage attraverso l’opera di architetti che lo considerano anche maestro di architettura civile, sta dimostrando come la capacità di pianificare e di architettare secondo l’imprescindibile compartecipazione delle due prerogative (si è visto come i problemi delle due discipline dovessero riunirsi in uno solo) onora «l’arte di costruire le città» di Camillo Sitte al rango di eccezionale prova al vero, vittoriosa. A questa stregua, l’arte del maestro e dei Van der Mey, Kramer, De Klerk, Van Epen, delle Kropholler rappresenterà la più forte alternativa, con antecedenti negli anni Dieci, al nascente e progredente razionalismo, fino ad influenzare i progetti anche di tutt’altri periodi e contesti urbani nazionali: come negli anni Cinquanta in Italia riguardo alla generazione di architetti seguente a quella dei razionalisti. Ad ogni modo Giedion, che non presterà alcuna attenzione alle opere degli appartenenti alla «Scuola», ammirava la figura di Berlage.
H. P. Berlage, La borsa diAmsterdam, 1895-1903. |
Nella Borsa di Amsterdam, riconosciuto capolavoro d’inizio secolo, «il consapevole ascetismo… si unì col suo amore fanatico per la verità ad ogni costo; col risultato che l’edificio diventò una pietra miliare per molti. Egli diede l’esempio di come risolvere onestamente un problema architettonico. Nessun altro edificio si accorda così bene con l’istanza che era alla base delle tendenze architettoniche in quel particolare momento – l’istanza morale» (S. Giedion, cit., pp. 301-303). Lasciato il critico alle sue predilezioni, ripensiamo a un altro accordo, nostro, con le architetture singole e con l’architettura d’insieme in quello straordinario ambiente tutto costruito col mattone. I giovani nominati e altri si ispiravano al maestro, la «Scuola» crescerà secondo i suoi principi, ma essi erano radicali nelle loro espressioni e, all’interno di un comune sentire, volevano esprimere il proprio carattere, la propria forza. Espressionismo, moderno romanticismo, fantasia… questi attributi ci sembrano rappresentare il punto di convergenza del pensiero critico. L’esperienza in sito lo conferma, percepiamo un’irremovibile coerenza dell’insieme esaltata dai diversi particolari costruttivi e decorativi.
1917. A Parigi, si è visto, nonostante la guerra la cultura non rinunciò a cercare nuove strade e raggiunse traguardi rivoluzionari benché settoriali. In Olanda la cultura non racchiusa in ambienti di stretta specializzazione presentava un panorama multilaterale di gruppi, di iniziative, di riviste. L’evento da evidenziare è unico e sdoppiato: la fondazione a Leida del movimento De Stijl con alla testa Van Doesburg, seguito da diversi e noti protagonisti dell’architettura (dal design all’urbanità) e delle arti visive; la fondazione a Leida-Amsterdam della rivista De Stijl. I principi e gli scopi resteranno autonomi dal razionalismo, tuttavia alcune istanze non saranno in contrasto: un’arte universale, uno «Stijl» dovevano nascere.
L’architettura doveva essere di tutti. La produzione di massa e la standardizzazione avrebbero potuto dare a molti una buona abitazione. Nel merito dei particolari architettonici e artistici (arredi per la casa) lo stesso Van Doesburg, con Van der Leck, Rietveld… scelgono la funzione del colore come partecipazione a una concezione spaziale nuova, con ciò apportando un piccolo segno a un sembiante espressionistico. Il contenuto del primo numero della rivista, datato ottobre 1917, è quanto mai adatto a chiudere il cerchio olandese aperto con Berlage. Un articolo di Oud, L’immagine urbana monumentale (datato Leida, 9 luglio 1917), è un fondamentale approccio al problema della città; il richiamo a Camillo Sitte si sviluppa attraverso l’interposizione del maestro olandese. «Il concetto di “monumentale” è di natura interiore, non esteriore e può quindi manifestarsi in oggetti sia piccoli che grandi… l’architettura si evolve, come la pittura, nella direzione dell’universale e del monumentale. In ciò essa segue la linea stabilita dalla scuola di Berlage… L’architettura è un’arte plastica, l’arte di definizione dello spazio, e come tale si esprime nel modo più universale nel paesaggio urbano… Nel moderno ampliamento urbano… l’edificazione a isolati o in grandi raggruppamenti prenderà il posto dell’abitazione singola» (citazione riportata in G. Fanelli, Architettura edilizia urbanistica. Olanda 1917-1940, Papafava Editore, Monte Oriolo (Firenze) 1978, p. 52). Di tutto questo l’Amsterdam Sud è il compimento.
H. P. Berlage, Museo municipaledell’Aia (Den Haag), 1919 - primi anni Trenta |
Berlage: fin troppo noto per la Borsa di Amsterdam immortalata in una sorta di aura ferma, come opera di altezza inusitata, icona di un moderno romanticismo; riconosciuto maestro del progetto urbano, con qualche riserva alla Giedion: non si fermò mentre il tempo fuggiva trascinando con sé cambiamenti in tutte le arti, soprattutto grazie alla liberazione degli spiriti e delle vocazioni nelle persone e nelle classi sociali dopo la guerra. Egli non si sottrasse alla prova dinnanzi all’affermazione di nuove correnti culturali, di nuove tendenze. Occorsero anni per ottenere importanti, sorprendenti risultati col progetto architettonico. Si dedicò soprattutto per quasi tre lustri alla progettazione e alla realizzazione del Museo municipale dell’Aia, la sua città d’adozione (morì l’anno prima dell’inaugurazione). Un complesso spettacolare articolato in volumi derivati da uno studio accurato del rapporto fra esterno e interno. La presenza di bacini d’acqua, quasi obbligata dalla storica condizione del paese, ne aumenta il fascino. Il disegno riflette la correlazione fra le diverse sperimentazioni e conquiste dell’architettura in Olanda, (con qualche riverbero di tutt’altra origine): Il movimento De Stijl, l’architettura lineare di Dudock, l’Art Déco evoluzione dell’Art Nouveau e dell’espressionismo, il pensiero di Wright, l’amicizia con Mies van der Rohe… Berlage non ne trasse imitazioni, ognuna concorse ad aumentare la preparazione critica verso la realtà dell’arte del suo tempo e a partecipare alla creazione tutta sua di un capolavoro.