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Bisognerebbe abolire nella discussione politica e sul modo di vita nel paese la parola «sinistra» o la locuzione «di sinistra». Si diventa abitudinari nel linguaggio specialmente quando prevale la mediocrità e la ristrettezza verbale nella comunicazione, non solo fra le classi povere; anzi oggi è la classe nello stesso tempo egemone e dominante a imporre l’uso generalizzato di uno smilzo vocabolario necessario sia a se stessa che detta legge, sia agli sfruttati che chiedono, perorano. Una buona cultura generale, una «lingua salvata» (Canetti) non abita più qui. «Sinistra» nella storia sociale europea è sempre corrisposta a un scelta precisa nell’azione e nell’intenzione, chiare e distintive; l’esempio della rivoluzione francese travalica il puro dato della collocazione dei deputati a destra o a sinistra del presidente dell’assemblea.
Dove gli ideali e le idee? Dove le realizzazioni socialdemocratiche, non dico socialiste, nelle amministrazioni regionali o comunali giacché la scena nazionale, dopo il quarto di secolo berlusconiano (e Berlusconi è ancora lì), presenta solo il sorprendente tempo breve di un gradasso Matteo Renzi per il partito del quale si è pur continuato a parlare di centrosinistra: partito che ha cancellato nell’acronimo la s (Pds) di «sinistra», per conservare la d, democratico (ci mancherebbe), approfittando della mancanza di cultura nelle sue file e fuori per far credere di ispirarsi alla tradizione rooseveltiana dell’omonimo partito statunitense, peraltro ridotta a deboli ricordi dopo le sconfitte elettorali al senato e alla camera e l’uscita di scena di Barack Obama. È badando ai fatti che anche il più generoso degli analisti politici non riuscirà a trovare alcun segno di riforma d’avanguardia o realizzazioni di tipo comunitario dove una presunta sinistra detenesse in questo secolo o detenga il potere, anzi strapotere (giunta comunale o giunta regionale e attinenti maggioranze). Dico strapotere e spiegherò più avanti.
Come una nemesi saettata dal cielo da un urbanista sincero d’altri tempi, ora vige il tradimento dell’urbanistica pubblica e sociale anche nei punti di maggior resistenza. Ah, il mito emiliano bolognese. Si è visto il nuovo modello. Le «sette città» bolognesi come i peccati capitali, o il settimo sigillo aperto dall’Agnello, da cui le strombettate trionfali dei sette angeli che non impediranno l’avvento di grandine e fuoco misto a sangue. O come la settima delle età dell’ansia, un’ultima città inquieta prossima alla morte (Auden/Bernstein, The Age of Anxiety, 1947). I bravi bolognesi d’antan, convinti di aver realizzato il miglior esempio di pianificazione generale e locale, se sopravvissuti si sono ritrovati nel nuovo contesto culturale ultraliberista, anzi reazionario, soggetti al più tristo patto col diavolo, quasi fossero il povero soldato col suo violino (Ramuz/Stravinskij, 1918) ma non giustificati dalla stessa sprovvedutezza.
E l’ultimo mito toscano? La rattristata Anna Marson ha creduto di far la rivoluzione (in urbanistica) e s’è trovata sola, sguarnita da ogni parte, salvo il gesto consolatorio di qualche collaboratore. Nella carta d’Italia che rappresenta il colore politico regionale dopo le ultime elezioni (impiegando i vecchi schemi), Emilia-Romagna e Toscana esse sole appaiono in rosso. Di buona memoria, come usa dire. Il distacco da tutto il resto, centrodestra o cinque stelle, è menzognero poiché un’omologazione generale ha cancellato le differenze, quelle profonde, credute irreversibili. La mondializzazione ha in sé l’italianizzazione, uniformità piatta dalla Vetta d’Italia a Capo Passero. Un colossale schiacciasassi si è aggirato dappertutto discendendo dal monte settentrionale al mare siciliano spianando ogni corrugazione.
Poteri e strapoteri oligarchici di sindaci, presidenti, giunte: ammessi da una normativa antidemocratica che i partiti della sinistra (eravamo ancora ben dentro al secolo scorso) avrebbero dovuto boicottare invece che sottoscrivere in ossequio al peana della stabilità. Sindaci e presidenti governano super-garantiti dalla numerosità post-legale della maggioranza, con le loro giunte imbottite di tecnici o amici non eletti. Ad ogni modo, per assurdo se ne poteva approfittare in senso progressista; come la destra poteva farlo in senso conservatore. Sarebbe stato scontro degli opposti. Così dove primeggiava, la formazione politica ritenuta di centrosinistra avrebbe potuto ottenere risultati superiori alle attese in ogni campo, avendo per presupposto i diritti e il bene della classe lavoratrice. Primo obiettivo: cercare di ribaltare gli esiti della nuova lotta di classe, quella, descritta da Luciano Gallino, dei ceti borghesi o arrivisti, ricchi vincitori contro i ceti subalterni poveri e perdenti (L. G. La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza 2012). E dove stava all’opposizione, nonostante la punizione numerica causata dalla regola elettorale, avrebbe potuto superare la frustrazione e scatenare battaglie d’impedimento, d’ostacolo all’amministrazione conservatrice o reazionaria.
La sinistra approvò la nuova legislazione rivendicando un principio assoluto di autonomia locale, l’esigenza di democrazia capillare, la garanzia di libertà da qualsiasi controllo d’ordine politico-amministrativo superiore. Non erano motivazioni, queste, di vecchie battaglie di comunisti e socialisti? Eh, no. Quando ci battevamo per una vera autonomia locale il potere di sindaco e giunta era in tutti i sensi estraneo all’enormità dell’attuale condizione oligarchica. In primo luogo tutte le deliberazioni della giunta, fosse anche quella per lo spostamento di un tombino della fognatura, dovevano essere approvate dal Consiglio comunale, luogo non fittizio di discussione democratica fra posizioni diverse e opposte, spesso al limite dello scontro; in ogni caso difficoltosa (non esistevano premi spropositati di maggioranza). Poi le delibere dovevano sottostare al taglieggio della giunta provinciale amministrativa, alias prefettizio (ossia lo stato). Controllo di legittimità, la formula; al contrario, visto il merito lo scopo consisteva nell’ostacolare e respingere le decisioni dei Comuni di sinistra su pressione della Democrazia cristiana.
Tuttavia l’azione dei Comuni rossi trovava la strada per distinguersi in realizzazioni locali differenti da quelle delle amministrazioni bianche e alleati grigi o rosa sottomesse alla ragion di stato e, sempre, agli interessi del padronato (termine non più in uso, ma largamente espressivo). Guardiamo l’urbanistica. Non tutto splendeva a sinistra nel piano regolatore e attinenze, per misurata competenza e anti-velleitarismo previsionale; ma non erano pochi i casi di questo tenore. Si videro anche tentativi quasi rivoluzionari: al di là della scontata dotazione dei servizi sociali, un disegno organico e strategico di terreni ricostitutivi di demanio pubblico attraverso l’esproprio (Milano possedeva fino agli anni Trenta un ampio patrimonio fondiario. Ci pensarono podestà e compari a smantellarlo, svendendone buona parte a cricche speculatrici e a pesci grossi dell’economia). Ancora: quando la rivista «Urbanistica» (direttore Giovanni Astengo) pubblicò nel fascicolo n. 41 del 1964 i primi Piani di Zona, si notava che almeno un Comune rosso non aveva adottato progetti di quartieri emarginati in lontane periferie per non turbare la continuità di riproduzione reddituale nell’aggregato urbano.
Omologazione, dicevo. Riguardo alla pianificazione urbanistica locale esiste una sola tendenza, un solo progetto egemonico: liberismo impietoso, spesso culturalmente provocatorio nell’essenza di servizio agli appetiti del «padronato» (guarda caso) ora indentificato come finanzieri, speculatori fondiari, industrialotti (i grandi industriali magari illuminati almeno a 60 watt si sono estinti), imprenditori edili e imprese di costruzioni.
Quando fu diffusa la nuova maniera dei bolognesi, talmente esagerata nell’aver gettato il destino della città in mano al Moloch per natura dedito a distruggere i beni dell’umanità e del singolo uomo, qualcuno credette di poter vantare, qui a Milano, una diversità, una distinzione motivata con noti vecchi titoli – capitale economica e capitale morale… capitale della moda e del design: eppure, i primi scaduti come una cambiale fasulla dell’ex campione milanese del mercato immobiliare Ligresti, i secondi propagandati come «attrattività» mondialista di una città che in quattro decenni era riuscita a perdere mezzo milione di residenti e si è salvata dal temibile crollo demografico grazie a 250.000 immigrati extracomunitari, sfruttati silenziosamente nei lavori trascurati dai milanesi, autoctoni o alloctoni che siano [1].
[1] Ho scritto diversi articoli in eddyburg su Milano. Per chi volesse inserire l’attuale in una informazione critica ampia se non esaustiva, ne elenco alcuni ritrovabili nel sito:
- Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, 9 aprile 2015.
- La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, 21 aprile 2016.
- I sindaci: l’urbanistica è mia, 15 maggio 2016.
- Meno «rito ambrosiano» ma nuovi ritualismi, 21 settembre 2016.
- Negli anni Ottanta ci invitavano a berla, Milano, ora ci chiamano a darle l’incenso, 17 novembre 2016.
- MILANO ONALIM. La vita d’oggi in città, 17 marzo 2017.
- Realtà e propaganda nella condizione urbana, 22 febbraio 2018.