Il territorio cambia, e con esso cambia la vita degli uomini. Non tutti se ne rendono conto, ed è per questo che il suo governo (la pianificazione delle città e del territorio) è così trascurato. Quando poi impieghiamo ore nevrotiche nel traffico, o vediamo i paesaggi dell’infanzia scomparire, o non troviamo alloggio a prezzi ragionevoli là dove ci serve, o non troviamo vicino casa quello che nei paesi civili è la dotazione di ogni abitazione (il verde, la scuola, il negozio), allora di fatto lamentiamo, tardivamente, gli effetti di scelte compiute, nella distrazione di tutti, molti anni prima.
Benché nessuno se ne scandalizzi più che tanto, le decisioni attraverso le quali l’organizzazione e la forma del territorio (il suo “assetto”) vengono modificati non sono decisioni prese consapevolmente, da chi ha l’autorità morale per farle, nell’interesse degli utenti del territorio: sono (almeno nel nostro paese) il risultato di scelte conseguenti ad altri interessi. Interessi magari in se legittimi, ma orientati a obiettivi che non comprendono il maggiore benessere collettivo.
Così, quando si sono realizzate le ferrovie ci si è preoccupati di collegare il più velocemente ed economicamente possibile mercati tra loro connessi da ragioni commerciali, senza curarsi dei paesi tagliati in due (pensiamo a tante città italiane), delle spiagge allontanate dai suoi fruitori (pensiamo alla costa marchigiana e abruzzese), dei versanti dei monti tagliati e resi pericolanti e instabili. Quando si sono costruite le fabbriche ci si è preoccupati di avere il terreno a basso prezzo, la mano d’opera vicina, l’acqua a portata di mano: dell’inquinamento delle falde acquifere, degli effetti sul traffico nelle strade circostanti, dei rischi derivanti dalle specifiche produzioni industriali non ci si è preoccupati affatto.
E così, più recentemente, quando si sono aperti alle periferie delle città supermercati e ipermercati si è pensato alle quote di consumo che potevano essere accaparrate vendendo vasti assortimenti di merci a basso costo a un numero elevato di consumatori, non si pensato né alla congestione del traffico che ne derivava nella viabilità circostante né allo svuotamento dei centri antichi e dei quartieri urbani dalle attività ivi insediate. E’ stata, questa, una causa non piccola del degrado delle città, e in particolare delle parti più antiche. Ha incoraggiato la riduzione delle periferie in dormitori e dei quartieri antichi in luoghi fittiziamente animati solo dal turismo e dagli uffici.
Il commercio, lo scambio di beni e merci ha sempre avuto un ruolo particolare nella città. Alle origini, ne ha provocato la nascita e le fortune. La collocazione sul territorio dei nuclei originari delle nostre città è stata determinata, oltre e forse più ancora che dalle ragioni della difesa, da quelle dello scambio. Intrecciandosi con la vita civile e quella religiosa ha dato vita a una tipologia di luoghi che costituisce – insieme alla città – una delle invenzioni più rilevanti della creatività comune dell’umanità: le piazze, i luoghi dell’incontro, della socialità, dello scambio di beni, informazioni, esperienze, emozioni. Quando poi il commercio si è separato dalle altre funzioni urbane sono nate le periferie-dormitorio, la specializzazione funzionale delle diverse parti della città, la segregazione sociale – in una parole, una componente vistosa del disagio urbano.
Se questo è vero, se quindi la configurazione spaziale del commercio e la sua relazione con le altre funzioni urbane è essenziale per la città, e se questa è in una fase di veloce trasformazione, allora è evidente che il campo di ricerca di Fabrizio Bottini presentato in questo volume è importante non solo per gli studi urbanistici, ma per gli interessi degli abitanti delle città. Bottini indaga infatti sulle logiche interne che determinano l’attuale tendenza delle attività commerciali e delle loro connessioni con l’ambiente, sui modi in cui esse si esprimono e sulle mode che li alimentano, sugli effetti concreti che esse generano nei concreti territori della nostra vita.
Due sono gli spazi geografici privilegiati dall’analisi di Bottini: gli USA e quell’area pianeggiante, una volta irrorata dal Po e oggi da un rutilante sistema di comunicazioni, che l’attuale pubblicistica ha denominato Padania.
Evidente è la scelta del primo riferimento. Gli USA sono infatti l’ambito entro il quale è più facile osservare i risultati di uno sviluppo basato sulla netta prevalenza (sul dominio) delle ideologie liberiste e della concorrenza economica come motore esclusivo della macchina sociale. Una delle tendenze (delle ideologie) che attualmente si contendono il diritto di governare nel nostro paese: forse la più forte, certo la meno contrastata. Del resto, il pragmatismo americano è stato anche capace di comprendere per primo i limiti del mercato e di applicare alcuni empirici strumenti per non farli divenire catastrofici: non dimentichiamo che fu nell’America del nord (a New York, nel 1811) che si produsse il primo piano regolatore per disciplinare una città resa inutilizzabile dallo spontaneismo delle decisioni sul territorio, e che fu negli USA (col roosveltiano New Deal) che si applicò in grandi dimensioni la pianificazione territoriale per sanare gli effetti sulla società americana della crisi del capitalismo.
Studiare gli Stati uniti, comprendere e documentare come lì vanno le cose, le tendenze che si manifestano, i benefici e i danni che provocano, i soggetti tra cui si distribuiscono gli uni e gli altri, i modi in cui si cerca di governare e contenere gli effetti negativi è quindi molto utile non solo per acquisire consapevolezza di ciò che accade oltreoceano, ma per saper leggere e correggere in anticipo (prevenire) ciò che sta già avvenendo qui, da noi.
Qui da noi, e soprattutto nelle pianure del Nord evoluto e regressivo. Quel Nord padano lacerato tra l’antica propensione europea prima che europeista, e il più arcaico idiotismo delle valli chiuse e degli orizzonti ristretti, tra le consolidate tradizioni di saggezza amministrativa e di solidarismo sociale e le spinte individualistiche del guadagno rapido e certo. Quel Nord nel quale si sono sperimentati i più evoluti meccanismi di pianificazione e le più regressive pratiche di deregulation: per esemplificare, da Giovanni Astengo a Giovanni Verga. Qui, nelle sue terre che ancora gli suscitano commozioni, Bottini descrive e analizza, con il rigore dello scienziato, la passione dell’abitante, la penna del giornalista (e con un’ironia costante, che è insieme saggio distacco dalle cose e mitigazione di quanto in esse c’è di sgradevole e perverso) ciò che sta avvenendo, a prefigurazione di quanto potrebbe consolidarsi, ingigantirsi e propagarsi dappertutto.
Nel libro troverete dunque un’analisi appassionata di ciò che sta avvenendo in Italia, alla luce di ciò che è avvenuto negli Stati uniti: a partire dalla pompa di benzina (in cui Bottini vede il primissimo germe di quella connessione extraurbana, e intimamente antiurbana, tra commercio e autostrada) e dello shopping mall, passando per il factory outlet village, per giungere alla forma attuale del big box, la “grande scatola”, che in qualche modo sembra riassumere e concludere un percorso storico di nuova barbarie.
Intendiamoci: gli accenti perentori e indignati verso questa forma di distruzione della città sono miei, non dell'autore del libro. Bottini riesce infatti sempre ad avere un atteggiamento di comprensione nei confronti delle novità che si affacciano e delle esigenze cui rispondono. Sebbene metta sempre in evidenza i giudizi critici (gli è sempre presente lo slogan del sito Sprawlbusters!, “la qualità della vita vale più di un paio di mutande a poco prezzo”), lo spirito con il quale egli descrive e valuta è quello che emerge nelle conclusioni, dove precisa che il suo lavoro “non può e non vuole suggerire soluzioni, almeno non più di quanto implicitamente inteso nelle sequenze di casi e problemi esaminati”, e richiama “l’obiettivo di approfittare il più possibile delle opportunità offerte dai nuovi modi di uso dello spazio metropolitano e regionale, ferme restando le cautele di carattere sia ambientale che sociale su cui si è più volte tornati”.
Resta però, conclude Bottini, “la necessità di fare l’abitudine ad un rapporto fisiologicamente più conflittuale, a livello meno localistico, fra società e impresa commerciale; perché pare, e non da oggi, che solo dai conflitti nascano le innovazioni, in questo come in altri campi”.
Certo, il conflitto, la dialettica, è la molla che muove il mondo e lo fa progredire. Ma perché il percorso dialettico conduca alla sintesi, e non allo schiacciamento della tesi da parte dell’antitesi (o viceversa), occorre che vi sia un certo equilibrio tra le forze in campo. Non mi sembra che, sull’argomento specifico questo equilibro vi sia, almeno nel nostro paese e negli USA.
Sconfinato sembra infatti il potere di quella che Bottini definisce “impresa commerciale”: il mondo delle grandi holding, delle multinazionali dirette da un gruppo sempre più ristretto di soggetti, espressioni di una cultura dominatrice più che egemone. Un mondo il cui obiettivo è la maggiore ricchezza e il maggior potere acquisibili mediante l’impiego di tutti gli strumenti: il mercato e il monopolio, il liberismo e il protezionismo e l’assistenzialismo, la persuasione occulta e la guerra.
Esile invece, incerto sulla sua “missione”, affascinato dall’ideologia della “impresa commerciale” è dall’altro lato il mondo che del primo dovrebbe costituire l’antitesi onde costruire la superante sintesi: il mondo dell’amministrazione pubblica. Quel mondo il cui obiettivo istituzionale è difendere e promuovere gli interessi dell’intera società, e in particolare di gli strati e gli interessi dei quali il sistema dominante non si occupa se non residualmente.
Un simile squilibrio tra le forze in campo non stupisce negli USA, dove al potere pubblico è stato originariamente assegnato un ruolo di mero sostegno al mercato, e dove quindi il tentativo che si compie è quello di contrastare le iniziative della “impresa commerciale”, o più spesso di moderarne gli effetti più dannosi. Può stupire in Italia, parte di quell’Europa nella quale la relativa debolezza del sistema capitalistico-borghese ha storicamente condotto l’attore pubblico a svolgere un ruolo di guida e di supplenza al mercato e alle sue imperfezioni, e dove comunque gli interessi comuni, “cittadini”, hanno sempre costituito un potere strutturato, capace di confrontarsi in modo non subalterno con gli interessi dell’impresa.
Ma in Italia la capacità di governo del territorio si è manifestata unicamente a livello locale. Non a caso, in epoca contemporanea l’unico strumento di pianificazione adoperato è stato il piano regolatore comunale. Ora che i fenomeni (come Bottini limpidamente ed efficacemente illustra) sono diventati sovracomunali, si rivelano in tutta la loro gravità, da un lato, il ritardo con cui in Italia si è posto mano alla pianificazione territoriale (ai livelli provinciale, regionale e nazionale), e, dall’altro, lato la subalternità culturale della grande maggioranza delle forze politiche (e dello stesso mondo accademico) nei confronti dell’ideologia mercantilistica.
Non può considerarsi casuale il fatto che, mentre le strategie territoriali delle “imprese commerciali” si svelano nella loro lucida aggressività, la pianificazione territoriale delle regioni italiane si traduce nella predisposizione di testi ampiamente descrittivi, illustrativi e interpretativi delle situazioni di fatto, ma privi di qualsiasi operatività. Quest’ultima viene lasciata alle decisioni caso per caso, assunte giorno per giorno dal “governatore” o dal suo staff, aperte alla più scatenata discrezionalità. Ciò proprio mentre oltreoceano si ascoltano sempre più numerose le voci e le proposte che mirano a un’azione pubblica volta a contenere, regolamentare, controllare a priori le trasformazioni indotte dal sistema delle “imprese commerciali”.
L’invincibile provincialismo dei ceti che dirigono il Belpaese e ne determinano il futuro emerge ogni volta che, come nel libro di Fabrizio Bottini, vengono forniti onesti materiali di confronto. La speranza è che questi libri aiutino anche a superarlo.
Edoardo Salzano
Sorano, 31 ottobre 2004