Con le elezioni politiche di aprile sono caduti i progetti di riforma della legge urbanistica del 1942 che erano stati discussi, talvolta molto aspramente, nel corso della precedente legislatura. Spetta ora al nuovo parlamento il difficile compito di formulare una nuova proposta di legge. Il Giornale dell’Architettura ha chiesto ad alcuni urbanisti di primo piano di segnalare un punto (e uno solo) che il futuro legislatore non dovrà dimenticare. Apre la discussione Edoardo Salzano.
C’è un argomento sul quale l’Italia registra un enorme ritardo rispetto ad altri Stati europei; un argomento sul quale una legge che riguardi il governo del territorio (o una sua componente importante, la pianificazione urbanistica e territoriale) dovrebbe pronunciare regole chiare, tassative, non negoziabili: il consumo di suolo. In Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Olanda, come in diversi Stati e città degli Usa, i governi si sforzano di contrastare il consumo di suolo. In Italia, dove già dagli anni cinquanta ai settanta abbiamo devastato gran parte del territorio di pianura, di valle e di costa, non si sa neppure che cos’è. Se abbondano studi qualitativi sulla «città diffusa» e sulla «dispersione insediativa», non si sa quanto terreno venga occupato ogni anno da lottizzazioni ed espansioni urbane, ville e villette, capannoni e discariche, strade e piazzali, discoteche e factory outlets. Da noi nessuno sa, né si preoccupa di sapere, quanto terreno viene sottratto all’agricoltura, alla percolazione dell’acqua piovana, all’azione della clorofilla e del sole, al ciclo biologico. Così come del resto non si sa quanti elementi del patrimonio storico vengono cancellati nella distrazione generale.
La mancanza di dati sui quali basare appropriate politiche rivela un disinteresse profondo per la questione. Eppure, per chiunque è evidente che il consumo di suolo aumenta ogni anno, per effetto dell’«anarchia urbanistica», come l’ha definita Carlo Azeglio Ciampi. Un’anarchia che è certamente prodotta in parte consistente dall’abusivismo, e dalla miopia aziendalistica con la quale i vari corpi statali e parastatali hanno progettato e realizzato le infrastrutture e gli altri oggetti di competenza pubblica. Ma un’anarchia che è generata, sempre più spesso, anche da una pianificazione urbanistica più sensibile agli interessi immobiliari che alla tutela delle risorse comuni.
Voglio citare un raffronto significativo, che dà un’idea della dimensione del problema. In Germania il governo Kohl (che certamente «comunista» non era) pose nel 1998 l’obiettivo di non investire ogni giorno nell’urbanizzazione più di 30 ettari, e l’obiettivo è oggi largamente rispettato. Significa che per ogni cittadino tedesco si consumano 1,34 mq di nuovo suolo all’anno. Per l’Italia riferiamoci al Prg recente di una grande città, quello di Roma: 15.000 ettari di nuove aree sottratte alla natura, una previsione decennale di 6 mq all’anno per ogni cittadino. Più di 4 volte tanto. Non credo che un’analisi di altre città italiane, al Sud al Centro e al Nord, darebbe risultati troppo diversi: ma chi fa i conti dello spreco di territorio?
A me sembra che una nuova legge nazionale sul territorio dovrebbe decretare, in primo luogo, che nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali siano consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. Dovrebbe poi precisare che gli strumenti di pianificazione non possono consentire nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, né consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all’estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista.
Nella nuova proposta di legge per la pianificazione della città e del territorio che il sito Eddyburg.it ha proposto, questo tema viene ulteriormente sviluppato e precisato. Naturalmente, nel quadro della riaffermazione di principi di carattere generale in assenza dei quali il controllo del consumo di suolo resterebbe un’utopia: la titolarità pubblica della pianificazione, l’assunzione di quest’ultima come metodo generale per il governo del territorio, il diritto alla città e all’abitare, la partecipazione e la condivisione delle conoscenze.