L’urbanistica non è l’architettura. La pianificazione della città e del territorio ha poco a che fare con la progettazione di un edificio. Il fatto che l’urbanistica sia nata come una costola dell’architettura è una caratteristica propria dell’Italia. Altrove non è così. Ed è noto che, nella prima metà degli anni Venti del secolo scorso ci fu una discussione accesa tra due tesi alterative: l’una vedeva l’urbanistica come figlia dell’amministrazione e dell’ingegneria delle reti, l’altra come un’estensione della progettazione fisica alla città. Prevalse la seconda.
La formazione dell’urbanista in modo radicalmente diverso da quello dell’architetto avvenne, ad opera soprattutto di Giovanni Astengo, in un duro confronto all’interno dell’IUAV. Si accetto di costituire un corso di laurea in urbanistica, con una sua spiccata autonomia da tutti i punti di vista: da quello della sede a quello del percorso formativo. Come negli altri paesi europei la matrice architettonica fu profondamente integrata con le scienze della sociologia, del diritto, dell’ecconomia, della geografia, della statistica, della geologia e, più tardi, delle altre scienze dell’ambiente naturale. Alcuni architetti-urbanisti di grande rilievo culturale, come Giancarlo De Carlo e Giuseppe Samonà si opposero allora alla “separazione” dell’urbanistica dall’architettura: essi temevano che gli architetti, senza l’urbanistica, avrebbero perso il contatto con la visione della città, e più in generale del contesto, che un buon architetto deve avere. Ma non credo che sia dipeso dalla formazione di una specifica scuola di urbanistica se, negli anni recenti, l’architettura si sia “deterritorializzata”, e spesso ridotta alla produzione di oggetti avulsi dal contesto.
La trasformazione del corso di laurea un una facoltà (di Pianificazione del territorio) fu una conseguenza naturale di quella prima decisione, e avvenne quando l’IUAV si trasformò, da ateneo monofacoltà, in ateneo articolato – come tutti gli altri in Italia – diverse facoltà.
Ai tempi di Giovanni Astengo, e della formazione dei primi corsi di laurea in urbanistica, il clima politico e culturale era molto diverso da quello attuale. Allora, la pianificazione urbanistica era sentita come una rilevante necessità sociale. Era la fase delle riforme, che condussero ad amplissime discussioni politiche sui contenuti- Alla fine, cadute le illusioni di una riforma che incidesse sui modi di esercitare il diritto di proprietà, il dibattito politico e culturale e la conseguente azione legislativa condussero comunque a riforme consistenti (dalla generalizzazione della pianificazione comunale e dagli standard urbanistici e dal loro finanziamento, fino all’edilizia sociale e alla programmazione temporale dell’attuazione dei piani). Il mestiere dell’urbanista era essenziale per le forze politiche diversamente impegnate in un rinnovamento socialmente orientato del paese (dai socialisti e comunisti, fino ai democristiani, ai repubblicani, perfino ai liberali).
Oggi non è più così. L’ideologia della prevalenza del mercato in tutte le dimensioni della società ha portato a dimenticare che la pianificazione urbanistica era nata, nei regimi borghesi, proprio per risolvere i problemi che il mercato non poteva risolvere. Il “declino dell’uomo pubblico” (per adoperare le parole di Richard Sennett), ossia la spiccata prevalenza data nell’ideologia dominante alla dimensione del privato e dell’individuale ha logorato quella consapevolezza degli interessi comuni che era la base per una partecipazione dei cittadini alla pianificazione. La prevalenza dei poteri economici su quelli politici ha indotto questi ultimi a sacrificare la regolazione della città, e a preferire di dedicare l’uso della città allo sviluppo delle componenti parassitarie del reddito. Siamo arrivati addirittura a leggere, nel programma della maggiore formazione nata dall’eredità dei novecenteschi partiti di sinistra che “in tema di pianificazione dell’uso e di governo del territorio, l’ideologia della regolamentazione è cattiva consigliera”!
Ha senso, in una situazione come questa, proporsi di istituire una facoltà di pianificazione del territorio? Io penso di si, alla condizione che si sappia restare ancorati ai principi dell’urbanistica (primato dell’interesse comune, responsabilità pubblica della pianificazione, carattere olistico delle scelte sul territorio, interdisciplinarietà della formazione e del lavoro dell’urbanista). E che si sappia evitare di scendere a patti con i “poteri forti”, o addirittura di porsi al loro servizio