Non si possono variare automaticamente i piani urbanistici comunali, né derogare dalle norme dei piani provinciali e regionali, per privatizzare (“alienare” e “valorizzare”) aree ed edifici del patrimonio pubblico. Così ha stabilito la Corte costituzionale bocciando (con sentenza 340 del 16 dicembre 2009) una parte del decreto legislativo col quale il governo disponeva la “ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni e altri enti locali” mediante la redazione del “piano delle alienazioni immobiliari” (Dlgs 112/2008).
Per alienare il patrimonio immobiliare pubblico il governo aveva stabilito una procedura particolare. Regioni, comuni e altri enti locali devono individuare i singoli beni immobili “non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni” (per esempio, escludendo il municipio o il mercato comunale), suscettibili invece di vendita o “valorizzazione”. L’elenco di questi immobili costituisce il “piano delle alienazioni immobiliari”. L’inserimento nell’elenco provoca due effetti: il bene viene trasferito al “patrimonio disponibile” (quindi diventa vendibile), e cambia la sua “destinazione urbanistica”. Fermiamoci su quest’ultimo aspetto.
La norma del decreto governativo disponeva che questa modifica della destinazione urbanistica (per esempio, la decisione di destinare un museo in un albergo, o un ospedale in un residence, o una duna in un villaggio turistico) avesse a sua volta due effetti: costituiva variante automatica del piano urbanistico comunale, e non era subordinata alla verifica di conformità con le disposizioni dei piani provinciali e regionali, cioè al rispetto di questi.
Effetti gravissimi sia il primo che il secondo.
Per i piani comunali, come è noto, le leggi urbanistiche regionali stabiliscono contenuti precisi (che cosa i piani devono stabilire, su quali studi devono essere basati ecc.) e proceduredi garanzia (che consentano, tra l’altro, pubblicità delle scelte e partecipazione dei cittadini). Ovviamente anche le varianti ai piani devono seguire queste regole. Disporre perciò che l’inclusione di un immobile nel “piano delle alienazioni” equivalga a variante automatica significa autorizzare scelte non fondate e procedure non trasparenti.
Altrettanto grave il secondo effetto. I piani comunali sono subordinati alle scelte della pianificazione “sovraordinata”: alle prescrizioni dei piani provinciali e regionali: a quei piani che, tra l’altro, prescrivono – quando sono fatti correttamente - le tutele dei beni culturali e i vincoli paesaggistici, confermano le decisioni relative alla difesa del suolo e delle acque, dettano norme per ridurre il consumo di suolo. Decidere perciò che le “varianti automatiche” derivanti dall’inclusione del “piano delle alienazioni” non debbano rispettare la pianificazione sovraordinata significa consentire pesanti devastazioni del territorio e rischi per i suoi abitanti.
La Corte costituzionale ha dichiarato illegittime proprio queste norme. Nell’inserire gli immobili nel “piano delle alienazioni” il comune può decidere qual è la nuova destinazione urbanistica, ma per renderla efficace deve in ogni caso seguire le regole che le leggi regionali stabiliscono: “la destinazione urbanistica – afferma la sentenza - va ovviamente determinata nel rispetto delle disposizioni e delle procedure stabilite dalle noirme vigenti”. E comunque non è ammissibile la deroga dalle disposizioni dei piani provinciali e regionali: la verifica di conformità va operata sempre e comunque.
Fortunati quindi quei territori nei quali regioni e province hanno approvato efficaci piani nei quali i patrimoni comuni (il paesaggio, la cultura, la storia, la salute, la sicurezza) sono protetti. Fortunati gli abitanti che vi vivono e i loro posteri, a maggior ragione se le norme regionali, e la buona volontà dei comuni, producono piani saggiamente elaborati e decisi mediante procedure trasparenti e partecipate. In quei territori e per quegli abitanti la tendenza alla privatizzazione e “valorizzazione” del beni collettivi può essere meno devastante che altrove.