Un progetto, a suo modo coerente, di sostituzione del privato al pubblico ha caratterizzato la politica urbanistica di Berlusconi. Ne sono esempi principali il cosiddetto piano-casa e gli interventi per il post terremoto all'Aquila. Linea comune è stata l'abbandono delle regole pubbliche, utili a costruire nel territorio un insieme sistemico, e il privilegio dato ad una visione individualistica dello spazio. Dimenticando che città e società sono due aspetti della stessa realtà: una non vive senza l'altra. Il consenso a questa politica l'ha trovato cambiando gli strumenti della formazione: non più scuola, parrocchia e casa del popolo, ma televisione commerciale.
Uomo di poche letture e pochi pensieri Berlusconi doveva affidarsi, anche per la sua politica urbanistica, alle pulsioni individuali e alle esperienze personali. Ecco allora i suoi due principi: ognuno è proprietario a casa sua, e fa della sua terra ciò che vuole; i problemi delle città si risolvono costruendo attorno a ciascuna di quelle esistenti una Citta Due, come ha fatto lui a Milano. Questi due principi non sono rimasti mere dichiarazioni. Si sono tradotti in coerenti politiche.
Il pilastro della visione urbanistica
Il pilastro dell’azione del Cavaliere è costituito dalla distruzione del primato dell’autorità pubblica nel governo del territorio.
É da alcuni secoli che le democrazie liberali hanno compreso che non tutti i problemi della società sono risolti dal mercato e che alcune dinamiche, come la crescita e le trasformazioni delle città e dei territorio, dovevano essere governate da un potere esterno al mercato: un potere pubblico. Il territorio è un insieme sistemico, in cui la modifica di un elemento comporta modifiche in tutti gli altri: non si possono sistemare le fabbriche se si trascura l’inquinamento che producono e le infrastrutture che devono alimentarle; non si possono localizzare le abitazioni e le scuole se non si organizzano in loro funzione ferrovie e strade; non si possono localizzare le urbanizzazioni senza sapere che risorse naturali ci sono sotto la superficie. Ecco che allora, già agli albori del XIX secolo, le democrazie borghesi inventarono la pianificazione urbanistica (poi estesa al territorio): un insieme di metodi e strumenti anch’esso, appunto, di carattere sistemico.
La pianificazione urbanistica, in un regime democratico, consente anche trasparenza (maggiore o minore) nella regolazione dei conflitti che nascono tra le diverse utilizzazioni possibili del suolo: conflitti inevitabili nel regime economico e patrimoniale attuale nel mondo capitalistico. Quali che siano comunque gli interessi che si vogliono privilegiare, le leggi delle borghesie liberali disponevano comunque che, in caso di contrasto tra interesse pubblico e interesse privato nell’uso del territorio, fosse il primo a prevalere. Ed è esattamente in questo spirito che le prime leggi urbanistiche del XIX secolo (e in Italia, dal 1865 fino alla legge urbanistica del 1942) determinavano l’esproprio per pubblica utilità, il pagamento di indennità che non remuneravano il maggior valore derivante dalle opere e le decisioni pubbliche, il prelievo fiscale di una quota dei plusvalori derivanti da queste. E adottavano, come quadro prescrittivo di tutte le trasformazioni della città (poi del territorio) la pianificazione.
La demolizione della pianificazione urbanistica è al fondo della visione urbanistica del Cavaliere proprio per le stesse ragioni che ne hanno storicamente motivato nascita e consolidamento. Lo è perché la pianificazione esprime un insieme di regole dettate dal potere pubblico, e lo è perché esprime una visione olistica della politica (quindi antagonista rispetto alla pratica discrezionale del caso per caso e del “quando voglio faccio”). L’odio per la pianificazione urbanistica si esprime in numerosi atti di governo, e in dichiarazioni pubbliche che hanno, nella società attuale, altrettanto valore di una norma.
La continua riproposizione dei condoni dell’abusivismo edilizio e urbanistico ha costituito un invito quasi esplicito a disprezzare piani e regole, “tanto prima o poi ogni abuso sarà condonato”. L’allentamento dei controlli edilizi (dalla concessione edilizia, via via, fino all’autocertificazione dell’intervento) ha significato passare gradualmente dal principio “il potere pubblico stabilisce che cosa si può fare e che cosa si può fare sul territorio e poi il privato agisce e viene penalizzato se contravviene”, al principio “fai quello che vuoi e se violi qualche legge poi, se ho tempo e voglia, provvederò eventualmente a penalizzarti”. Il trasferimento della potestà deliberativa su scelte rilevanti per l’organizzazione del territorio dagli organi elettivi collegiali agli organi di maggioranza e a quelli monocratici (dai consigli alle giunte e ai sindaci e presidenti), hanno vanificato la capacità di controllo da parte delle minoranze e di conoscenza da parte dei cittadini, sacrificando la democrazia al mito della governabilità. L’impoverimento degli strumenti della funzione pubblica, obbligati a ridurre la quantità e la qualità del personale e delle strutture, a cominciare da quelle addette alla pianificazione del territorio e alla vigilanza su di esso ha reso via via impossibile governare efficacemente anche quelle amministrazioni (e non sono molte) che hanno cercato di andare controcorrente. Si è addirittura giunti ad attribuire funzioni rilevantissime, geloso appannaggio dell'amministrazione pubblica, a soggetti ( commissari) scelti in ragione della loro fedeltà al gruppo di potere dominante, con pieno potere di sostituzione agli organi democratici e di deroga dalle procedure di legge. La privatizzazione e commercializzazione dei beni pubblici è stata la conseguenza patrimoniale di quelle azioni sui dispositivi [1].
“Piano-casa” e dopo-terremoto
I casi più rappresentativi della visione urbanistica berlusconiana sono rappresentati da due avvenimenti: il famoso “piano-casa”, la gestione del dopo terremoto in Abruzzo.
Chiamare “piano-casa” quel singolare provvedimento, più mediatico che strutturale, lanciato da Berlusconi nel marzo 2009 è stato già di per sé un bluff. Il provvedimento annunciato con quel titolo non è un programma finalizzato alla realizzazione di alloggi per quelle fasce di abitanti della Repubblica che non riescono a trovare soddisfazione rivolgendosi al mercato privato (come fu per tutti i provvedimenti che si sono susseguiti dalla Liberazione a Prodi), ma semplicemente l’incentivo a chi possedeva già un’abitazione, o comunque un volume edificato, di ampliare la sua proprietà immobiliare e trasformarla nelle sue utilizzazioni, derogando esplicitamente da tutti i regolamenti e i piani nonché (almeno in una prima fase) dalle stesse norme di prevenzione dai rischi o di tutela dei beni culturali e del paesaggio.
Era facile comprendere che aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso sovradimensionati) avrebbe significato compromettere tutte le condizioni della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle reti dell’acqua e delle fogne, ridurre l’efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell’aria e dell’acqua, ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. E avrebbe significato privilegiare, nell’economia, le componenti parassitarie rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della ricerca, dell’innovazione dei sistemi produttivi, dell’utilizzazione delle risorse peculiari della nostra terra.
Tutti sono caduti nella trappola. Dimenticando la realtà (cioè l’esistenza di un vero “problema della casa”, che quel provvedimento non affrontava neppure marginalmente), trascurando l’impatto che quella linea d’azione avrebbe avuto sulle condizioni delle città, ignorando perfino la sua evidente incostituzionalità [2], tutti accettarono per moneta sonante il “piano-casa”; tranne pochissime eccezioni. Fu addirittura una “regione rossa”, la Toscana, ad adeguare per prima la sua normativa al dictat berlusconiano. Certo, limandone le punte più aspre, ma accettando comunque quel tema: arricchire l’edilizia privata, consolidare il “blocco edilizio”, premiando gli immobiliaristi piccoli e grandi invece di affrontare il problema di chi la casa non ce l’ha.
La “ricostruzione” dei luoghi colpiti dal terremoto in Abruzzo (l’altra scelta emblematica del regime berlusconiano) è una sintesi dell’immaginario urbanistico del Cavaliere. Già nei primi giorni del dopo-terremoto aveva colpito il modo in cui il premier aveva afferrato l’occasione del terremoto per farsi propaganda. Ha colpito gli osservatori più attenti il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, agevolati dalla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento. Hanno colpito le condizioni di vita nelle tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al riparo provvisorio d’una comunità di cittadini.
Ma la vera tragedia è stata nel modo adottato dal governo (e sostanzialmente accettato dall’opposizione) di procedere alla ricostruzione in riferimento soprattutto a due scelte, tra loro strettamente collegate: l’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la ricostruzione “altrove” delle case distrutte.
Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.
Con la seconda scelta si è deciso sostituire, alla ricostruzione della città danneggiata dal sisma, un paio di decine di lottizzazioni su aree scelte casualmente senza nessuna logica territoriale e sociale. Lottizzazioni per di più senza attrezzature sociali, senza luoghi di aggregazione: “con una cura maniacale dell’interno degli alloggi”, come scrivono gli autori del rapporto che per primo ha rotto il velo roseo che avvolgeva l’operazione [3], che rivela come per l’ideologia di Berlusconi (le esigenze dell’uomo si riducono a quello dell’individuo: la società cui appartiene non esiste e non interessa. Anzi, può essere minacciosa. Che ciascuno sia solo nel suo guscio, naturalmente alimentato da un televisore.
Le scelte del dopo-terremoto hanno colpito direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.
Questa, del resto, è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non aveva promesso Berlusconi una “new city” per ogni capoluogo di provincia?
Come per il “piano-casa” anche per la cosidetta “ricostruzione” in Abruzzo l’opposizione è caduta in pieno nella trappola mediatica. Per molti mesi, quando i progetti erano chiarissimi nella loro impostazione e nel loro svolgimento, perfino la stampa più ostile esprimeva lodi per il comportamento della coppia Berlusconi-Bertolaso. Il fatto è che entrambi i versanti dello schieramento politico e culturale condividono le stesse preferenze: privilegiare la governabilità sulla democrazia, scegliere la tempestività dell’intervento trascurando ricerca laboriosa della soluzione più idonea, cancellare la storia e dimenticare così gli ammaestramenti del passato.
L’urbanistica di Berlusconi esprime, in larghissima misura, una strategia che non può che definirsi bipartisan. Una strategia che assume una certa idea di “sviluppo” come l’obiettivo generale cui tendere e cui ispirare l’intera dinamica della società, che vede nel mercato lo strumento capace di misurare, meglio d’ogni altro, non solo il “valore di scambio” delle merci, ma ogni valore che abbia un senso, e che infine nega, o nasconde, o riduce al massimo, la dimensione pubblica privilegiando al massimo quella privata. Ma Berlusconi innesta una marcia in più: assume privatisticamente i poteri pubblici, utilizzando per gestirli i suoi commissari. Les jeux sont faits; il mito del mercato è stato utilizzato per sostituire a quest'ultimo il potere monopolistico di un monarca assoluto.
La strategia del saccheggio
Nella concezione berlusconiana dell’uso del territorio (e più in generale dei beni comuni) l’obiettivo si specifica con chiarezza, esprimendosi in quella che si può definire la strategia del saccheggio[4]. Bisogna far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa. Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte. Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie.
Ecco allora che il suolo deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Devono essere privatizzati gli elementi del paesaggio la cui “valorizzazione” può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.
Naturalmente, come abbiamo visto, si devono distruggere le regole. Ma farlo non si può senza ottenere il consenso necessario, poiché (e finché) si opera in un contesto nel quale bisogna rispettare le forme della democrazia. Allora bisogna cambiare la testa della gente. Via lo spirito critico, via la conoscenza, via il sapere diffuso. Via la memoria, se il passato recente ricorda ai più anziani che cosa era stato conquistato e che cosa ci stanno togliendo. E via la storia, magistra vitae e testimonianza del fatto che non tutto è già scritto e che il futuro non è necessariamente appiattito sul presente (non è vero che “There Is No Alternatives”).
Per cambiare le teste basta cambiare gli strumenti della formazione: non più la scuola, la parrocchia, la casa del popolo, è la televisione commerciale che foggia le teste e le coscienze della gente da almeno trent’anni. E allora, disponendo di questo strumento si può far diventare pensiero corrente gli slogan utili alla strategia del saccheggio (“meno stato più mercato”, “privato è bello”, “padrone a casa mia”, “meno tasse per tutti”) e far credere alla “gente” che benessere significa modernizzazione, sviluppo significa crescita, democrazia significa votare una volta tanto, privato è meglio che pubblico, Io è meglio che Noi.
[1]A proposito delle iniziative di Berlusconi nel settore immobiliare (quindi nel campo del territorio e dell'urbanistica), Walter Tocci osserva che «l'insieme di questi provvedimenti configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra». "L’insostenibile ascesa della rendita urbana", Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 27.
[2]Vincenzo Cerulli Irelli, Luca De Lucia, “Il secondo 'piano casa': una incostituzionale depianificazione del territorio”, Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 106-116.
[3]Comitatus Aquilanus, L’Aquila. Non si uccide così anche una città?, a cura di Georg Frisch, Clen, Napoli 2009
[4]Questi temi sono affrontati più ampiamente nel sito web eddyburg.it. Vedi in particolare l'”eddytoriale” n. 143.