Sintesi
Giustamente l'INU pone al centro della sue riflessione due questioni entrambe nodali: il sistema della pianificazione urbanistica e territoriale, il regime degli immobili. E altrettanto giustamente l'INU affronta la prima delle due questioni ponendo l'accento su argomenti (quali il rapporto tra pianificazione e tempo, le competenze dei vari livelli di governo e di pianificazione, i contenuti che la pianificazione deve avere in relazione alle nuove situazioni e alle nuove esigenze) per i quali soluzioni innovative sono, a un tempo, necessarie e mature. Sulla prima questione è peraltro possibile compiere passi avanti molto più decisi di quelli che l'INU propone, come il dibattito culturale e recenti esperienze di pianificazione dimostrano. Sulla seconda questione le proposte dell'INU costituiscono un preoccupante arretramento rispetto a un'elaborazione culturale la cui vicenda (a partire dagli anni 50) è parte costitutiva della storia dell'INU.
Il sistema della pianificazione
Per restituire credibilità alla pianificazione occorre affrontare e risolvere tre problemi: come far sì che la pianificazione, senza perdere la propria coerenza, riesca ad adattarsi alle trasformazioni della realtà in tempi “politici” e non “storici”; come rispondere efficacemente, con la pianificazione, alla fondamentale esigenza della tutela delle qualità ambientali e della riduzione dei rischi; come ottenere snellezza e chiarezza dei procedimenti, in una situazione in cui almeno tre livelli di governo sono coinvolti nel processo di pianificazione.
Tali problemi possono essere enunciati sinteticamente come quelli dei rapporti della pianificazione con il tempo, con l'ambiente e con i poteri pubblici. È su questi che mi propongo ora di soffermarmi, prima di dedicare, in conclusione, qualche brevissima annotazione alla questione del regime degli immobili (che tocca il cuore di un quarto rapporto: quello tra la pianificazione e i poteri privati).
Pianificazione e tempo
In alcuni strumenti urbanistici alla cui elaborazione ho partecipato dall'inizio degli anni 80[1] abbiamo sperimentato la possibilità, l'opportunità e l'utilità di una trasformazione del tradizionale strumento di pianificazione (il PRG), che è stata successivamente messa a punto in alcuni elaborati prelegislativi presentati in varie sedi. La proposta è basata sull'articolazione degli elaborati. grafici e normativi del piano comunale (ma analogo criterio viene proposto per gli atti di pianificazione degli altri livelli) in due serie di componenti.
La prima componente, che abbiamo definito strutturale (ma che presenta sostanziali differenze rispetto allo “structure plan”), rappresenta e disciplina le decisioni relative alla tutela ambientale e della riduzione dei rischi, e quindi definisce, per ciascuna unità di spazio, le condizioni che l'esigenza suddetta pone alle trasformazioni territoriali, e inoltre individua (rappresentandole e disciplinandole) le scelte relative a opere e interventi di carattere strategico, e cioè riferite al lungo periodo e governabili solo in una prospettiva lunga. Essa ha validità a tempo indeterminato, viene periodicamente verificata (e aggiornata solo se ciò si rivela necessario), e comporta un iter procedimentale più garantistico dell'altra componente.
La seconda componente, che abbiamo definito programmatica (ma che ha un contenuto molto più ampio del Programma poliennale d'attuazione, avvicinandosi piuttosto al “Pian d'occupation du sol”, e che è a sua volta matrice, per le aree di pesante trasformazione urbanistica, di specifici piani urbanistici attuativi), definisce le destinazioni d'uso attivabili, nonché le trasformazioni fisiche operabili (le une e le altre, ovviamente, nell'ambito e nel rispetto delle condizioni definite dalla componente strutturale e in coerenza con la sua stralegia). La componente programmatica ha validità per un quadriennio, cioè per un periodo coincidente con il mandato amministrativo; alla fine di tale periodo essa decade, e deve essere sostituita da un nuovo analogo atto. L'iter procedimentale della componente programmatica si esaurisce nell'ambito dell'ente territoriale che l'ha adottata (comune, provincia o città metropolitana, regione).
In tal modo, mentre da un lato vi sarebbe una forte garanzia di permanenza, e di modificabilità molto controllata, sulle scelte relative alle tutele e alle strategie, le concrete operazioni di trasformazione funzionale e fisica sarebbe interamente demandate alla responsabilità dell'ente territoriale, consentendo a quest'ultimo di seguire con tempestività le trasformazioni e l'evoluzione della domanda sociale.
Il documento dell’INU sembra diretto verso i medesimi obiettivi, i quali peraltro meriterebbero d'essere esplicitati con maggiore chiarezza e, soprattutto, più coerentemente tradotti nel sistema di pianificazione proposto.
Pianificazione e ambiente
E solo attorno alla metà degli anni 80 che l'esigenza di attribuire una “specifica considerazione ai. valori paesaggistici e ambientali” nella redazione degli strumenti di pianificazione ha cominciato ad affermarsi. Si conviene ormai largamente che, come si affermò in modo esplicito fin dai documenti preparatori del Piano paesistico dell'Emilia-Romagna, “la tutela dell'integrità fisica e dell'identità culturale del territorio costituisce la precondizione per le trasformazioni”.
Più generalmente, molti ritengono che la pianificazione debba assumere il requisito della sostenibilità come proprio obiettivo centrale. E quando si parla di sostenibilità ci si riferisce alla definizione di “sviluppo sostenibile” adottata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, la cosiddetta Commissione Brundtland. Dove per “sviluppo sostenibile - è opportuno ricordarlo - “si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”[2].
Queste posizioni di principio devono però tradursi in specifiche prescrizioni normative che inverino tale posizione nel procedimento tecnico di formazione degli atti di pianificazione.
La nuova configurazione degli atti di pianificazione indicata nel precedente paragrafo, e in particolare i contenuti della componente strutturale, mi sembrano tali da consentire di raggiungere l'obiettivo “ambientalista”. Della componente strutturale fanno infatti parte sostanziale tutti gli elementi di individuazione e di prescrizione che definiscono, per ciascuna porzione del territorio e per ciascuna unità di spazio, le condizioni che le esigenze della tutela pongono alle trasformazioni.
Sarà certo necessario (ma non in sede di legge nazionale, e neppure di legge regionale, sebbene in sede di regolamentazione tecnica di livello substatuale) suggerire o prescrivere le concrete modalità tecniche, gli specifici parametri, le puntuali analisi che dovranno essere adottati nel definire la componente strutturale degli atti di pianificazione. Esiste ormai una messe sufficientemente ampia di esperienze di pianificazione, in Italia, oltre che all'estero, che consentirebbero di mettere a punto rapidamente una prima bozza di regolamentazione tecnica.
Pianificazione e poteri pubblici
La legge 142 del 1990 ha definitivamente stabilito che i livelli di pianificazione (oltre alla questione del “livello” nazionale, la quale meriterebbe un ragionamento a parte) sono tre: la regione, la provincia (e, dove è istituita, l'area metropolitana), il comune. Giustamente il documento dell'INU recepisce questa indicazione, la quale del resto corona un lunghissimo dibattito culturale iniziato con il Codice dell'INU del 1959 e poi proseguito attraverso le elaborazioni e le discussioni sull'istituto regionale e sull'ente intermedio. Il problema ancora aperto è quello di definire contenuto, competenze e procedimenti dei tre livelli di pianificazione e di governo, sulla base del presupposto (che il documento dell'INU `palesemente non condivide) che a ogni livello di governo corrisponde un livello di pianificazione, e che ogni ente pubblico territoriale elettivo di primo grado, titolare di competenze in merito a scelte che incidono sul territorio, esprima le sue scelte mediante un atto di pianificazione.. Il criterio che mi sembra ragionevole assumere per distinguere le competenze territoriali dei tre livelli di governo è quello per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le funzioni relative ad aspetti che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste.
Questo criterio coincide con quello, consolidato nella cultura e nella prassi della Unione europea, della “sussidiarietà”, per cui debbono competere ad ogni livello, e a ogni soggetto, istituzionale, tutte le funzioni che a quel livello, e da parte di quel soggetto, ragionevolmente si possa ritenere siano esplicabili con efficienza ed efficacia tali da rispondere accettabilmente agli interessi dei cittadini amministrati, essendo (soltanto) le funzioni “residue” via via deferite ad altri soggetti e/o livelli, istituzionali, con particolare riferimento a quelli “sovraordinati”.
Nella pratica della pianificazione, l'esercizio delle competenze proprie di ciascun livello di governo (e di piano) dovrebbe esprimersi in forme differenziate in ragione sia della natura e delle caratteristiche degli oggetti e aspetti territoriali considerati, sia della congruità delle “forme espressive” (localizzazioni precise, ambiti di localizzazione, soglie, ecc.) con le specifiche competenze pertinenti a quel livello. Così, gli strumenti di pianificazione dei livelli di governo sovraordinati e di tipo “generale” dovrebbero definire precise localizzazioni o esatti tracciati per alcuni elementi (per es., un porto o una grande infrastruttura lineare), ambiti, o direttrici, di localizzazione, da osservare nell'attività pianificatoria di livello sottordinato o di tipo attuativo per altri elementi (per es., la localizzazione di un aeroporto a livello nazionale, di una sede universitaria a livello regionale, di un istituto scolastico superiore a livello provinciale), quantità o soglie quantitative per altri elementi ancora, e in particolare per quelli influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella sommatoria degli effetti che ne risultano.
Per quanto riguarda le procedure, ogni livello di governo dovrebbe potersi esprimere sugli atti di pianificazione di competenza di ciascun altro livello, ma la decisione ultima spetta al livello di governo che ha competenza per quel determinato elemento o aspetto della struttura territoriale. Conseguentemente, ad ogni livello di governo dovrebbe essere riconosciuto un mero potere di controllo della conformità delle scelte di competenza dei livelli sottordinati alle decisioni proprie e degli altri livelli sovraordinati.
Gli enti territoriali elettivi di livello sottordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sovraordinato esprimendo osservazioni, cui dovrebbe essere sempre obbligatorio controdedurre motivatamente. Parimenti, gli enti di livello sovraordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sottordinato mediante pareri e osservazioni, ai quali dovrebbe essere ugualmente obbligatorio controdedurre motivatamente, ma che dovrebbero essere vincolanti solamente ove concernenti la tutela di interessi la cui competenza sia riconosciuta ai predetti enti di livello sovraordinato.
E ove gli enti di livello sovraordinato abbiano provveduto ad esprimere tali interessi mediante gli strumenti di pianificazione di propria competenza, la vigenza degli strumenti di pianificazione di livello sottordinato dovrebbe essere soggetta soltanto al controllo della loro conformità alle de terminazioni dei primi. Non dovrebbe infine essere previsto alcun controllo di merito, da parte degli enti di livello sovraordinato, sugli atti di pianificazione di tipo “attuativo”, che vengano dichiarati, e siano, meramente esecutivi delle prescrizioni di strumenti di tipo “generale” già vigenti.
Il regime degli immobili: pianificazione e poteri privati
Gli obiettivi che 1' INU, e le forze progressiste e riformatrici della cultura e della politica, si sono tradizionalmente posti sono stati due: impedire che flussi di risorse affluissero alla rendita fondiaria ed edilizia (e tendenzialmente eliminare la quota di rendita fondiaria trasferita nel prezzo delle abitazioni), e rendere i proprietari di suoli “indifferenti alle destinazioni dei piani”[3] (3). Quest'ultimo obiettivo è particolarmente rilevante per chi - come gli urbanisti -è culturalmente e tecnicamente impegnato nella pianificazione. Finché quella indifferenza non sarà raggiunta, finche sarà la matita degli urbanisti a spostare da un'area a un'altra (e da un portafoglio all'altro) ingenti masse di reddito, le ragioni culturali e tecniche saranno sempre perdenti: le scelte saranno legittimamente compiute non dai “tecnici”, ma dai politici i quali, in quanto eletti dai cittadini, sono gli unici pienamente legittimati a decidere (si spera, nell'interesse collettivo) su scelte delle quali l'aspetto economico è senza dubbio predominante su quello tecnico.
Mi sembra questa la ragione di fondo per cui, fin dagli anni 50 (ma forse sarebbe utile riandare perfino al dibattito che precedette la legge del 1942), gli urbanisti si sono “impicciati” ditemi così precipuamente economici, sociali e politici come quello del regime degli immobili. Ed è questa anche la ragione di fondo per cui ritengo che la proposta della cosiddetta “perequazione”, avanzata nel documento dell'INU, sia un gravissimo cedimento.
La proposta oggi sostenuta dall'INU attribuisce infatti un valore di rendita edilizia a tutte le aree comprese all'interno delle aree urbanizzabili o ri-urbanizzabili, operando “perequazioni” tra i proprietari compresi all”interno di queste ultime (perdi più con differenze di indici che non si comprende quale portata “sperequativa” possano avere). Nessuna perequazione sembra peraltro prevista tra i proprietari esterni alle aree urbanizzabili e quelli interni. Talché, mentre rimangono del tutto aperti i vizi di legittimità costituzionale (alcuni proprietari sono beneficiati dalla decisione pubblica, altri no), è sempre la matita dell'urbanista che traccia (che dovrebbe tracciare) il confine tra chi è beneficiato e chi no.
Molto più ragionevole ed efficace rimane la proposta, derivata dall'ipotesi formulata nel 1968 dall'allora Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli, nutrita delle riflessioni di Guido Cervati, Vincenzo Cabianca.
[1]Variante al Prg per la città storica di Venezia, 1980-1985, 1987-1990; Prg del Comune di Carpi, 1990-1995.
[2] Per le ricadute urbanistiche della "sostenibilità" rinvio agli atti del Convegno tenuto a Venezia nel 1991: La città sostenibile, a cura di E. Salzano, Edizioni delle autonomia, Roma 1992.
[3] Per adoperare I'espressìone formulata da Aldo Moro nel 1964.