L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati.
Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali. Sembrano avere un particolare interesse nella ricerca di una messa a punto del ruolo della Provincia. Questo istituto è stato infatti caricato, a partire dal 1990, di competenze e compiti del tutto nuovi e, in larga misura, estranei alla sua tradizione e alle ragioni stesse della sua fondazione: ricordiamo che la provincia nasce dalla prefettura napoleonica, organo di esercizio locale dei poteri centrali dello Stato, i cui confini erano tracciati in ragione del percorso che poteva compiere in un giorno la carrozza del contribuente del fisco per raggiungere l’ufficio delle finanze, o di quello che potevano compiere i gendarmi per sedare la sommossa nel luogo più lontano dalla caserma.
La Provincia, in definitiva, non riesce oggi a individuare con facilità un proprio spazio tra i “due vasi di ferro” costituiti dalla Regione (e dello Stato, con cui la Regione tende a identificarsi) e dal Comune, luogo antico e di consolidata residenza dei poteri elettivi e dell’identificazione della cittadina e del cittadino. Forse – si spera - la funzione di coordinamento dei numerosissimi attori che intervengono nelle trasformazioni del territorio (da quelli istituzionali a quelli parapubblici, a quelli portatori d’interessi diffusi e a quelli espressione d’interessi privati) può conferire nuovo smalto e rinnovata ragion d’essere all’anello intermedio della catena dei poteri locali: può essere la nuova ragione della Provincia
È ragionevole questa ipotesi? E la stessa attenzione alla governance, non nasconde forse rischi dai quali occorre guardarsi, e non è forse portatrice di illusioni? La pratica della pianificazione del territorio e il dibattito culturale che ha dato luogo alla riforma del 1990 possono fornire qualche argomento sul quale è utile riflettere e discutere.
La decisione di attribuire alla Provincia compiti di pianificazione del territorio è la conclusione di un dibattito molto ampio. La discussione sulla pianificazione d’area vasta si è sviluppata infatti negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta: di essa ha fatto parte integrante la ricerca della “dimensione conforme” e degli “ambiti ottimali”.
Sono state proposte e sperimentate diverse strade. Finalmente, nel 1990 si è approdati a una soluzione unanimemente accettata. Con la legge 142 del 1990 (poi integrata e ridefinita nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) si sono individuati i tre livelli di pianificazione validi in Italia (comunale, provinciale e regionale), attribuendo al livello provinciale la denominazione di “piano territoriale di coordinamento”. Una denominazione ricavata dalla legge 1150/1942, che aveva essa stessa alle spalle più di un decennio di irrisolti dibattiti sulla intercomunalità e sulla sovracomunalità.
Ricordiamo il dettato del DL 267 del 2000:
La provincia, inoltre, ferme restando le competenze dei comuni ed in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, predispone ed adotta il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio e, in particolare, indica: a) le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti; b) la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle principali linee di comunicazione; c) le linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque; d) le aree nelle quali sia opportuno istituire parchi o riserve naturali [1].
Una definizione, come si vede, dal linguaggio arcaico, e dal contenuto molto sommario. Ma si tratta – non dimentichiamolo – di una indicazione che dovrebbe essere di mero principio, poiché la competenza legislativa in materia urbanistica fu trasferita alle Regioni, nel 1948, dall’articolo 117 della Costituzione della Repubblica, ed è entrata in esercizio a partire dal 1970.
La realtà si è mossa, al di là della legge. E le legislazioni regionali hanno arricchito il quadro normativo e messo a punto metodi e pratiche nuovi. È possibile definire con maggior precisione (e magari con una varietà di declinazioni) la pianificazione provinciale in Italia.
A ben vedere, l’esegesi legislativa, l’esame comparato delle legislazioni regionali, l’analisi delle pratiche professionali e amministrative e l’esplorazione della letteratura consentono di indicare tre funzioni essenziali cui la pianificazione territoriale provinciale (e in generale la pianificazione territoriale, a tutti i livelli) deve adempiere.
Una prima funzione può essere definita strategica. Si tratta di delineare le grandi scelte sul territorio, il disegno del futuro cui si vuole tendere, le grandi opzioni (in materia di organizzazione dello spazio e del rapporto tra spazio e società) sulle quali si vogliono indirizzare le energie della società. È una funzione che richiama i concetti di “futuro”, di “comunicazione”, di “consenso”.
Una seconda funzione può essere definita diautocoordinamento. Si tratta di rendere esplicite a priori, e di rappresentare sul territorio, le scelte proprie delle competenze provinciali: in modo che ciascuno (trasparenza) possa misurarne la coerenza e valutarne l’efficacia. In che modo, però, definire le scelte proprie della Provincia? Può soccorrere un’applicazione corretta del principio di sussidiarietà: ma su questo tornerò più avanti.
Una terza funzione può essere definita diindirizzo. Il livello di pianificazione più direttamente operativo (che è anche quello più tradizionale e sperimentato) è quello comunale, i cui piani sono soggetti all’approvazione degli enti sovraordinati[2]. L’esigenza di razionalità nei rapporti istituzionali, così come è stata intesa nell’urbanistica classica e come è definita nella maggioranza delle più recenti leggi bregionali, pretenderebbe invece che la coerenza tra le scelte dei diversi enti, e la loro riconduzione a finalità d’interesse generale, non avvenisse più con i tradizionali sistemi di controllo a posteriori sulle decisioni degli enti sottordinati, ma indirizzandoa priori, mediante opportune norme, la loro attività sul territorio.
Per distinguere le competenze tra i diversi livelli di governo si ricorre ormai, in Europa, al principio di sussidiarietà. Ma questo principio viene tirato da una parte e dall’altra, a seconda degli interessi di chi lo invoca. Conviene perciò rifarsi a una definizione ufficiale: a quel vero e proprio statuto dell’unione europea che è il Trattato istitutivo della comunità europea, stipulato a Roma nel 1957. Secondo l’articolo 3b, aggiunto al Trattato con l’accordo di Maastricht (1992)[3].
nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.
Il principio di sussidiarietà è stato coniato, su sollecitazione di Jacques Delors, per difendere le prerogative dei governi nazionali nei confronti della comunità europea: parte, per così dire, “dal basso”, e attribuisce agli organismi sovranazionali solo ciò che al livello nazionale non può essere efficacemente governato.
Ma esso è suscettibile anche della lettura inversa: il principio di sussidiarietà afferma anche che, là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato, è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E che la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (come suggerisce il trattato europeo) in relazione a due elementi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti. É su questa base che è possibile distinguere in modo sufficientemente rigoroso e certo le competenze territoriali della Provincia da quelle della Regione e del Comune.
Applicando in modo rigoroso il principio di sussidiarietà, si può dire che le competenze della Provincia si esplicano in tre grandi aree:
A) La tutela delle risorse territoriali (il suolo, l’acqua, la vegetazione e la fauna, il paesaggio, la storia, i beni culturali e quelli artistici), la prevenzione dei rischi derivanti da un loro uso improprio o eccessivo rispetto alla capacità di sopportazione del territorio (carrying capacity), la valorizzazione delle loro qualità suscettibili di fruizione collettiva. É evidente che questo compito spetta in modo prevalente alla Provincia, a causa della scala, generalmente infraregionale e sovracomunale, alla quale le risorse suddette si collocano.
B) La corretta localizzazione degli elementi del sistema insediativo (residenze, produzione di beni e di servizi, infrastrutture per la comunicazione di persone, merci, informazioni ed energia) che hanno rilevanza sovracomunale. Il limite superiore, rispetto all’insieme di elementi collocabili in questa categoria, dovrebbe essere costituito da ciò che viene definito dalla pianificazione di livello regionale.
Le scelte d’uso del territorio le quali, pur non essendo di per sé di livello provinciale (a differenza delle precedenti), richiedono ugualmente una visione di livello sovracomunale per evitare che la sommatoria delle scelte comunali contraddica la strategia complessiva delineata per l’intero territorio provinciale (per esempio, il dimensionamento della residenza e delle attività), oppure che le normative comunali contraddicano le scelte relative alle grandi opzioni d’uso del territorio (per esempio, in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e delle risorse ambientali).
Mi sembra che tutti i contenuti della pianificazione provinciale pongano con forza la questione del rapporto della provincia con tutti gli altri soggetti che hanno competenze o esercitano poteri o producono azioni nelle trasformazione del territorio.
Distinguere le competenze tra i diversi livelli istituzionali è essenziale perché conduce a comprendere a quale degli enti appartenga la responsabilità delle scelte, e della decisione finale. Ma deve sollecitare anche a praticare efficacemente e correttamente lla pratica della concertazione (una delle pratiche adoperate e adoperabili per regolare i rapporti tra portatori d’interessi pubblici) là dove non viene praticata, o viene applicata in modo insufficiente o distorto.
La concertazione ha una delle sue ragioni essenziali nella necessità di abbreviare i tempi delle decisioni in tutte le (numerosissime) questioni nelle quali diversi enti rappresentativi di interessi pubblici e collettivi sono coinvolti. Si tratta di abbandonare la prassi di trasferire le “pratiche” da un ufficio all’altro, con relativa lettera di trasmissione debitamente firmata e protocollata in uscita e in entrata, di collocarle in ordine nella relativa pila di pratiche sulla scrivania del dirigente del competente ufficio, da questo trasmetterla al funzionario istruttore, da questo poi restituirla per la firma al dirigente, trasmessa all’ufficio mittente, per poi collocare questo segmento del procedimento in serie con tutti gli altri necessari segmenti. Si tratta si abbandonare di questo procedimento iperburocratico.
Si tratta di stabilire invece che, quando ne ricorre la necessità, oppure periodicamente, funzionari delegati dei diversi uffici competenti per una questione si riuniscono, discutono, decidono, verbalizzano la decisione assunta, stabilendo la data di un successivo incontro in quei soli casi in cui uno o più degli uffici coinvolti ha bisogno di approfondire la conoscenza della questione[4].
Naturalmente, nell’ambito di questo procedimento (che sembra nuovo solo perché l’antica prassi ministeriale delle “conferenze di amministrazioni” e delle “conferenze di servizi” è stata abbandonata o corrotta negli ultimi decenni) occorre distinguere con cura i portatori dei diversi interessi, e il sistema delle garanzie cui i procedimenti oggi (sia pure in forme spesso distorte dal barocchismo normativo e dallo smarrimento della ragione originaria dei diversi passaggi procedimentali) sono espressione. Ma a questo, nella materia della pianificazione, dovrebbe provvedere un’avveduta e aggiornata legislazione regionale.
Analogamente a un piano comunale o a un quadro di riferimento regionale, il piano provinciale è, in ultima analisi, un progetto di trasformazione del territorio. E quando dico “trasformazione” non penso solo a opere nuove e nuovi insediamenti: penso anche a interventi, e regole, e politiche che invertano il processo di degrado in atto in molte parti del territorio, e che perciò costituiscano il contenuto di un progetto di “conservazione”. Come dice Pierluigi Cervellati, anche la conservazione è una trasformazione, anche la conservazione richiede un progetto.
Ora è evidente che, per rendere efficace un progetto di trasformazione del territorio occorre ottenere il consenso, oltre che dei soggetti pubblici direttamente coinvolti, anche dei soggetti privati che devono concorrere all’attuazione delle scelte. Molti sono i modi per ottenerlo, molte sono le pratiche messe in atto per conseguire il risultato.
Le pratiche però, a mio parere, si valutano (e si costruiscono) in relazione al loro contesto. Altro è operare in paesi dove l’autorità dell’amministrazione pubblica è forte, e dove gli interessi privati che si vogliono coinvolgere sono quelli degli imprenditori e degli usagers (come nelle esperienze francesi), altro è adoperare quelle medesime pratiche dove l’autorità pubblica è debole, e gli interessi che si vogliono coinvolgere (o che si riesce a coinvolgere) sono in primo luogo quelli della proprietà immobiliare, e degli altri “attori” volti alla percezione di rendite vecchie e nuove.
Ma forse vale la pena – a questo punto – di spendere qualche parola sulla governance: un termine che sempre più spesso, come dicevo, tende a sostituire quello di government.
La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.
Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni[5].
[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale [6]
L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).
Devo dire che questa interpretazione mi è tornata in mente quando qualche giorno fa, in uno dei convegni che abbiamo organizzato a Venezia nella Settimana della facoltà di Pianificazione del territorio, ho ascoltato con grande interesse l’eroico sforzo posto in essere dall’Ufficio del piano della Provincia di Milano, per costruire un decente piano di coordinamento provinciale, in una situazione legislativa del tutto particolare: in una situazione nella quale la Provincia è privata di poteri nel campo della pianificazione, poiché il Piano territoriale provinciale è sottoposto al preventivo parere dell’Assemblea dei comuni prima ancora dell’adozione e poi, una volta adottato, prima dell’approvazione[7].
Ciò significa, nella sostanza, che non esiste alcuna autonomia della provincia nel definire le proprie scelte territoriali. Il progetto elaborato in sede tecnica non esprime infatti alcuna autorità politica prima dell’adozione[8]. È chiaro che in una situazione siffatta, dove tutto il potere è dei comuni (e della Regione) non resta altro da fare ai tecnici che cercar di costruire il consenso dei comuni: anzi, di cercare di costruire il piano provinciale con una procedura bottom-up.
Ma alle volte la reazione a un sistema perverso induce a trovare soluzioni che, con gli opportuni adattamenti, possono essere applicati a situazioni non perverse facendole anzi diventare virtuose. È su questo che vorrei adesso riflettere.
Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti meno difensivi di quello britannico, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come
un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti [9]
altri come
le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica [10].
La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come
la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali [11].
È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.
Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.
La prima grande distinzione è, a mio parere, quella tra enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto.
Allo stresso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali . La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.
Qualche esempio della raggiungibilità di risultati positivi, nella riduzione dei tempi e quindi nel miglioramento del rapporto tra amministratori e amministrati. Nella Regione Lazio, fino a pochi anni fa, il tempo medio di approvazione di un PRG comunale era di 7 anni, e non credo che sia molto migliorato. In Emilia-Romagna invece, grazie a un diverso rapporto tra Regione, Province e Comune, il tempo massimo di approvazione di un piano comunale era un anno fa di sei mesi, ed è stato ulteriormente ridotto. In Toscana i tempi di approvazione sono stati rivoluzionati dalla procedura delle conferenze di pianificazione dalla prassi delle conferenze dei servizi nelle quali di decide.
Un tavolo diverso, a mio parere, è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali:
per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore
e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricerso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.
Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere.
Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: l’attore che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni.
Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.
Perché altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del “retino”) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.
Le esperienze di governance che conosco sono poche. È con una certa imprudenza che mi permetto perciò di avanzare un’ipotesi, sulla quale mi interesserebbe avere conferme – o smentite.
L’ipotesi è che la governance, nel campo del governo del territorio, funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:
gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;
gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.
Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario - nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto da noi, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole.
E sono certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio sia quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.
[1] Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, articolo 20, comma 2.
[2] Poiché siamo in Campania colgo l’occasione per sottolineare che, in Campania, i piani comunali non sono approvati da un unico ente (generalmente le Regioni hanno delegato le province), ma: i piani dei comuni capoluoghi di provincia sono approvati dalla Regione, quelli compresi nelle Comunità montane (104 comuni su 158) da queste, e solo il residuo (53 su 158) dalla Provincia.
[3] L’articolo è stato ratificato e ridenominato come articolo 5 con l’accordo di Amsterdam (1997).
[4] Come, seppure in termini assai diversificati, fanno la legge 5/1995 della Regione Toscana, la legge 28/1995 e la legge 31/1997 della Regione Umbria, la legge 23/1999 della Regione Basilicata, la legge 38/1999 della Regione Lazio, la legge 20/2000 della Regione Emilia Romagna.
[5] Holec Nathalie, Brunet-Jolivald Genevieve, Go uvernance: dossier documentaire, Direction generale de l'urbanisme, de l'habitat et de la construction, Centre de Documentation de l'Urbanisme, Paris 1999.
[6] Idem, p.
[7] Legge Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, “Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia”.
[8] L’adozione è infatti quella fase procedimentale nella quale l’organo politico collegiale assume la paternità del piano: questo prima di allora è un mero atto tecnico, in quanto tale privo di qualunque autorità se non quella morale.
[9] Bagnasco Arnaldo e Le Gales Patrick, cit in Holec, Brunet, op. cit., p.
[10] Marcou Gérard, Rangeon Francois e Thiebault Jean-Louis, cit. ibidem, p.
[11] Ibidem