Democrazia, una parola difficile
Abbiamo lavorato con parole difficili. La prima è forse la più difficile: democrazia.
Non fermiamoci a immagini facili e agiografiche della democrazia. Io oscillo tra due definizioni. La prima è quella di Chirchill: "E’ un sistema di governo pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più". E quella di Luciano Canfora:
La democrazia […] è infatti un prodotto instabile: è il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l'eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, "diritti"
Non rinuncio a nessuna di queste due definizioni: né alla democrazia come male minore, né alla democrazia come tensione verso l’eguaglianza e la crescita di nuovi diritti. E’ quest’ultima però quella che meglio possiamo utilizzare per passare all’altra parola difficile, la partecipazione. Del resto, anche Paba mi sembra che concordasse con questa impostazione, quando diceva che "la democrazia non è una cosa quieta".
Possiamo allora intendere la partecipazione come il lavoro per far entrare nella democrazia (nell’attuale sistema di governo) nuovi diritti: nuovi soggetti sociali, finora esclusi dal processo delle decisioni o marginali rispetto ad esso. Soggetti sociali portatori di nuovi interessi, di nuovi bisogni – e anche, ricordavano Paba e Baruzzi, di nuova ricchezza, di nuovi valori.
Partecipazione, dunque, come alimento e condizione della democrazia. Ma quali spazi consente la democrazia attuale, l’attuale sistema di governo, alla partecipazione intesa in questo senso? Vorrei regalarvi una più lunga citazione di Canfora:
A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia "elettorale" e, più in generale "politica", del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca "macchina" televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per "riprendere il filo") è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano (p. 328).
E ancora:
Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della "parola demagogica". Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica […]contrario l'attuale "democrazia oligarchica", o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del "piccolo schermo"; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni (p. 331).
Questo è l’orizzonte (nel senso di limite valicabile) nel quale si colloca la nostra azione. E allora non possiamo né dobbiamo farci spaventare dalle difficoltà. Per calibrare l’ottimismo della volontà sul pessimismo della regione ricordiamo Italo Calvino:
L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Il nostro compito può essere proprio questo: "saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".
Un'altra parola: Partecipazione
Naturalmente si è ragionato molto anche attorno alla seconda parola del nostro tema: Partecipazione. Vorrei riprendere quattro temi che mi sembrano centrali.
1. La partecipazione nella nostra storia.
Proprio qui a Bologna, in Emilia Romagna, ricordiamo come si comportava la sinistra; ne accennava Tarozzi nel suo intervento. Quando c’erano i partiti, i "partiti di massa (il comunista, il socialista, la democrazia cristiana) allora esistevano dei progetti di società, che i partiti - e le oggi deprecate ideologie - esprimevano. La politica aveva e dava una prospettiva, animava degli ideali: basta leggere quel bellissimo libro di Alcide Cervi e Renato Nicolai, I miei sette figli, per comprendere lo spessore che animava e nutriva la politica, e che dalla politica era animato e nutrito.
Oggi questo non c’è più. Ed è anche da questa decadenza che nascono le difficoltà del rapporto con la politica: del rapporto tra il popolo e la politica. E da questo nascono anche le difficoltà della politica con la terza parola del nostro convegno: la Urbanistica. A questo proposito vorrei che ricordassimo che le poche leggi di riforma (leggi riformatrici, non riformiste) negli strumenti di governo del territorio sono nate in determinate ragioni della nostra storia, per effetto della spinta di grandi organismi di massa e della sensibilità democratica (adopererei proprio questo termine) delle forze politiche.
Mi riferisco all’inserimento dell’obbligo di riservare determinati spazi per i servizi collettivi e il verde nei piani regolatori, statuito con il decreto sugli standard del 1968, che ha indubbiamente tra i suoi motori principali la lunga camopagna popolare ingaggiata dall’Unione donne italiane dall’inizio degli anni Sessanta, con una serie di iniziative attorno a una legge d’iniziativa popolare.
E mi riferisco all’iniziativa delle tra centrali sindacali che ebbe il suo epicentro nello sciopero nazionale generale del 19 novembre 1969 per la casa, i servizi, i trasporti, che condusse alle leggi di riforma dei primi anni Settanta.
Oggi, sei Camere del lavoro hanno dato vita a un’iniziativa che va di nuovo nella medesima direzione. Il sindacato dei lavoratori esce dalla fabbrica, acquisisce consapevolezza del fatto che l’organizzazione della città e del territorio incide pesantemente sulla vita dei lavoratori e suoi costi, e decide di porre il tema al centro delle sue vertenze. E’ un segnale promettente, una speranza.
2. Partecipazione e decisione
Esistono vari modi di partecipare, di influire al processo delle decisioni. Bibo Cecchini ne ha parlato in modo condivisibile, e le stesse esperienze illustrate hanno esemplificato significati e accezioni diverse della partecipazione. Per continuare a ragionare su questo tema, vorrei invitarvi a rifletters su due aspetti: i gradi della partecipazione, la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica.
Il grado più elevato della partecipazione è indubbiamente il concorso ala decisione. A questo proposito, alle istanze partecipative (il vicinato, il quartiere, la città) può essere delegata la decisione, oppure esse potranno esprimersi mediante proposte su cui il decisore sarà o meno tenuto a esprimersi, oppure potrà essere un mero condizionamento della decisione. Il modo maggiore o minore in cui l’istanza partecipativa contribuisce alla decisione varia evidentemente in relazione al carattere del decisore e al peso del "partecipatore".
Il grado minimo, ma essenziale, sembra a me essere la trasparenza del processo delle decisioni. Questo grado dovrebbe essere garantito sempre: in sua assenza la partecipazione è fittizia. Vorrei sottolineare che assicurare questo livello non basta "aprire le porte degli uffici e i cassetti delle pratiche": si pone anche, e in primo luogo, un problema di linguaggio. Il "burocratichese" è un linguaggio ricco di qualità, ma è formato per la comunicazione tra gli addetti ai lavori. I piani regolatori parlano un linguaggio costruito per essere compreso dal portatore d’interessi immobiliari, molto meno dagli utenti della città.
Il grado intermedio, il necessario passaggio tra la trasparenza e il concorso alla decisione, è la conoscenza. Questa implica certamente la possibilità di accedere ai dati, ma richiede in più apprendimento e cultura. A proposito del programma di amministrazione della giunta bolognese, a me sembrerebbe molto utile se ci fosse un forte nesso tra le politiche del territorio e dell’ambiente, dove ci si impegna a percorrere sentieri partecipativi, e le politiche culturali, che a prima vista mi sembrano un po’ "separate" e tradizionali.
Per quanto riguarda la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica vorrei limitarmi a rilevare che il principio di sussidiarietà, correttamente inteso (alla Mastricht, più che alla Bossi), potrebbe essere una guida sufficiente per comprendere. Così mi sembra ovvio affermare che a livello di vicinato o di quartiere la partecipazione è facile, mentre a livello di una intera città media o grande è molto difficile (pensiamo, ad esempio, a un PRG).
3. Partecipazione e interessi
Qualcun diceva che anche l’urbanistica concertata è una forma di partecipazione. In effetti occorre intendersi: partecipazione è un termine neutrale, occorre qualificarlo, chiedersi "partecipazione di chi". In termini sostanziali credo che si debbano distinguere tra loro i diversi tipi di interessi in relazione agli usi diversi delle risorse territoriali.
Occorre distinguere e selezionare gli interessi economici da quelli delle cittadine e dei cittadini (abitare, muoversi, comunicare, conoscere). All’interno dei primi occorre distinguere (e selezionare) gli interessi della rendita immobiliare e di quella finanziaria, quelli del profitto e dell’accumulazione nel processo produttivo e nell’innovazione, quelli del salario. Occorre distinuere gli interessi di quanti usano la città per le loro esigenze personali o produttive, e quanti la usano per il proprio arricchimento. Occorre distinguere le differenze tra i diversi gruppi sociali (ce ne parlava Bassetti, quando affermava che lo sforzo è nel ortare a sintesi le diversità).
Credo che una stella polare cui guardare per orientarsi sia in quella definizione di democrazia come "il prevalere dei non possidenti nel corso d’un inesauribile conflitto per l’eguglianza". E che ocorra ricordare che la partecipazione agisce anche attraverso la contestazione, dove gli interessi dei "non possidenti" sono esclusi dal processo di formazione delle decisioni, o non si riconoscono nei suoi esiti.
4. Gli strumenti della partecipazione.
Su questo punto voglio limitarmi a sottolineare che la partecipazione ha bisogno di tempo e ha bisogno di risorse. Senza questi due ingredienti la partecipazione non esiste. Può esistere, al massimo, la comunicazione: o meglio, quella forma banale di comunicazione che o la propaganda.
Ma dire questo significa anche dire che la partecipazione ha bisogno di procedure certe. Occorrerebbe ripartire da quel poco di partecipazione formalizzata che era consentito dalla stessa legge del 1942, le "osservazioni" agli strumenti urbanistici, per tener conto della maggiore dose di democrazia garantita dal sistema attuale rispetto a quello fascista.
Nel quadro degli strumenti, credo che un contributo rilevante potrebbe darl la Agenda 21, se riuscisse a legare i diversi aspetti delle politiche territoriali e ambientali a quel grande palinsesto delle decisioni dsul territorio che è il piano urbanistico e territoriale.
Per concludere.
Il nostro colloquio si è intrecciato attorno a tre poli: un primo polo rappresentato dalla democrazia, le istituzioni, quindi la politica: un secondo, l’urbanistica e i suoi strumenti; il terzo polo, la particapazione, cioò la presenza dei cittadini nel sistema delle decisioni.
Ora la politica (il primo polo) è in crisi: delegittimata non dalla sua inefficacia, ma – in Italia – dallo svelamento del vizio denominato Tangentopoli, ossia alla subordinazione delle regole e delle strategie condivise agli interessi venali di singoli e di gruppi (e, nel mondo, dal contemporaneo venir meno dela speranza di un sistema economico-sociale alternativo).
Anche l’urbanistica è in crisi. Quando la politica si riduce al quotidiano, quando il suo obiettivo è la conquista del consenso dei poteri forti, quando i poteri forti coincidono con la rendita immobiliare e finanziaria tra loro intimamente legate (e quando la cultura si riduce ad accademia) è inevitabile che anche l’urbanistica entri in crisi.
Io vedo la partecipazione anche come uno strumento che può essere utile per tentar di uscire dall’una e dall’altra crisi.
Uno strumento da adoperare con duttilità, pazienza e costanza, ricordando che le sue finalità sono due. Da una parte, raggiungere obiettivi concreti. Dall’altra parte, svolgere una funzione educativa, formativa, di crescita collettiva.
Uno strumento, infine, da adoperare tenendo conto che c’è un divario che deve essere governato perché non diventi una contraddizione: quello tra il "locale", come spazio nel quale la partecipazione può raggiungere maggiore efficacia. Il "generale", come spazio che inevitabilmente condiziona anche il locale, e che quindi non può essere "lasciato agli altri".
Le citazioni di Luciano Canfora sono tratte da: L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Editori Laterza, Roma-Bari 2004. Più ampi stralci sono in Eddyburg qui