E’ in corso in Sardegna la discussione su una proposta di legge urbanistica regionale, che la Giunta vorrebbe approvare entro luglio. Il giudizio sulla legge non è positivo, ed esprimerò la mia opinione su alcuni aspetti che mi sembrano più preoccupanti: anche alla luce del dibattito che, avviato con il contrasto alla Legge Lupi, è proseguito con la proposta degli amici di Eddyburg e con la lunga elaborazione della proposta depositata da numerosi deputati dell’attuale PD, prima firmataria l’on. Raffaella Mariani.
Della proposta della Giunta Soru mi preoccupano soprattutto due aspetti, sui quali soffermerò l’attenzione: il ruolo assolutamente sproporzionato che si assegna alla proprietà immobiliare, in particolare a quella fondiaria; la riduzione della pianificazione urbana e territoriale alla sola dimensione comunale. Ritengo che entrambi questi aspetti siano particolarmente gravi anche perché indeboliscono fortemente la virtù, e la capacità di resistenza del piano paesaggistico regionale: il provvedimento che ha coronato (sebbene non ancora compiutamente) lo sforzo generoso e intelligente del presidente Soru di tutelare i paesaggi dell’Isola.
1.
Numerosi articoli della proposta fanno riferimento a un presunto “diritto” della proprietà fondiaria alla “edificazione”. Si parla di “diritti edificatori”, di ”vocazioni edificatorie”; si propone di compensare, perequare, trasferire questi “diritti” e di riconoscere quelle “vocazioni”. Si vedano in particolare gli articoli 7, 16 e 17.
Ora la giurisprudenza è costante nell’affermare che un “diritto” ad ottenere la compensazione per un vincolo ablativo deriva unicamente dal rilascio di un atto abilitativo. Non solo una previsione edificatoria di un PRG (PUC) può essere modificata senza dover corrispondere alcun indennizzo, ma anche una previsione consolidata in un piano di lottizzazione anche se convenzionato; alle uniche condizioni che la decisione modificativa sia motivata, e che le spese legittimamente e documentatamente sostenute dal proprietario siano rimborsate[1].
Del resto, la stessa legge urbanistica del 1942 riconosce che, in caso di espropriazione, non deve essere corrisposto alcun indennizzo per il maggior valore derivante dal PRG. È questo un vecchio assunto della dottrina liberale, praticata già dall’inizio del secolo scorso.
Per quanto poi riguarda la “vocazione edificatoria”, che un suolo abbia una implicita e connaturata inclinazione a essere edificato è cosa del tutto nuova, e non solo nella cultura urbanistica. L’edificabilità è il risultato di un’azione pubblica, storica e attuale, e di una decisione anch’essa pubblica.
Nel concreto della proposta, appare del tutto stupefacente che all’articolo 17 si stabilisca che la “vocazione edificatoria”, e i conseguenti “diritti”, vengano riconosciuti, oltre che alle aree già edificate, anche a “quelle alle quali lo strumento urbanistico vigente all’entrata in vigore della presente legge, attribuisce destinazione o trasformazione edificatoria” (per le ragioni sopra esposte) e addirittura a “quelle che sia per contiguità con l’abitato, sia per essere già servite dalle principiali infrastrutture urbane, sia per l’assenza di vincoli paesaggistico-ambientali abbiano determinato, in capo al proprietario, la concreta aspettativa di conseguire tale classificazione”. Ho letto, commentato e criticato, e contribuito a scrivere e correggere numerosissime leggi nazionali e regionali in materia, ma mai mi è capitato di leggere una simile estensione dei presunti “diritti edificatori”.
Del resto, basta fare riferimento alla proposta di legge presentata sul finire della XV legislatura dai deputati del DS (primo firmatario Raffaella Mariani) per rendersi conto che per “perequazione urbanistica” si intende cosa del tutto diversa: non un riconoscimento generalizzato di “diritti edificatori” alle aree “vocate” all’edificazione in sede di pianificazione generale, ma qualcosa di perfettamente analogo alla distribuzione equilibrata di oneri e benefici a tutti i proprietari compresi in un ambito di trasformazione (una pratica che risale addirittura alla “legge ponte urbanistica” del 1967 e ai piani di lottizzazione convenzionata).
2.
L’altro punto rilevante di critica riguarda l’insieme del sistema di pianificazione configurato dalla proposta. L’unico piano vero e proprio è quello di livello comunale. A livello regionale e provinciale i documenti di pianificazione previsti sono evanescenti: direttive, indirizzi, criteri, linee guida, necessariamente generici, suscettibili di interpretazione nell’attuazione e nella verifica, aperti alla discrezionalità.
A mio parere cardine della cultura della pianificazione è quello che si definisce “principio di pianificazione”, implicito nelle formulazioni della proposta di legge nazionale Mariani. Il principio, cioè, secondo il quale l’istituzione (Stato, Regione, Provincia, Comune) che ha competenza su scelte suscettibili di modificare l’assetto del territorio esprime tali scelte mediante un documento, precisamente riferito al territorio, nel quale sia rappresentata e valutata la coerenza tra le scelte relative ai diversi settori (infrastrutture, centri di servizi di vari ordini e livelli, tutele ecc.). Nulla è più lontano da un efficace governo delle trasformazioni del territorio che l’assunzione di scelte caso per caso, o settore per settore, indipendentemente dalle altre.
Ora non tutte le scelte che incidono sull’assetto del territorio possono essere affidate all’autonoma decisione del Comune. Questioni come quelle della produzione e della trasmissione dell’energia, delle infrastrutture per la mobilità, della gestione dei rifiuti e dei relativi impianti e servizi, della localizzazione delle grandi attrezzature per il commercio, per i servizi e le attrezzature di portata sovra locale e sovracomunale, di gestione del ciclo delle acque, richiedono un inquadramento e devono essere assunte tenendo contro delle reciproche interrelazioni.
Una impalcatura della pianificazione priva della orditura a livello regionale e provinciale è inefficace e aperta a conflitti d’ogni tipo, oppure soggetta alla discrezionalità del potere del livello sovraordinato.
3.
Quelle che ho ora sinteticamente riportato sono le principali osservazioni che la lettura del testo hanno sollecitato in me. Molte altre ve ne sarebbero su punti anch’essi rilevanti: come i “premi di cubatura”, suscettibili di modificare, nella loro sommatoria, i carichi urbanistici previsti dai piani; come gli “accordi di programma” suscettibili di stravolgere gli strumenti urbanistici; come la possibilità di attribuire competenze delicatissime di attuazione e di controllo a uno “sportello unico” di cui non è definita la natura pubblicistica; come lo scarso approfondimento della pianificazione paesaggistica (a quel punto meglio sarebbe riferirsi esclusivamente al contenuto e alle procedure del Codice del paesaggio).
La speranza è che sulla legge si apra una discussione che induca gli amministratori a ritornare sui loro passi
[1] Ciò è stato ampiamente argomentato dal sottoscritto e confermato autorevolmente dal prof. Vincenzo Cerulli Irelli in una nota per Italia nostra.