IL SIGNIFICATO DEL PATRIMONIO CULTURALE E PAESAGGISTICO FINO ALLE RECENTI MODIFICHE NORMATIVE DEL CODICE DEI B.C.
Sintesi: Acquisizioni culturali, progressi della legislazione e tradimenti del pensare e del fare, dalla legge di Benedetto Croce (1922) all’ultima versione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (2008). Interpretate da un urbanista.
ALCUNE PAROLE PER COMINCIARE
Le parole
Importanza delle parole e necessità di valutarle nel loro contesto semantico, storico e normativo.
Comincio a ragionare partendo da due espressioni, che trovo nei titoli rispettivamente del nostro convegno (Tutela e valorizzazione del paesaggio) e della mia relazione (Patrimonio culturale e paesaggio)
Valorizzazione
Questo termine ha, nella pratica sociale, un significato ambiguo: anzi, viene adoperato in due accezioni sostanzialmente alternative.
Da un lato, di parla di “valorizzazione” come trasformazione/gestione di qualcosa al fine di ricavarne un vantaggio economico. Quindi, in un’economia “di mercato”, equivale (o addirittura comporta) la riduzione di elementi (e, nel caso specifico dei beni culturali) a merci. È un’interpretazione che mette l’accento sullo sfruttamento economico anziché sulla qualità del bene.
Dall’altro lato, si può parlare di valorizzazione come “messa in valore”, evidenziazione, disvelamento e accrescimento delle qualità proprie del bene. Si può porre insomma l’accento sulla necessità di scoprire, di tutelare e di porre in giusta evidenza il valore intrinsecamente già presente nel bene, prioritariamente rispetto a qualsiasi obiettivo economico.
Nel linguaggio corrente prevale la prima accezione. Ed è palesemente a questa che si fa riferimento in tutto il dibattito attorno al paesaggio e alla sua tutela: a partire dalla nuova stesura del Titolo V della Costituzione, il quale attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” e alla legislazione concorrente tra Stato e Regione la “valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali” (articolo 3 lex cost 3/1981).
Scrive Salvatore Settis. «La “valorizzazione” è stata sempre più spesso intesa (a destra come a sinistra) in un senso meramente o prevalentemente economico: per “valorizzare” un palazzo che c’è meglio che venderlo? E per “valorizzare” un paesaggio che c’è di meglio che lottizzarlo?»
Patrimonio
Vorrei sottolineare la profonda differenza che c’è tra il termine “patrimonio” e il termine “risorsa”. Il primo esprime qualcosa che deriva dai nostri padri, e abbiamo il dovere di lasciare ai nostri eredi, accresciuto e migliorato e non degradato. Risorsa qualcosa che può (anzi, tendenzialmente deve) essere trasformata anche ad aaltro da sé: anche distrutta, se serve a uno scopo che nella considerazione sociale vale di più. Risorsa è un termine molto vicino a giacimento, espressione che chi si occupa di beni culturali e paesaggio ha cominciato ad odiare quando è stato adoperato da un ministro del governo Craxi, Gianni De Michelis, proprio per lanciare la “valorizzazione” delle nostre ricchezze, dei nostri patrimoni. Un patrimonio non si dissipa, una risorsa si può anche distruggere.
UN SECOLO DI ARRICCHIMENTI E TRADIMENTI
Proseguo con un molto sintetico excursus delle acquisizioni e delle perdite lungo il percorso dei 100 anni passati
1922 La legge Croce
La necessità di proteggere il paesaggio cominciò ad acquistare rilevanza istituzionale, in Italia, nei primissimi decenni del secolo corso. Mi sembra di poter dire che in una prima fase, che ha caratterizzato l’intera prima metà del XX secolo, ha prevalso una visione aristocratica del paesaggio in due sensi. (1) La consapevolezza del “valore” del paesaggio era percepita esclusivamente dalle aristocrazie culturali e politiche, dai “ceti alti” della cultura e del reddito. (2) Il “valore” del paesaggio era individuato solo nella sua qualità estetica, e i luoghi da tutelare erano i “bei paesaggi”.
Una intuizione che andava al di là di questa concezione può dirsi quella espressa da un ministro della Pubblica Istruzione che si chiamava Benedetto Croce. Questi introdusse per la prima volta il nesso tra paesaggio e identità di un territorio.
Il filosofo napoletano, quale ministro per la Pubblica istruzione nell’ultimo ministero Giolitti, scrive nel 1920:
«Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […], il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali che in Germania fu detta “difesa della patria” (Heimatschuz). Difesa cioè di quel che costituisce la fisionomia, la caratteri-stica, la singolarità per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo» . È interessante rilevare che è dall’ambito di una visione estetica (la quale oggi ci appare limitata) del paesaggio che nasce, in Italia, l’esigenza della tutela e la sua interpretazione in funzione dell’identità nazionale. E la responsabilità di questa tutela non può che appartenere allo Stato, espressione della collettività nazionale.
1939 La legge Bottai
È su questa stessa linea che si collocano le leggi Bottai del 1939, introducendo alcuni elementi di novità per quanto riguarda soprattutto la strumentazione.
La prima normativa di carattere generale per la tutela del paesaggio è costituita dalla legge 29 giugno 1939 n. 1497, i cui principi e strumenti sono ancora operanti nella gestione dei vincoli paesistici del territorio italiano.
Il punto di vista della legge, la ragione per la quale essa prescrive la tutela delle “bellezze naturali”, è primariamente quello estetico e vedutistico. Ma accanto a questo al legislatore non sfuggono altri significati: quello scientifico (le singolarità geologiche), e quello legato alla fruizione (“punti di vista o di belvedere aperti al pubblico”).
I beni vengono tutelati in due modi. Si può inserire il bene o il complesso di beni che si vogliono tutelare in un apposito elenco, debitamente reso pubblico. Oppure, si può formare un “piano territoriale paesistico”, il quale detta norme alle quali qualsiasi intervento nella zona tutelata deve attenersi.
Accanto a un vincolo puramente procedimentale, il legislatore già nel 1939 - prima ancora, dunque, della legge urbanistica - aveva previsto la possibilità di tutelare i beni di rilievo paesaggistico mediante un piano.
1947 La Costituzione
Nella Costituzione della Repubblica italiana (1948) la tutela del paesaggio entra tra i massimi principi del nostro ordinamento. Il testo dell’articolo 9 della Costituzione è il seguente: «la Repubblica [...] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
La lettura dei verbali dell’Assemblea costituente rivela come la discussione sia stata ampia e impegnata, come sia stata significativamente approfondito l’esame del contenuto del paesaggio, del significato del termine “tutela” e del ruolo delle istituzioni. Settis nel suo ultimo libro ne dà ampiamente ragione. Tra i vari punti in discussione nella Costituente mi sembra di particolare interesse la questione della competenza della tutela. Già appariva la tensione tra un principio centralista e un principio regionalista. I membri della Costituente stavano lavorando contemporaneamente, in altre sale, sul tema regionalismo. E si cercava un equilibrio tra le istanze stataliste e quelle regionalista.
È interessante rilevare come un significativo passaggio di responsabilità sia avvenuto per merito di un autorevolissimo costituente sardo, Emilio Lussu. Si sta discutendo sulla sostituzione del termine “protezione” col termine “tutela”.
Il costituente Codignola, nell'illustrarlo , precisa che «si tratta di garantire allo Stato che il patrimonio artistico del Paese sia sotto la sua tutela, resti cioè vincolato allo Stato», e che «patrimonio artistico non significa soltanto i monumenti artistici e storici, poiché comprende [... ] l'insieme degli oggetti e dei beni di valore artistico e storico». Sottolinea inoltre di ritenere necessaria «una garanzia anche rispetto al previsto ordinamento regionale», giacché quest'ultimo «se esteso a certe materie, tra cui anche quella delle belle arti, può diventare un esperimento molto pericoloso», per cui occorre, «proprio prima di votare la questione delle autonomie regionali», stabilire «il principio che l'intero patrimonio artistico, culturale e storico del nostro Paese […] sia sottoposto alla tutela e non alla protezione dello Stato».
Interviene Emilio Lussu che dichiara di aderire totalmente all'emendamento di Codignola e propone di sostituire il termine "Stato" con il termine "Repubblica". Viste anche le note convinzioni di Lussu, la proposta non può che leggersi alla luce dell'asserzione, già presente nel progetto di Costituzione elaborato dal Comitato di redazione, per cui «la Repubblica si riparte in Regioni e Comuni». Con la proposta sostituzione di termini, cioè, si vuole non già traslare i compiti della "tutela" dallo Stato alle Regioni e agli enti locali, ma certamente istituire la possibilità di competenze concorrenti.
Qui voglio accennare a un’altra parola ambigua. Concorrere: è una parola che ha due significati che nella prassi sono addirittura antitetici. Concorrere può significare correre insieme gareggiando l’uno contro l’altro, cioè competere, oppure correre insieme aiutandosi l’uno con l’altro, cioè co-operare. Mi sembra che la competizione sia riconosciuta oggi come un requisito indispensabile nell’ideologia corrente, mentre al significato co-operativo era quello preconizzato dai padri costituenti.
1956 La Corte costituzionale
I vincoli di tutela incidono ovviamente sulla disponibilità della proprietà degli oggetti territoriali (edifici o aree che siano) individuati dai provvedimenti amministrativi previsti dalle leggi. Tali vincoli devono essere indennizzati o meno? La questione è stata a lungo discussa, e pacificamente risolta dalla Corte costituzionale fin dal 1968, con una sentenza (la n. 56) che fu messa in ombra dalla contemporanea sentenza (la n. 55) la quale invece dichiarava l’illegittimità costituzionale della non indennizzabilità dei vincoli cosiddetti “urbanistici” o “funzionali”.
La questione meriterebbe di essere approfondita. Mi limiterò in questa sede a ricordare che per la Corte costituzionale, mentre sono di natura “espropriativa”, e perciò illegittimi se non indennizzati, i vincoli funzionali (sentenza n. 55), sono invece legittimi i vincoli di inedificabilità per la tutela del paesaggi (sentenza n. 56).
Ma ciò avviene a una precisa condizione: che il vincolo riguardi tutti i beni appartenenti a definite “categorie a confine certo”: dove per confine ovviamente non si intende un perimetro territoriale, ma una categoria concettuale.
Così, la sentenza costituzionale n. 179 del 1999, riepilogando le precedenti sentenze, ricorda che non sono indennizzabili “i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, "in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge".
1985 La legge Galasso
La legge Galasso riprende la questione tenendo il massimo conto delle sen-tenze costituzionali del 1968. L’imposizione del vincolo paesaggistico avviene su aree individuate attraverso la definizione di categorie di beni a confine certo. Questa categorie di beni sono definite in ragione della loro singolarità geologica (rilievi, vulcani, ghiacciai, coste ecc.) o ecologica (zone umide, parchi, riserve naturali ecc.) oppure in virtù della loro capacità di testimoniare le trasformazioni dell’ambiente ad opera dell’uomo (argini, zone archeologiche, ville e giardini ecc.), o, infine, per la loro appartenenza a determinati soggetti (aree assegnate alle università agrarie).
Si tratta di una tutela del paesaggio che non riguarda più soltanto beni di esclusiva rilevanza estetica (bellezze naturali) o culturale (singolarità geologiche, beni rari o di interesse scientifico o di valore tradizionale) bensì beni che costituiscono elementi caratterizzanti la struttura morfologica del territorio nazionale, siano essi naturali o effetto dell’attività umana.
Rispetto alla legge del 1939, è mutata la concezione, e quindi la specificità del “notevole interesse pubblico” protetto dall’ordinamento. Non più e non solo beni individuati come singoli o come complessi, ma tutela dell’ambiente come patrimonio collettivo, come segno e testimonianza della nostra cultura.
Il paesaggio, viene così inteso e protetto per elementi territoriali «che segnano le grandi linee di articolazione del suolo e delle coste», come bene ambientale che però «non annulla, ma supera, non nega ma integra quello originario di bellezza naturale» .
Anche la scelta del legislatore, di aver inserito tutti i beni elencati dalla legge in questione, nell’articolo 82 del Dpr. 616/1977 e non più nell’articolo 1 della legge n. 1497, fa intendere il distacco dalla impostazione tradizionale, acco-gliendo invece (Zaccardi) «una nozione di tutela paesaggistica diversa e desunta da alcune impostazioni dottrinarie secondo cui il paesaggio è una nozione che va ben oltre la tutela della bellezza naturale» .
I meriti della legge non consistono peraltro solo nell’aver aperto una fase di più progredita salvaguardia dei connotati essenziali del territorio italiano, ri-prendendo l’intuizione del paesaggio come elemento caratterizzante l’identità nazionale: sono anche nell’aver introdotto una sostanziale innovazione nei modi della tutela e nella pianificazione territoriale e ur-banistica. La legge non ha abrogato la vecchia legge del 1939 e non ha quindi eliminato la possibilità di vincolare certi beni col sistema tradizionale della individuazione attraverso “elenchi”, ma ha individuato direttamente talune categorie di beni da salvaguardare, in al modo facendo derivare il vincolo paesaggistico immediatamente dalla semplice previsione legislativa .
La legge enuncia l’obbligo delle regioni di procedere all’approvazione del piano paesistico relativamente ai beni e alle aree sopraccitate. Questo è l’aspetto più innovativo della nuova disciplina: il vincolo non è più fine a se stesso, ma è la premessa della necessaria pianificazione paesistica-territoriale.
I beni direttamente vincolati dalla legge, dovranno essere identificati in via amministrativa e provvisti, a cura delle Regioni, di una «specifica normativa d’uso e di valorizzazione ambientale» (sottolineo: valorizzazione ambientale, non economica), mediante la redazione di «piani paesistici o piani urbanistico-territoriali aventi specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali».
La legge non fa riferimento solo ai piani paesistici, ma anche a “piani urbani-stico-territoriali aventi specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Non solo piani volti esclusivamente alla tutela del paesaggio (sia pure nel senso nuovo implicito nella legge 431/1985), le regioni possono adempiere al dettato della legge, e tutelare il paesaggio anche con gli strumenti ordinari della pianificazione. Purché (la sottolineatura non è irrilevante) quella pianificazione ordinaria abbia “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”.
È la pianificazione nel suo complesso, ad ogni livello, che deve insomma farsi carico della tutela del paesaggio e dell’ambiente. E se ne deve far carico ad ogni livello: mentre la pianificazione regionale individua gli elementi rilevanti a quel livello, quella provinciale e quella comunale approfondiscono e specificano via via individuando gli elementi percepibili al loro livello.
1985-1990 La Corte Costituzionale
La Corte costituzionale aveva riconosciuto la piena legittimità di quel dispositivo della legge Galasso. Non solo. In più occasioni aveva dichiarato necessario che l’individuazione dei beni e la definizione delle regole per la loro tutela proseguisse sistematicamente: la legge, ha affermato la Corte, «introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale» .
Essa non si esaurisce nell’individuare le grandi componenti del paesaggio nazionale, ma deve prolungarsi nell’azione “assidua” non solo nel nel tempo, ma anche nello spazio. Nell’azione insomma di tutte le istituzioni della Repubblica, riprendendo cosè l’antica intuizione dell’Assemblea costituente: l’azione tutelatrice anche delle regioni, le province, i comuni.
Nelle stesse occasioni la Corte aveva riconosciuto come, in conformità con l’articolo 9 della Costituzione, le scelte relative alla tutela del paesaggio avessero assoluta prevalenza rispetto a quelle concernenti altri interessi, esigenze, motivazioni: esse sono un prius rispetto alle decisioni di trasformazione. La pianificazione paesaggistica, o la componente paesaggistica della pianificazione territoriale e urbanistica, deve precedere le componenti che attribuiscono al territorio capacità di “sviluppo urbanistico (orrenda espressione)”, cioè che prevedono la realizzazione di infrastruttu-re, urbanizzazioni, edificazioni.
2001 Le modifiche al titolo V della Costituzione
Alle soglie del nuovo millennio si andava già nella direzione di uno slabbra-mento dell’ordinamento statale delineato dalla Costituzione.
Nella speranza di mettere le braghe al federalismo della Lega di Bossi si varò la modifica del Titolo V. Solo con grande fatica si riuscì allora a evitare l’introduzione nella nostra carta costituzionale di alcune innovazioni (o restaurazioni) molto preoccupanti per l’assetto del territorio, quali l’attribuzione di competenze legislative esclusiva all’uno o all’altro dei poteri legislativi. Dimenticando il carattere cooperativo della con-correnza, si preferì comunque il ritaglio delle competenze. Si introdusse la separazione tra tutela e valorizzazione. Ciò che ha significato accentuare il carattere me-ramente economico della valorizzazione e rompere l’eguaglianza di principio tra Stato e Regione.
2000-2006 La convenzione europea
Secondo la Convenzione europea del paesaggio , il paesaggio è «una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni»; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio «costituisce una risorsa favorevole all’attività economica» e «può contribuire alla creazione di posti di lavoro».
Entrambi gli enunciati suddetti hanno sollevato discussioni e critiche.
La sottolineature del “valore economico” del paesaggio è sembrato a molti (a partire da chi v parla) molto rischiosa dato il contesto nel quale oggi operiamo. La prevalenza della dimensione economica su ogni altra dimensione dell’agire umano e sociale è un incontestabile dato di fatto, e la sua negatività è stata messa ripetutamente in luce. Ciò soprattutto in una fase e in un’area storico-geografica nella quale la riduzione d’ogni bene a merce, la privatizzazione e mercificazione dei beni comuni, l’appiattimento d’ogni interesse a quello individuale appaiono dominanti.
Il riferimento della definizione stessa del paesaggio alla sue percezione da parte delle popolazioni è stato oggetto di ampie discussioni le quali, sia pure partendo da preoccupazioni diverse, impongono tutte distinzioni e cautele.
Così, ad esempio, secondo Vezio De Lucia
«la subordinazione del valore paesaggistico alle percezioni dei cittadini direttamente interessati a eventuali trasformazioni e, ancor più, la funzionalizzazione del paesaggio allo sviluppo economico sono obiettivi evidentemente in contrasto con l’assunzione della tutela del paesaggio fra i principi della Costituzione repubblicana (art. 9) e con la tradizione della legislazione e delle politiche di settore. Insomma, almeno in teoria, nel nostro paese il paesaggio è sempre stato inteso come un valore in sé, svincolato da ogni subordinazione, soprattutto dalle convenienze locali, e quest’impianto concettuale è opportunamente ricordato in ogni occasione di dibattito su attentati alla bellezza del territorio» .
Parte invece da un giudizio positivo sulla convenzione un altro urbanista, Al-berto Magnaghi, per approdare a considerazioni anch’esse – seppur diversa-mente – critiche. Secondo Magnaghi «la Convenzione europea del paesaggio apre la strada allo sviluppo della coscienza di luogo: dar voce alla percezione sociale del paesaggio e dei suoi valori da parte delle popolazioni attraverso processi partecipativi».
Tuttavia, prosegue Magnaghi, si deve tener conto del fatto che: «la designazione di paesaggio come “determinata parte del territorio cosi come è percepita dalle popolazioni “, è un processo e non un dato; non si dà nei territori locali una identificazione stretta fra popolazioni e luoghi: […] “abitanti” significa abitanti “locali” ma anche nuovi, residenti stabili, ma anche temporanei, ospiti, city users, presenze multietniche, giovani, anziani, ecc.».
La pianificazione non può quindi ridursi, prosegue Magnaghi, alla «semplice registrazione di una “percezione” data, ma un processo euristico di decodificazione e ricostruzione di significati, attraverso l’apprendimento collettivo del paesaggio come bene comune, facendo interagire saperi esperti e saperi contestuali per il riconoscimento da parte dei diversi attori dei valori patrimoniali e per innescare patti per la cura e la valorizzazione del patrimonio. Non si da infatti la gestione di un paesaggio come bene comune se è il risultato di una somma di azioni individuali dettate da interessi particolari. E’ necessario un processo partecipativo che avvii una trasformazione culturale di riconoscimento condiviso dei beni comuni per agire le trasformazioni del paesaggio e la fruibilità collettiva di beni in via di privatizzazione: il paesaggio agrario, le coste, gli spazi pubblici delle città, i fiumi, le foreste» .
E se – per concudere su questo punto - la percezione del paesaggio non è il punto di partenza, ma l’obiettivo d’un ”processo euristico”, di un percorso aperto da costruire per ipotesi e tentativi progressivamente modificati e aggiustati, allora è evidente che occorre operare sia sul versante della maturazione della consapevolezza di chi vive il paesaggio a distanza più ravvicinata, sia con l’azione tendente a salvaguardare, “dall’alto” delle istitu-zioni, la permanenza nel tempo delle componenti essenziali del patrimonio paesaggistico. Ciò con una pianificazione che abbia nella tutela delle qualità del territorio (della sua integrità fisica e della sua identità culturale) la sua decisione prioritaria e condizionante, e con le altre forme di tutela e di vincolo quando questa garanzia non sia ancora raggiunta.
2004-2008 Il codice dei B.C. e del paesaggio
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, nelle sue successive edizioni, ha ripreso integralmente la disciplina della legge Galasso, introducendo alcuni ulteriori elementi: tra questi, vorrei segnalare
- l’individuazione – come oggetti della pianificazione paesaggistica - degli «ambiti di paesaggio», accanto alle «categorie di beni a confine certo
- la co-pianificazione, ossia la condivisione (con-correnza in senso co-operativo) tra Stato e Regione nella pianificazione paesaggistica
- la ripresa dell’impegno dello Stato a definire le «linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale».
Gli “ambiti” non sono precisamente definiti dalla legge, e anzi il loro ruolo si è ridotto nelle successive versioni del Codice. Nella sostanza essi fanno tuttavia riferimento a un criterio di analisi e trattamento del paesaggio aaggiuntivo a quello dell’individuazione e regolamentazione dellle grandi componenti (le “categorie a confini certi”): un criterio che pone l’accento sulla specificità di ogni contesto territoriale, e allo stretto intreccio tra le varie componenti del paesaggio e tra queste e la società che li ha prodotti e che li utilizza.
La “co-pianificazione” avrebbe voluto e potuto essere lo strumento mediante il quale avviare il processo di “assidua riconsiderazione” tutelatrice del paesaggio nazionale mediante la coopperazzione tecnica dei due principali soggetti istituzionali prepost alla sua “tutela e valorizzazione”.
La ripresa del dettato del Dpr 616/1977, sul “lineamenti fondamentali del’assetto territoriale nazionele”, avrebbe consentito di partire dal paesaggio per raggiungere una ricomposizione dei mille conflitti d’uso e di prospettiva che affliggono la comunità nazionale (pensiamo solo a quella tra grandi infrastrutture da un lato, e paesaggio e ambiente dall’altro)
I limiti e gli errori
Possiamo dire che, in Italia, nell’elaborazione culturale e legislativa che si svolta nel corso di un secolo (ma che ha le sue radici nell’Italia preunitaria), si è raggiunta con la legge del 1985 e quella del 2008 un quadro di principi, di procedure e di strumenti che avrebbero potuto consentire una effettiva ed efficace utela delle qualità del Belpaese. Tuttavia, vediamo con i nostri occhi che non è così. É inutile in questa sede che mi dilunghi a illustrare questo punto. Mi domando però: perché ciò è accaduto?
Ho fatto più volte riferimento al clima generale nel quale siamo immersi (in Italia e nel mondo); alla grande svolta – a mio parere negativa – che si è aperta negli anni 80 del secolo scorso. Ma non è neppure su questo che voglio in questa sede insistere.
Ci sono errori e limiti della cultura politica tipicamente italiani: sappiamo fare buone leggi, ma non siamo capaci (o non vogliamo) mettere a punto gli strumenti amministrativi e operativi capaci di gestirle: l’intendenza non segue. E ci sono errori nelle stesse leggi. Vorrei segnalarne uno a questo proposito, proprio dalle modifiche introdotte nel 2008 al Codice del paesaggio.
Mi riferisco all’articolo 135, comma 1. Nelle precedenti stesure del Codice il piano paesaggistico elaborato congiuntamente da Stato e Regioni si estendeva all’intero territorio regionale. Il testo ora vigente assume invece come area di piano quella limitata ai “beni paesaggistici”, e cioè agli immobili vincolati a norma delle leggi del 1939, alle categorie della legge Galasso e alle loro integrazioni.
Questa decisione è assolutamente controcorrente rispetto al percorso che ho potuto finora delineare. Scompare l’unitarietà del paesaggio. Scompare la posizione di pariteticità tra Stato e Regione: il primo deve limitare la sua presenza al recinto dei beni già individuati la Regione no. É la logica dei “parchi” e dei “preparchi”: all’interno tutto è tutelato, attorno si può insediare tutto ciò che di quel siito tutelato può godere. Nel recinto la “tutela”, fuori la “valorizzazione” – con ciò che questa oggi, e in Italia, significa. Scompare la “assidua riconsiderazione del territorio nazionale” nella sua multiscalarità che la Corte aveva giudicato essenziale al rispetto del dettato costituzionale.
Più ampie e generali le preoccupazioni che nascono se si valuta nel suo complesso l’attuazione delle leggi per la tutela del paesaggio. Le ha puntualizzate in un documento di un anno fa l’associazione Italia Nostra, con un lavoro a tappeto, coordinato da Maria Pia Guermandi .
Partiamo dalle Regioni. Una sola dispone di un piano paesaggistico compiuto: la Sardegna . Ma siamo ancora lontani dall’adeguamento della pianificazione comunale a quella statale/regionale, e quindi alla dispiegata efficacia delle procedure del codice. La tutela dello Stato è ancora imperiosamente necessaria.
Del resto, con l’eccezione della Sardegna «i piani paesaggistici elaborati dalle regioni possiedono solo raramente elementi prescrittivi e una definizione chiara di procedure e regole atte a regolamentare l’uso del territorio e a delimitare senza ambiguità le aree tutelate e i diversi livelli di tutela. […] In generale, la disciplina del paesaggio rimane invischiata nel sistema della pianificazione territoriale ordinaria dove comanda sempre il livello comunale, al quale è riconosciuta, un’autonomia ampia, quando non amplissima, mentre a livello regionale generalizzata è la rinuncia a operazioni di strategia territoriale su area vasta».
Né le cose vanno meglio a livello statale. Non solo le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ai fini della tutela del paesaggio, «sono restate finora una pura dichiarazione d’intenti». A mancare, «a livello centrale, è anche l’elaborazione di un quadro univoco di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, solo, potrebbe consentire una reale omogeneità di obiettivi e di risultati, mentre ugualmente relegata alla dimensione della ipotesi futuribile sembra l’organizzazione sul territorio di un sistema costante di monitoraggio e di verifica del raggiungimento di tali risultati».
Il rapporto di Italia nostra attribuisce una particolare negatività a un orienta-mento che l’associazione individua nell’ambito della politica ministeriale, ma che a mio parere ha una portata molto più generale. Si tratta della tendenza «ad oscurare il carattere di prevalenza e preminenza della tutela del paesaggio rispetto ad ogni altro interesse pubblico, pur eretto limpidamente a valore primario dalla disciplina costituzionale, per sostituirlo con un ben più accomodante ‘contemperamento’ fra la salvaguardia di tali valori e la esigenze della libera attività imprenditoriale anche laddove quest’ultima comporta pesanti interventi di trasformazione del territorio».
ALTRE PAROLE PER CONCLUDERE
Concludo ragionando brevemente su un ulteriore gruppo di parole spesso ambigue, fuorvianti, e non di rado adoperate per forzare il contesto.
Sviluppo
Sviluppo è un termine ambiguo. Per meglio dire, è adoperato in modi diversi, e assume diversi significati. È un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È certamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, è certamente negativo lo sviluppo di una malattia.
Ma nel linguaggio corrente il termine sviluppo non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa da molti decenni unicamente crescita quantitativa dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro utilità reale.
Vincolo
Vincolo, invece, è un termine screditato. Nessuno osa più difendere il vincolo. Vincolo è oggi solo un impaccio da cui occorre liberarsi. Ma che cosa si intende per vincolo, a proposito del territorio?
Per “vincolo” il linguaggio corrente considera qualunque utilizzazione del suolo che non preveda la sua trasformazione profonda, la sua sottrazione a un uso in qualche modo legato alla natura e alla storia, la sua laterizzazione. É vincolato un territorio sottratto al bosco, all’agricoltura, alla landa o al prato, alle acque correnti o a quelle immobili e stagnanti, al pascolo e all’uso degli animali, all’agricoltura.
Criticare e cbtestare questa concezone non significa dire che occorra sempre vincolare, cioè sottoporre alla rigida conservazione. Il problema non è quello di affermare “qui si conserva tutto quello che c’è”, “qui nessuna tra-sformazione è consentita”. E non è neppure quello di individuare alcune aree nelle quale quelle due parole, conservazione e vincolo, devono essere le uniche che valgono, recintarle e abbandonare tutto il testo alla trasformazione scriteriata.
La vicenda della legislazione di tutela del paesaggio ci racconta qual è la soluzione ragionevole.
Tutto il territorio è intriso di qualità: naturali, storiche, culturali. Queste qualità sono il prodotto della collaborazione tra natura e storia. In ogni brandello del territorio ci sono elementi da conservare ed elementi suscettibili (o bisognosi) d’essere trasformati. Anche un bosco richiede l’abbattimento di certi suoi alberi e il diradamento di certe sue essenze, e anche la necropoli richiede la manutenzione dei suoi elementi (quindi la trasformazione di ciò che gli eventi del tempo, se lasciati soli, provocherebbero). Anche l’edilizia storica, per rimanere viva, richiede trasformazioni, che siano però coerenti con le regole che hanno guidato nei secoli la sua formazione e le sue trasformazioni organiche.
Una cosa è importante stabilire senza equivoci. Le esigenze della tutela delle qualità (naturali, storiche, culturali) di ogni porzione di territorio hanno la priorità – in termini di valori, in termini di utilizzazioni, in termini di tempo – rispetto a ogni trasformazione. E finché regole saggiamente elaborate e rigorosamente amministrate non rendono possibile raggiungere questo status, difendiamo la conservazione anche generale (e generica), difendiamo il vincolo.
Sostenibilità
É un’espressione passepartout: un grimaldello universale. Nasce inizialmente nell’ambito di una critica allo sviluppo divoratore delle risorse non riproducibili. Una prima mediazione a livello alto è quella tentata dalla Commissione Brundtland, che introduce il concetto di “riserva per i posteri” delle risorse fornite dall’ambiente planetario(«soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere quelli delle generazioni future»), postula quindi la priorità della riserva ambientale nei confronti dello sviluppo economico. Successivamente viene annacquato: accanto alla “sostenibilità ambientale” vennero poste quelle “economica” e “sociale”. Tra le tre, si sa chi vince.
Oggi “sostenibile” è un attributo che costa poco, pesa pochissimo ed è appli-cabile a ogni intervento devastatore, purché questo sia mitigato, compensato, perequato. Ecco tre ulteriori parole sulle quali avrei voluto soffermarmi, ma il tempo è scaduto.