Spreading Democracy. The Word’s Most Dangerous Idea è stato pubblicato in internet nel settembre/ottobre 2004. E’ inserito, con alcuni altri scritti dell’autore de Il secolo breve, nel libro Imperialismi, trad. it di Daniele Didero, Rizzoli, Milano 2007.
Siamo attualmente impegnati in ciò che dovrebbe essere un riordino pianificato del mondo a opera degli Stati più potenti. Le guerre in Iraq e in Afghanistan costituiscono solo una parte di un tentativo universale di creare un ordine mondiale attraverso l'«esportazione della democrazia». Ora, una simile idea non è soltanto donchisciottesca: è profondamente pericolosa. La retorica che circonda questa crociata sostiene che il sistema democratico è applicabile in una forma standardizzata (quella occidentale), che può essere introdotto ovunque con successo, che può offrire una risposta ai dilemmi internazionali del giorno d'oggi e che può portare la pace (anziché seminare ulteriore disordine). Male cose non stanno così.
La democrazia gode giustamente del favore popolare. Nel 1647, i Livellatori inglesi diffusero la potente idea secondo cui «il governo risiede interamente nel libero consenso del popolo». Con ciò intendevano riferirsi al diritto di voto esteso a tutti. Naturalmente, il suffragio universale non garantisce nessun particolare risultato politico, e le elezioni (come la Repubblica di Weimar ci insegna) non possono nemmeno garantire il loro stesso ripetersi. È anche improbabile che la democrazia elettorale produca risultati convenienti per le potenze imperialistiche o egemoniche. (Se la guerra in Iraq fosse dipesa dal consenso liberamente espresso della «comunità internazionale», non avrebbe mai avuto luogo.) Queste incertezze, comunque, non diminuiscono l'attrattiva della democrazia elettorale.
Oltre alla sua popolarità, ci sono diversi altri fattori che contribuiscono a spiegare l'illusoria e pericolosa convinzione secondo la quale sarebbe di fatto possibile diffondere la democrazia attraverso l'intervento di eserciti stranieri. La globalizzazione sembra suggerire che l'umanità si stia evolvendo verso l'adozione di modelli universali. Se i distributori di benzina, gli iPod e gli esperti di computer sono uguali in tutto il mondo, perché ciò non dovrebbe valere anche per le istituzioni politiche? Questo modo di vedere le cose tende tuttavia a sottovalutare la complessità del mondo. Anche la ricaduta nell'anarchia e negli spargimenti di sangue a cui abbiamo chiaramente assistito in molte parti del mondo ha accresciuto il fascino dell'i-dea di diffondere un nuovo ordine. Il caso dei Balcani è parso mostrare che le aree di disordine e di catastrofe umanitaria richiedono l'intervento - militare, se necessario - di Stati forti e stabili. Nell'assenza di un governo internazionale in grado di prendere effettivi provvedimenti, alcuni umanitaristi sono già pronti ad appoggiare un ordine mondiale imposto dalla potenza americana. Tuttavia, quando le potenze milîtari sconfiggono e occupano Stati più deboli affermando che stanno facendo un favore alle loro vittime e al mondo intero, dovremmo come minimo nutrire sempre qualche sospetto.
Tuttavia, c'è anche un altro fattore, che potrebbe essere quello più importante: gli Stati Uniti sono stati pronti a intervenire can la necessaria combinazione di megalomania e messianismo, derivata dalle loro origini rivoluzionarie.- Oggi gli Usa non hanno rivali in grado di sfidare la loro supremazia tecnologico-militare, sono convinti della superiorità del loro sistema sociale e, dal 1989, hanno smesso di ricordare (come invece avevano sempre fatto tutti i più grandi imperi conquistatori del passato) che il loro potere materiale ha dei limiti. Come il presidente Woodrow Wilson (che, ai suoi giorni, andò incontro a un fallimento internazionale spettacolare), gli ideologi di oggi vedono una società modello già attuata negli Stati Uniti: una combinazione di legge, liberalismo, competizione fra le imprese private e regolari sfide elettorali il cui esito viene deciso con il suffragio universale. Tutto ciò che resta da fare è rimodellare il mondo a immagine di questa «società libera».
Questa idea è un modo pericoloso di autoconvincersi. Anche nei casi in cui (intervento di una grande potenza potrebbe avere conseguenze moralmente o politicamente desiderabili, appoggiare questo tipo di azioni è rischioso, perché la logica e il modo di procedere degli Stati non sono quelli dei diritti universali. Ogni singola nazione mette al primo posto i propri interessi. Se ne hanno il potere, e se ritengono che il fine sia sufficientemente importante, gli Stati giustificano i mezzi necessari per raggiungerlo (anche se raramente lo fanno in pubblico), in particolare quando pensano che Dio sia dalla loro parte. Tanto gli imperi «buoni» quanto quelli «cattivi» hanno prodotto la barbarizzazione della nostra epoca, alla quale la «guerra contro il terrore» ha dato ora il proprio contributo.
Finché di fatto minaccerà l'integrità di valori universali, la campagna per diffondere la democrazia non avrà successo. Il XX secolo ci ha dimostrato che gli Stati non sono assolutamente in grado di rimodellare il mondo o di accelerare artificialmente le trasformazioni storiche. E non possono neppure ottenere un cambiamento sociale in modo semplicistico, limitandosi a trasferire i modelli di istituzioni da un Paese all'altro. Anche negli Stati-nazione territoriali, per un effettivo governo democratico sono necessarie condizioni non così frequenti o scontate: le strutture dello Stato devono godere di legittimità e consenso, e avere la capacità di mediare i conflitti fra i diversi gruppi interni. In mancanza di questi requisiti, non c'è un singolo popolo sovrano e, pertanto, non c'è legittimità per le maggioranze numeriche. Quando il consenso - che sia religioso, etnico o entrambe le cose - è assente, la democrazia viene a essere sospesa (come nel caso delle istituzioni democratiche nell'Irlanda del Nord), lo Stato si divide (come in Cecoslovacchia), o la società sprofonda in una permanente guerra civile (come in Sri Lanka). La scelta di «esportare la democrazia» ha aggravato i conflitti etnici e ha prodotto la disgregazione di Stati in regioni multinazionali e multicomunitarie sia dopo il 1918, sia dopo il 1989; si tratta, insomma, di una tetra prospettiva.
Oltre alle sue scarse probabilità di successo, lo sforzo di diffondere la democrazia nella sua versione standardizzata occidentale soffre anche di un radicale paradosso. In larga misura esso è considerato come una soluzione dei pericolosi problemi tra nazioni del mondo d'oggi. Attualmente, una parte sempre più grande della vita umana viene decisa al di là dell'influenza degli elettori, da entità sovranazionali pubbliche e private che non hanno elettorati (o, perlomeno, in cui non si svolgono elezioni democratiche). E la democrazia elettorale non può di fatto funzionare al di fuori di unità politiche come gli Stati-nazione. Gli Stati più forti stanno quindi cercando di diffondere un sistema che essi stessi ritengono inadeguato per affrontare le sfide del mondo d'oggi.
Questo punto è ben esemplificato dalla situazione europea. Un'entità come l'Unione Europea ha potuto svilupparsi in una struttura autorevole ed efficiente proprio perché non ha un elettorato (al di fuori di un piccolo numero - per quanto crescente - di governi membri). L'Ue non sarebbe andata da nessuna parte senza il suo «deficit democratico», e non può esserci futuro per il suo Parlamento per il semplice motivo che non esiste un «popolo europeo», bensì una mera collezione di «popoli membri» (più della metà del presunto «popolo» non si è preso neppure la briga di andare a votare per eleggere il Parlamento di Bruxelles nel 2004). L'«Europa» è oggi un'entità funzionante, ma a differenza dei suoi singoli Stati membri non gode di legittimità popolare o di autorità elettorale. Non ci sorprende quindi che, appena l'Ue si spinge oltre le negoziazioni fra i governi e diventa il soggetto di una campagna democratica negli Stati membri, iniziano a sorgere dei problemi.
Lo sforzo volto a esportare la democrazia è pericoloso anche per un motivo più indiretto: esso trasmette a coloro che non godono di questa forma di governo l'illusione che nei Paesi che ne godono la democrazia sia effettiva. Male cose stanno davvero così? Oggi noi conosciamo qualcosa su come sono state di fatto prese le decisioni di andare in guerra in Iraq in almeno due nazioni di indubitabile tradizione democratica: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. A parte sollevare a posteriori complessi problemi di inganni e occultamenti di verità, la democrazia elettorale e le assemblee rappresentative hanno avuto poco a che vedere con quel processo. Le decisioni sono state prese in privato da piccoli gruppi di persone, in modo non molto diverso da quanto sarebbe accaduto in Paesi non democratici. Fortunatamente, nel Regno Unito non è facile aggirare ed eludere l'indipendenza dei media. Ma la democrazia elettorale da sola certo non basta ad assicurare l'effettiva libertà di stampa, né i diritti dei cittadini o l'indipendenza del potere giudiziario.