. Il manifesto, 14 maggio 2016 (p.d.)
Sono gocce rosso-sangue, bollenti e brillanti, l’anima di questi macigni che hanno costruito la storia del mondo e della Sardegna prima degli Dei». Così aveva confidato a un amico giornalista Pinuccio Sciola una calda notte di maggio del 1974. Con la fiamma ossidrica, nel suo giardino di aranci di San Sperate, lo scultore che s’è spento ieri all’età di 74 anni per un’emorragia cerebrale era riuscito a fondere il basalto. Così era Sciola, artista di origini contadine che ai miti e agli archetipi di una terra antica era legato indissolubilmente. Quel giardino di aranci è poi diventato nel tempo il «Giardino sonoro», labirinto di blocchi di calcare e di grandi masse di basalto e di granito scolpite con una tecnica che Sciola ha inventato nel 1999: profonde incisioni parallele che segnano la pietra e che, percorse con le mani, o con un sasso o anche con l’arco di violino, producono suoni strutturati. La scultura diventava strumento musicale. «Ma – diceva Sciola – arte sono anche quelle pietre, quei sassi che io non sfioro, perché l’arte è nella natura. Non è un inno alla bellezza un prato di primule e di papaveri?».
Non c’era però niente di ingenuo in questo tenersi di Sciola dalla parte del linguaggio primario della natura. Era nato in una famiglia di contadini, in una regione della Sardegna, il Campidano, in cui la forza dei codici antichi della tradizione ha contrastato, sino a pochi decenni fa, una modernizzazione per molti versi violenta e per altri cialtrona. Quei codici, che sono stati «codici di resistenza», Sciola li ha filtrati alla scuola della grande cultura europea, li ha fatti passare al vaglio della riflessione teorica delle maggiori correnti artistiche del ’900. All’Accademia di Salisburgo, dove ha compiuto i suoi studi dopo una breve tappa fiorentina, è entrato in contatto con Minguzzi, Kokoschka («Volle conoscere tutte le chiese preromaniche sarde, gli rimase impressa San Nicola di Ottana»), Manzù, Wotruba e Sassu.
Il suo primo lavoro importante fu nel 1972, quando collaborò con Henry Moore nell’esposizione al Forte Belvedere di Firenze. Dopo quell’esperienza, altre tappe del suo percorso furono gli studi alla Moncloa di Madrid, un lungo soggiorno a Parigi e, soprattutto, la frequentazione a Città del Messico con David Alfaro Siqueiros. «Siqueiros – diceva – mi ha fatto capire il senso dell’arte e insieme il valore della vita». Tornato in Italia, Sciola trasformò il suo piccolo borgo di contadini nel luogo privilegiato di un progetto di arte sociale che si rifaceva alla lezione dei muralisti messicani (Rivera e Orozco li aveva conosciuti attraverso Siqueiros). Le case di tufo di San Sperate furono affrescate ad lui stesso e da artisti che arrivarono da tutto il mondo. L’intera comunità che, a metà degli anni 70, partecipò a un’esperienza collettiva da cui nacque un museo a cielo aperto, che tuttora si snoda nelle stradine e nei vicoli del paesino. E che va ad aggiungersi al «Giardino sonoro» della casa nella quale Sciola ha voluto continuare a vivere e dalla quale si muoveva per le mostre in Europa e in America, con le sue opere monumentali nel parco del castello di Oiodonk in Belgio, al Palace Trianon di Versailles, al Barndorf Beio Baden di Vienna, in piazze di New York e Chicago, Londra e Stoccolma, Barcellona.
Guardando la sua intera produzione, Sciola può essere iscritto a una sorta di «linea sarda», che allo scultore di San Sperate arriva partendo da Costantino Nivola e attraversando Maria Lai. Tutti e tre legati a una visione dell’arte che intreccia l’attenzione per ciò che sfugge alla storia (l’archetipo e il mito) a una fortissima connotazione relazionale del lavoro dell’artista. Dire l’ineffabile per creare nuova socialità.