1. Le regioni non risolvono tutto il problema dell’area vasta
Fabrizio ci ha condotto fino alle soglie dell’entrata in vigore dell’ordinamento regionale, avvenuto all’inizio degli anni 70 del secolo scorso. Previste dalla Costituzione del 1947 quali istituzioni della Repubblica, elettive di primo grado (cioè con organi eletti direttamente dai cittadini), sottordinate allo Stato e sovraordinate alle province e ai comuni, le regioni a statuto ordinario[1] furono concretamente elette solo nel 1970. Il trasferimento dei poteri e delle strutture pubbliche dallo Stato alle regioni avvenne negli anni successivi, e coincise con la fase statutaria delle singole regioni e con la successiva fase di lavoro delle neocostituite regioni, per concludersi – dopo un periodo di conflitto giurisdizionale tra Stato e regioni – con l’ultimo dei decreti delegati: il Dpr 616 del 1977.
Come sapete l’urbanistica è “materia” che la Costituzione affidava la competenza alla Regione (articolo 117). Cultura e politica erano concordi nell’attribuire alle regioni due responsabilità molto vicine tra loro: la pianificazione territoriale e la programmazione economica. L’una e l’altra in connessione molto stretta con la responsabilità e la competenza statale. Più precisamente, la programmazione economica regionale era sottordinata rispetto a quella nazionale, per la pianificazione territoriale era generalmente considerata una competenza regionale. Solo l‘articolo 81 del Dpr 616/1977 introdusse il criterio di un livello di pianificazione nazionale, affidato allo Stato, il quale avrebbe dovuto definire, anche prescrittivamente, “i lineamenti generali dell’assetto del territorio nazionale” [2]
Molte erano le speranze che cultura e politica attribuivano alla possibilità e capacità delle regioni di correggere le distorsioni che si erano prodotte nell’uso del territorio, e nell’impiego degli strumenti coordinati della programmazione economica e della pianificazione del territorio. Ma nella catena di comando che governa il processi di trasformazione del territorio i ruoli essenziali - sul versante del potere pubblico – spettano allo Stato, che decide sui grandi interventi infrastrutturali e sulla tutela del paesaggio e dei bani culturali, e al Comune, che regola le specifiche trasformazioni urbanistiche ed edilizie dei territori. Competenze solo residuali spettavano alla Provincia, quarta istituzione territoriale elettiva di primo grado prevista dalla Costituzione.
Già nella prima fase dell’attività delle regioni si comprese che molte ragioni (le drastiche trasformazioni dell’habitat dell’uomo in seguito ai grandi processi di trasformazione operato dalla distruttiva spontaneità del “mercato” negli anni Cinquanta e Sessanta, l’emergere di nuove esigenze e necessità nell’uso del suolo e nell’impiego del tempo dei cittadini, rendevano necessario) rendevano indispensabile individuare un livello di pianificazione intermedio tra la Regione e il Comune.
2. Il tentativo del Comprensorio
Vari tentativi furono compiuti, legati tra loro da un nome comune: il “comprensorio”. Con questo termine si intendeva un ambito territoriale nel quale era necessaria una pianificazione unitaria per raggiungere un adeguato livello di funzionalità nel soddisfacimento delle esigenze della popolazione (in quegli anni l’immaginario urbano egemonico era quello che oggi definiamo “la città dei cittadini”, e non quello della “città della rendita”: quest’ultima era denominata “speculazione”, senza riferirsi a quella dei filosofi). Ma la pianificazione come la si intendeva in quegli anni doveva essere non solo “pubblica”, ma anche “democratica”.
Quindi, dato che la democrazia, nonostante le ventate dei primi anni Venti e degli anni ’68-69, era considerata unanimemente quella delle istituzioni elettive, l’autorità cui doveva essere attribuita la responsabilità della pianificazione doveva fa riferimento al Comune o alla Regione. Furono tentate diverse strade. alcune esperienze (come ad esempio quella piemontese, gestita da Giovanni Astengo) vedevano il piano comprensoriale come emanazione delle regione, in altre regioni si tentò invece la strada del comprensorio come ente elettivo di secondo grado: cioè come istituzione eletta a sua volta dai singole istituzioni che erano comprese nel relativo ambito territoriale. Nel primo caso, i comuni non accettavano l’intromissione della regione in una loro storica competenza, nell’altro caso l’organo comprensoriale non si trovava mai un accordo, poiché ogni rappresentante si sentiva rappresentante degli elettori del “suo” comune, e non dell’intera cittadinanza dell’ambito territoriale comprensoriale.
Purtroppo non mi risulta che il dibattito di quegli anni sia stato analizzato e raccontato come Bottini ha fatto per il periodo da lui studiato. Occorre dire che è un compito reso particolarmente difficile per il problema delle fonti, che sono la base di ogni ricerca. La discussione, anche specialistica e di merito, nella quale maturavano le decisioni in quegli anni non riguardava solo in quegli anni, il livello accademico: la cultura delle università e degli istituti culturali dell’urbanistica o delle scienze politiche o giuridiche, a esso partecipava anche il mondo della politica vera e propria: delle amministrazioni pubbliche e dei partiti politici. Quindi è a un insieme più vasto di archivi quello cui bisognerebbe ricorrere – oltre che allo strumento delle testimonianze durette. Un lavoro che, se ne avessimo i mezzi, sarebbe bello intraprendere nell’ambito di eddyburg.
Per risolvere il problema della pianificazione d'area vasta, dato l'inscindibile nesso tra pianificazione e democrazia, la soluzione logicamente più ragionevole sarebbe stata la modifica della Costituzione e l’introduzione in essa, accanto al Regione, alla Provincia e al Comune di una quarta istituzione: il comprensorio. Questo termine, e i suoi contenuti tecnici, erano già presenti nel dibattito culturale, come del resto la possibilità di utilizzare la Provincia. Ma la strada della modifica costituzionale sarebbe stata lunghissima: allora, a differenza di oggi, tutti erano convinti, giustamente, che la modifica della Carta su cui si regge la nostra democrazia richiede molto tempo, molta ricerca, molto consenso.
Nel ragionare sull’argomento nell’ambito di Urbanistica informazioni (la rivista che avevo fondato e allora dirigevo) ci venne un’idea. Eravamo nella fase in cui il recupero edilizio e urbanistico era di moda. Ed era maturata, quasi contemporaneamente, una fioritura di suddivisioni del territorio in una serie di recinti amministrativi ciascuno dedicato a un determinato settore, o problema, o esigenza: dalla scuola alla salute, dalle bonifiche ai trasporri, dalla casa alle decisioni. comunali Era nata una grande confusione nel vasto campo delle decisioni nell’area tra la Regione e il Comune. Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma, quando gli spiegarono la situazione esclamò: «Ho capito, l’Italia è diventata un gigantesco campo di decentramento. Era maturata d’altra parte la convinzione del fallimento dell’esperienza dei comprensori, in ciascuna delle formule tentate nella prima fase di lavoro delle regfioni. Perché non proponiamo – ci dicemmo nella redazione di Urbanistica informazioni - di tentare la strada del “recupero delle istituzioni esistenti? Demmo questo titolo a un articolo che scrisse Vezio De Lucia come editoriale del n. 39 della rivista. [inserire brani ]
3. Il recupero della provincia
Si aprì una discussione ampia, che condusse all’idea, entrata poi nella legge 142/1990, di recuperare la Provincia, istituzione, elettiva di primo grado, già prevista nella Costituzione, rivedendone con legge ordinaria le funzioni, le responsabilità e iconfini.
Anche ragioni spiccatamente territoriali spinsero allora in questa direzione. Ricordo che Gigi Scano insisteva spesso sui criterio in base al quale le province italiane erano nate e si erano conformate.
Negli ordinamenti di radice napoleonica, dai quali le province italiane sono nate, si era proceduto in questo modo. Tenendo conto delle tradizioni locali e dei variegati legami tra città e contado, si erano tracciati i confini delle province sulla base di ragionamenti che, letti con gli occhi del nostro tempo, appaiono squisitamente territoriali: la distanza che può percorrere in un giorno un signore che deve recarsi in carrozza al capoluogo per pagare le tasse, o uno squadrone di gendarmi a cavallo per ripristinare l’ordine turbato: Aveva contato anche il senso di identità che derivava dall’appartenenza della popolazioni abitante a un determinato “contado” o dal legame funzionale a un medesimo capoluogo.
Con la Costituzione repubblicana le province – fino ad allora emanazioni periferiche del governo centrale, erano diventate istituzioni rappresentative elettive di primo grado, e le loro funzioni si erano già arricchite in vari settori, dall’agricoltura alla gestione del selvatico, dalla salute alla scuola.
4. L’invenzione della Città metropolitana
Il lungo dibattito, aperto all’indomani dell’entrata in attività delle regioni, ebbe la sua conclusione nella legge 142 del 1990. I problemi di fondo che si affrontavano erano riducibili a due: (1) come dotare il livello intermedio della pianificazione (chiamamolo, se volete, pianificazione di area vasta) di un assetto democratico e di una reale capacità di “governo”; (2) come tener conto delle differenti situazioni territoriali nell’organizzazione territoriale dell’habitat dell’uomo. Ai due estremi: gli aggregati continui di aree urbanizzate ed edificate, unificati sia dalla continuità fisica e morfologica sia dalla ricchezza e complessità delle relazioni interne
I due problemi vennero risolti attribuendo nuovi poteri alle province a individuando alcuni ambiti territoriali nelle quali era necessario che alle province fossero assegnate anche alcune competenze fino ad allora appannaggio dei comuni: le Città metropolitane
Queste furono “inventate” appunto per tener conto delle differenti connotazioni territoriali delle aree più dense nei confronti di quelle quelle meno dense. Di assicurare insomma il governo in quelle che le scienze sociali e quelle territoriali hanno denominato “aree metropolitane” e nelle altre. Il problema appariva ed era complesso per più d’un motivo.
I poteri propri del governo d’area vasta in quelle parti più dense e attive del territorio non potevano consistere solo in una pianificazione “a maglie larghe”, né solo in una serie di decisioni prese in riferimento ad archi temporali ampi, dovevano estendersi al campo delle decisioni operative e di breve periodo: nella gestione. Occorreva quindi che l’istituzione d’area vasta avesse competenze e poteri più incisivi e diretti di quelli che si potevano attribuire a una provincia: dovevano assorbire anche una parte delle competenze fino ad allora attribuite al Comune.
Il legislatore decise allora di individuare alcune aree del paese nelle quali le condizioni di fatto, o il progetto di territorio che si voleva realizzare, rendevano necessaria un’azione più penetrante di decisione e di gestione di determinate politiche: un’azione fino ad allora affidata alla competenza della pianificazione urbanistica comunale. Nei comuni che ricadevano in questi ambiti territoriali si decise quindi di attribuire alle ex province la denominazione di “città metropolitane” attribuendo a esse, oltre ai poteri attribuiti alle province, anche una partire dei poterei dei comuni.
Vorrei sottolineare che nella stessa nomenclatura la legge distingueva due realtà diverse, una distinzione che invece fin da allora nelle discussioni dell’accademia non si riuscì a cogliere: le “aree metropolitane” (articolo 17), come ambiti geografici entro i quali era necessario applicare un particolare tipo di governo territoriale, e “città metropolitana” (articoli 18 e segg), come istituzione, come strumento cui affidare il governo[3].
5. Un’altra invenzione: le municipalità
La costituzione della CM come una nuova unità politico amministrativa sovraordinata ai comuni, che originariamente erano protagonisti del governo locale poneva però, o accentuava, un altro problema.
Nel caso della Provincia il rapporto tra l’ente sovraordinato e i comuni non era sostanzialmente modificato rispetto al passato, la pianificazione “a maglie larghe“ era sentita più come un ragionevole coordinamento che come un’ingerenza nell’autonomia comunale, e per di più c’era una storia che era servita spesso a definire una “identità” di quella parte di territorio.
Nel caso della città metropolitana invece una parte delle competenze comunali venivano spostate da comune alla C M. Una creazione artificiale, recente, priva di collegamento con le storie locali e quindi ancora priva di identità. Per di più si sarebbe pesantemente rafforzato lo squilibrio tra il comune capoluogo e gli altri comuni: i numeri, che in un regime democratico pesano molto, avrebbe reso dominante il peso del capoluogo nelle sedi decisionali.
La scelta che venne compiuta fu allora di partire dall’esperienza delle “circoscrizioni”[4]; quella cioèdi suddividere i comuni capoluoghi in più unità amministrative, i “municipi”, di denominare “municipi” gli altri comuni compresi nella CM. Di fatto, quindi, l’articolazione subregionale delle istituzioni territoriali sarebbe stata Provincia e Comune in alcune parti del paese, CM e Municipalità in altre parti.
6. Perché l’attuazione della riforma del 1990 si insabbiò?
Perché la riforma del 1990 è stata attuata solo per una parte, e per di più solo nella fase iniziale?
In effetti, le municipalità sono state costituite, credo in tutte le grandi città, e sarebbe interessante analizzarne il funzionamento. Molti piani provinciali sono stati redatti, adottati e approvati, e sarebbe utile farne un elenco e una schedatura critica, così come sarebbe utile approfondire le ragioni della mancata valorizzazione dei risultati raggiunti. Credo comunque che la causa principale sia individuabile nel generale processo di delegittimazione sia della pianificazione come metodo e strumento dell’azione pubblica sul territorio sia, più in generale, del ruolo dei poteri pubblici, un processo avvenuto in Italia a partire dagli anni Ottanta nel quadro del trionfo planetario del neoliberismo. .
La parte della riforma che non ha visto neppure l’inizio della sua attuazione è stata quella della città metropolitana: proprio quella delle aree dove un forte governo pubblico delle trasformazioni sarebbe stato più necessario. La mia opinione – certamente parziale - è che la politica, se aveva affrontato il problema nel verso giusto, nel suo versante legislativo, una volta definita la norma non era stata capace di attuarla. Di fatto istituire le città metropolitane avrebbe comportato una redistribuzione dei poteri locali nei partiti e tra i partiti, avrebbe turbato l’equilibrio collusivo tra gli interessi (di gruppo, di clan, di clientela, di corrente) raggiunto e consolidato. Il degrado della politica spiega forse anche il fatto che alcune parti della riforma (le municipalità e le province) nella prima fase sono state utilizzate: entrambe offrivano occasioni d’impegno (e d’impiego) per il personale politico-amministrativo che doveva essere rimosso dal suo precedente ruolo. La rottamazione dei membri dell’apparato che danno fastidio non è un’invenzione del giovane Renzi.
Così, mentre – non cogliendo le potenzialità del nuovo ruolo della provincia la politica ha visto questa istituzione come il luogo dove collocare gli amministratori e i legislatori di livello B, si è del tutto rinunciato ad affrontare il problema nelle aree più calde del paese: appunto, le aree metropolitane. La “stabilità” degli equilibri raggiunti era già divenuto un mantra, e non bastò l’inclusione della Città metropolitana nella Costituzione novellata del 2002 a svegliare la politica dal suo letargo.
Ma le esigenze che la realtà pone non sono eludibili. La necessità di un governo di area vasta non è cancellabile. Essa imporrebbe di rivedere l’intero assetto degli equilibri amministrativi. Ma è probabilmente divenuto pensiero corrente che le aree “deboli” possono essere abbandonate al loro degrado, le aree “forti” no. Si possono cancellare le province (non senza ragioni, visto l’uso che la classe politica ha saputo farne), ma le parti del territorio dove si addensano le ricchezze attuali e potenziali e più forti insorgono le tensioni sociali, lì no. Là si deve intervenire, subito. Come? Lo capiremo meglio quando Barbara avrà svolto il suo intervento. E meglio ancora domani, quando nella mattinata gli interventi di Chiara Sebastiani, Maria Cristina Gibelli e Roberto Camagni ci avranno chiarito gli altri aspetti del contesto, e quando nel pomeriggio saremo stati informati dei i temi emergenti a livello locale nelle “città metropolitane” obbligate dalla legge a partire.
7. conclusioni inconcludenti
Vorrei concludere enunciando qualche punto fermo che propongo di dare per acquisito e qualche tema su cui discutere oggi e nei prossimi giorni.
Punti fermi:
necessità della pianificazione d’area vasta
necessità di praticare la pianificazione come metodo di governo democratico, quindi in stretta connessione con gli istituti della democrazia, a tutti i livelli
necessità di affrontare il tema in una visione: a) interscalare; b) interdisciplinare
necessità di utilizzare sia la dimensione verticale che quella orizzontale della democrazia (cfr David Harvey)
necessità di non disgiungere il ragionamento e la proposta sul tema di fondo (il governo d’area vasta in una visione interscalare e interdisciplinare) e l’emergenza (l’agenda delle città metropolitane)
Alcuni punti da discutere:
è giusto mantenere la distinzione tra dimensione geografica (area metropolitana) e dimensione di governo (provincia, città metropolitana)? Secondo me si.
è meglio affrontare la questione privilegiando la strada normativa oppure quella sperimentale? Oppure (come mi sembrerebbe più utile) percorrendole entrambecontemporaneamente?
Come sviluppare il ragionamento /il lavoro di eddyburg sul tema complessivo (in questi giorni e prima dell’iniziativa del 23 novembre, in preparazione di altre iniziative di eddyburg)?
Come sviluppare il ragionamento /il lavoro di eddyburg sul tema d’emergenza (in questi giorni, prima dell’iniziativa del 23 novembre, in preparazione di altre iniziative di eddyburg)?
Soprattutto a quest’ultimo proposito, ricordo le tre aree tematiche in relazione alle quali costituiremo i gruppi di lavoro del workshop finale:
1. Il governo della città metropolitana [come assicurare rappresentatività e partecipazione in una dimensione territoriale alla quale non corrisponde alcuna tradizionale identità/patria]
2. L’agenda: dal consumo di suolo al riuso del già urbanizzato [come evitare il saccheggio dei beni comuni, garantendone usi sociali, e restituire dignità all’iniziativa pubblica]
3. Come attivare le risorse necessarie [rigorosa finalizzazione bilanci pubblici, prelievo del plusvalore delle trasformazioni, riattivazione di economie virtuose: come assicurare il funzionamento della città metropolitana]
ES 15 ottobre 2013
[3] Fu per la confusione alle due differenti realtà significate dai due diversi termini che c’erano autorevoli studiosi che proponevano di istituire una città metropolitana comprendente tutto il territorio veneto che va da Venezia a Padova e Treviso)