Il manifesto, 4 maggio 2016 (p.d.)
E vanno male quelli che in questo periodo sono sotto i riflettori del Vecchio Continente: la Turchia del presidente-sultano Erdogan che tiene dietro le sbarre oltre 30 reporter (per lo più kurdi) e l’Egitto del golpista al-Sisi che mette a tacere le voci critiche con la consolidata pratica delle sparizioni forzate. Non a caso i redattori del quotidiano turco Cumhuriyet Dundar e Gul e il giornalista egiziano Shawkan (per la cui scarcerazione si è mossa anche la famiglia Regeni) sono tra i 9 reporter che ieri Amnesty International ha preso a modello delle abusi contro la stampa.
In generale, registra Rsf, la situazione peggiora ovunque: «Tutti gli indicatori della classifica mostrano un deterioramento – spiega il segretario generale Deloire – Molte autorità temono che il dibattito pubblico sia troppo aperto». Nel caso italiano, le ragioni dell’arretramento le spiega lo stesso Rsf: il caso Vatileaks e le conseguenze giudiziarie subite dai giornalisti Nuzzi ed Fittipaldi che hanno reso note informazioni nascoste dietro il portone di San Pietro.
Si potrebbe scorrere tutto l’indice, arrovellarsi per capire perché El Salvador e Burkina Faso occupano posizioni sicuramente più prestigiose (38° e 42° posto). Si potrebbe studiare il meccanismo dietro l’indice di Reporter Senza Frontiere, giudicato poco veritiero perché per l’80% fondato su percezioni soggettive più che su dati assoluti.
C’è del vero dietro il giudizio tranchant di alcuni media che nei giorni scorsi hanno pubblicato il rapporto. Si parte da un questionario compilato da associazioni e giornalisti chiamati a dare un punteggio da 1 a 10 su legislatura, autocensura, pluralismo, indipendenza, trasparenza e infrastrutture. I voti vengono poi calcolati sulla base di una particolare formula matematica. Poi si utilizzano dati assoluti: numero di giornalisti arrestati, minacciati, licenziati, uccisi. Valori che pesano meno dei giudizi personali, spesso prodotto del contesto nazionale.
In Italia, però, si potrebbe anche fare autocritica. E dirci che se siamo tra i paesi occidentali meno liberi in campo mediatico forse un motivo c’è. Da noi del resto la condizione di lavoro di migliaia di giornalisti è senza contratto, freelance che spesso freelance non sono perché lavorano nelle redazioni, siedono a fianco dei colleghi contrattualizzati, fanno lo stesso mestiere, a volte seguono un intero settore.
Sono tanti: secondo i dati 2014 dell’Lsdi, oltre il 62% dei giornalisti attivi sono autonomi, 31mila contro 18mila subordinati. Il restante 38%, da dipendente, può guadagnare 5 volte più di un freelance. Sono tanti e di tanti tipi: dai giovani disposti ad accettare retribuzioni basse o collaborazioni gratuite a chi ha esperienza di decenni ma si ritrova disoccupato per la chiusura del proprio giornale. Secondo la Federstampa, la gran parte dei precari (il 75%) non supera il traguardo dei 10mila euro l’anno. Di questi il 62% è sotto la soglia dei 5mila.
Forse scendiamo nella classifica perché è difficile parlare di informazione libera e indipendente quando chi lavora nelle redazioni – che siano quotidiani, tv, radio o agenzie web – è sottopagato e spogliato dei propri diritti. Quindi ricattabile. A uscirne malconcio è un intero sistema che si fonda su giornalisti che mettono insieme uno stipendio – o no – a seconda degli articoli pubblicati ogni mese. Ed è ovvio che di tempo per inchieste, per il mito del giornalismo investigativo, per chiedere diritti ne resta poco.