Stressati anche nel parlare. Rapidi, concitati, a tratti incomprensibili. Una forma d’ansia si è insinuata nel modo di comunicare, che si è evoluto e un po’ imbarbarito nel nome della velocità. Via il superfluo, le pause ad esempio, e tutto ciò che richiede qualche accortezza, come il congiuntivo. Spazio alla sintesi e pazienza se è complicato interpretare. Ci provano gli studiosi che da oggi a domenica si incontrano a Napoli per il congresso "La comunicazione parlata", organizzato dal Gscp (Gruppo di studio della comunicazione parlata) che fa parte della Società di linguistica italiana. Si parte da un quesito, dove va la comunicazione verbale, che «è affascinante – dice il presidente del Gscp, Federico Albano Leoni – ma che mette i linguisti in forte difficoltà». Perché i modi del comunicare sono tanti, troppi e, alla fine, aggiunge Albano Leoni, «i padroni della lingua sono i parlanti».
Compito dei ricercatori è quello di raccogliere informazioni e registrare trasformazioni. Il che consente di osservare quel che cambia, ad esempio, nei telegiornali. Un confronto fra gli anni Sessanta e oggi rivela che il ritmo dello speaker è accelerato, la velocità dell’eloquio è quanto meno triplicata (si pensi alla "mitraglia" di Enrico Mentana) e che il volume della voce è molto più alto rispetto al passato.
L’informazione televisiva è l’esempio più eclatante, ma altre ricerche si concentrano sul piccolo schermo, dal parlato delle fiction rispetto a quello dei teleromanzi di un tempo - dialoghi stringati, lingua più vicina all’italiano medio, uso del dialetto, di intemperanze e, talvolta, del turpiloquio - ai programmi di divulgazione religiosa, dove un registro più scattante ha avuto la meglio su quello solenne.
Capitolo a parte meritano gli studi sul rapporto fra parlato giudiziario e testo scritto. Spiega Massimo Pettorino, del laboratorio di Fonetica sperimentale all’Orientale di Napoli: «Pensiamo alle intercettazioni pubblicate dai quotidiani. Il senso è chiaro, ma a ben guardare sembrano il delirio di un folle. E’ comunicazione verbale che finisce in un testo, come si fa a trascrivere un’alzata di sopracciglia, un movimento degli occhi, delle spalle, una pausa?».
La gestualità complica le cose. Perché la mimica è parte essenziale per chi cerca la trasmissione rapida del messaggio. Per questo gli immigrati imparano prima i gesti che le parole. Lo stesso principio che anima il "linguaggio parallelo" dei più giovani, desunto dai videoclip o dal codice degli sms, archetipo di tutte le sintesi. «Magari non imparano una lingua straniera – spiega ancora Pettorino – ma la gestualità dei rapper, quella sì. Perché la prima va studiata sui libri, mentre per la seconda basta stare davanti a Mtv. E consente loro di comunicare senza giri di parole. Anzi, senza parole».
Minori, allarme parolacce "Si imparano in famiglia"
ROMA - E’ allarme parolacce tra i bambini italiani, che le imparano in gran parte in famiglia. Lo rivela un’inchiesta dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori nata dalle segnalazioni di mamme preoccupate dall’alto grado quantitativo e qualitativo di turpiloquio dei loro bambini. L’inchiesta è stata condotta su un campione di 200 mamme di bimbi italiani, in età compresa tra i 6 e i 10 anni, alle quali è stato chiesto di monitorare per un mese il lessico dei propri figli senza intervenire con rimproveri, ma semplicemente con la domanda: «Dove l’hai sentita questa parola?». Dai risultati emerge che la prima risposta dei piccoli riguarda per il 37% la famiglia, con responsabilità quasi equamente distribuite tra i fratelli maggiori ed i genitori, il 26% i compagni di scuola, il 19% la televisione, l’8% gli amici extrascolastici, il 6% ha riferito di non ricordare la fonte d’apprendimento, mentre il 4% delle mamme ha riferito di non avere registrato nessuna parolaccia, una soglia di "beneducati" decisamente bassa. Dal punto di vista della "qualità", pochi neologismi: la tradizione tiene con parolacce che per lo più fanno riferimenti volgari ad organi sessuali maschili e femminili.