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Massimo Livi Bacci
In quella parola la nostra identità
24 Gennaio 2007
Le parole
La critica di uno studioso intelligente ai pasticci all’italiana (contemporanea) su un tema serio. Da la Repubblica del 23 gennaio 2007

Il curioso mostriciattolo (al quale nessuno augura lunga vita) uscito dalla Commissione senatoriale, in tema di cognomi, invita a riflettere sul significato e la storia di un istituto secolare connaturato al nostro vivere come lo sono il giorno e la notte. Secondo la proposta, i genitori hanno quattro possibilità: imporre al figlio il cognome del padre, o quello della madre, o ambedue in ordine padre-madre, o madre-padre. Poiché i figli, i nipoti, e gli altri discendenti potrebbero fare, a loro volta, difformi libere scelte, il percorso generazionale diventerebbe una gimkana onomastica della quale non si capiscono né il significato né l’utilità. Eppure nel mondo occidentale - e in paesi all’avanguardia nella tutela dei diritti individuali - convivono senza traumi sistemi distinti nella trasmissione del nome: gli islandesi danno ai figli un cognome formato dal nome di battesimo del padre e da un suffisso che significa "figlio di" o "figlia di"; gli anglosassoni impongono il nome del padre (la madre già ha perduto il suo cognome col matrimonio, assumendo quello del marito); in area ispanica e portoghese i figli hanno il doppio cognome, in ordine padre-madre nella prima e madre-padre nella seconda. L’ansia omologatrice dell’Unione europea, per fortuna, non si è ancora intromessa in questo delicato campo.

La storia del cognome - come identificativo di una famiglia e di una discendenza - è di grandissimo interesse sociale. Nel medioevo, smarrita la tradizione romana di indicare con nomi diversi l’individuo, la sua famiglia e la gens di appartenenza, la persona era normalmente identificata con un nome imposto al momento del battesimo. Questo era sufficiente in società poco strutturate, con popolazioni disperse, radi insediamenti, modeste città. Tuttavia questo semplice sistema diventa inadeguato alla fine del primo millennio quando la società ricomincia a crescere, sviluppandosi demograficamente, culturalmente ed economicamente. Comincia a farsi necessaria l’identificazione non equivoca delle persone, per l’applicazione delle norme giuridiche, per far funzionare la giustizia e l’amministrazione, per le transazioni economiche, i passaggi di proprietà, gli atti di successione. Necessità tanto più sentita in quelle società nelle quali il numero dei nomi utilizzati al battesimo era ristretto e le omonimie frequenti; necessità ineludibile man mano che cresceva la popolazione e si sviluppavano i centri urbani. Nelle classi nobiliari e aristocratiche si diffonde il desiderio di affermare l’identità della discendenza con un nome fisso e non con una complicata successione genealogica di individui. Questi sono identificati da un nome personale e da un cognome che riassume l’ascendenza, identifica la famiglia di appartenenza e viene trasmesso in via ereditaria. Un processo lungo e graduale che si diffonde lentamente nell’arco di un millennio.

In Toscana, l’uso dei cognomi diventa frequente nel XII secolo tra le grandi famiglie urbane, spesso di origine feudale; così in Piemonte e nelle Venezie. Anche in Francia, in Germania e in Inghilterra il processo inizia nell’XI o nel XII secolo. Più a nord, nell’Europa scandinava, l’utilizzo di un cognome (patronimico) stabile si afferma nel XVIII secolo, mentre ancor oggi in Islanda (come si è detto) ai figli è imposto un patronimico che varia di generazione in generazione.

La diffusione del cognome, come tante altre innovazioni culturali o sociali, ebbe un gradiente economico e geografico: prima nei ceti signorili e nobili, nelle élite mercantili e borghesi, poi nel volgo e tra i contadini; prima nelle città, poi nelle campagne; prima nelle regioni ad alta densità poi nelle aree meno popolate. I due medievisti Christiane Klapisch e David Herlihy, cui si deve un monumentale studio sul Catasto del 1427, hanno trovato che il 37 per cento dei contribuenti di Firenze avevano un cognome, contro il 20 per cento nelle altre città toscane e il 9 per cento nelle campagne. Questo a conferma del gradiente geografico. Tra i 100 contribuenti più ricchi, 88 (cioè quasi tutti) avevano un cognome, mentre tra i 1493 nuclei familiari più poveri (che non pagavano tributo: oggi si chiamerebbero "incapienti") solo 176 nuclei (il 12 per cento) avevano un cognome. E questo a conferma del gradiente economico. Sempre a Firenze, secondo il censimento del 1551, solo il 32 per cento dei capifamiglia uomini aveva un cognome, ma nel 1630 la proporzione era raddoppiata al 64 per cento, e nelle strade delle zone benestanti praticamente tutti avevano un cognome. Il Concilio di Trento, e l’obbligo della tenuta dei registri parrocchiali per iscrivervi battesimi, sepolture e matrimoni, dette una spinta decisiva alla diffusione dei cognomi, anche se in certe zone (per esempio nella diocesi di Perugia) questi si affermano solo nella seconda metà del ‘700. In epoca napoleonica, il cognome fisso ed ereditario diventa un obbligo in larga parte d’Europa.

Di cognomi c’è grande varietà nel nostro paese, arricchita nel tempo da variazioni lessicali (sorta di "mutazioni") o da processi migratori. I cognomi fissi sono anche una sorta di marcatore genetico che ha permesso agli studiosi interessanti analisi di genetica delle popolazioni. Cognomi con origini spesso legate a un patronimico; oppure al mestiere o alla professione esercitati; o alla toponomastica e all’origine geografica; o ancora a particolari caratteristiche personali (un difetto o una qualità fisica, o del carattere) di un qualche capostipite. Un terreno fertile di ricerca per i linguisti.

A volere essere cinici, potremmo dire che nell’era dell’informatica non c’è più bisogno del cognome fisso. La prima missiva che ogni neonato riceve proviene dall’agenzia delle entrate, e contiene il tesserino di plastica verde col codice fiscale. Si possono facilmente creare appositi algoritmi per collegare i vari codici personali in famiglie, discendenze, gruppi. Perché dunque aggrapparsi alla tradizione del cognome? Perché non permettere a ciascuno di identificarsi come meglio crede? In questa luce la proposta-mostriciattolo potrebbe anche essere tollerata. Eppure ha un senso dare un’identificazione alla discendenza familiare, per sottolinearne la continuità o affermare l’appartenenza. Che sarebbe compromessa dal cervellotico sistema proposto.

La legge italiana prevede saggiamente che la donna sposata conservi il suo cognome. Sembra sensato sperare che rafforzi la propria saggezza, disponendo che ai figli vengano trasmessi, come è giusto, entrambi i cognomi. E che l’ordine sia fisso, e una volta per tutte si decida se si vuol stare dalla parte degli spagnoli o dei portoghesi, dando il primo posto al cognome del padre come è tradizione dei fieri castigliani o cedendo cortesemente il passo alla madre secondo l’amabile usanza lusitana.

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