Il «silenzio-assenso» è diventato Codice: l’articolo di legge che prevede che un bene di valore storico, artistico, culturale, possa essere venduto se in un certo termine di giorni (centoventi complessivi, dall’istruzione della pratica) la Sovrintendenza non appone su esso un vincolo motivato, quella norma che Tremonti aveva infilato all’articolo 27 del decretone allegato alla Finanziaria, e che era stata giudicata l’ennesimo, raccapricciante, «colpo di genio» di un ministro che pensa solo a fare cassa, ora è il principio che informa la tutela del nostro patrimonio artistico. Il Consiglio dei Ministri, venerdì, ha aggiunto il «silenzio-assenso» al corpus del nuovo Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici. La notizia è stata data ieri sera al Tg3 da Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa, autore prima di un allarmato pamphlet, diventato successivamente consigliere del ministro Urbani.
Perché affidarsi a una fonte, dunque, non ufficiale benché assolutamente autorevole? Perché, come scrivevamo ieri, il nuovo Codice è ancora per larghi aspetti un Ufo: il testo definitivo sarà reso pubblico solo dopo la firma del Presidente della Repubblica. Ma l’iter anomalo (in diciotto mesi la bozza non è stata mai sottoposta al Consiglio dei beni culturali, né a sindacati e associazioni di tutela, mentre un testo «definitivo» arrivò in dicembre alle Camere senza essere stato ancora discusso dalla Conferenza Stato-Regioni), e le infinite bozze diverse che intanto hanno circolato in modo ufficioso, rendevano plausibile che anche all’ultimo - lì in Consiglio dei ministri - si verificasse un colpo di scena. Dunque, ha vinto Tremonti. Dal ministero dell’Economia potrà arrivare la richiesta di vendere questo o quello, elenchi interi di pezzi del nostro patrimonio collettivo, e le già stremate Sovrintendenze dovranno «farcela» a produrre un parere articolato entro i centoventi giorni dall’inizio della pratica. Se non ce la faranno, il bene sarà in vendita.
Questo, in concreto. Mentre in principio è legge, anzi è scritto nei Dieci Comandamenti, che il tesoro del Bel Paese è un tesoro da Paperoni, è oro, sono soldi. Ma c’è stato un vero duello tra Tremonti e Urbani? Il Codice nasce dalla delega a legiferare che il Parlamento diede al governo a luglio 2002. Delega, in principio, assai più ristretta: si chiedeva di armonizzare il Testo unico per i Beni Culturali con la riforma federalista del Titolo V della Costituzione. Col passare dei mesi, la delega s’è ingrassata e ha preso piede la voglia di riscrivere da capo le norme in campo di tutela e valorizzazione dei beni culturali, storici, artistici e paesaggistici: insomma, la legge delega è diventata un «Codice». Il ministro dei Beni Culturali formalmente in carica, Giuliano Urbani, ne ha parlato più volte, intanto, come della sua «arma segreta» contro i disastri che intanto nel suo giardino, con Patrimonio s.p.a., con i condoni, con l’articolo 27 del decretone, andava combinando l’«altro» ministro, quello vero, Tremonti.
Il Codice è arrivato in dicembre alle Camere per un voto che, trattandosi di una legge-delega, era solo consultivo. In commissione, a Palazzo Madama, non solo la minoranza, ma anche la maggioranza, esprime forti critiche su quell’articolo 27 che Tremonti ha varato nel frattempo. Alla Camera la relazione di minoranza chiede l’abrogazione secca della norma Tremonti. Il relatore di maggioranza, Orsini (Forza Ialia) sceglie questa formulazione: «Per quanto riguarda la questione della verifica dell’interesse culturale dei beni soggetti a tutela, intende sottolineare ... che il testo del codice in esame appare sicuramente preferibile rispetto a quello dell’articolo 27 del decreto legge n. 269 del 2003». Così com’è, il Codice insomma, a parere della stessa maggioranza, è meno disastroso della norma Tremonti.
Il seguito, però, c’era da aspettarselo. Il 13 gennaio lì in Commissione infatti parla il ministro Urbani che, disarmante, ricorda che «le norme sul silenzio-assenso sono state introdotte per ragioni di carattere prevalentemente finanziario», che quindi, visto che Tremonti gli ha scippato i beni che sono la ragione sociale del suo ministero, «è in corso un confronto con il ministero dell’Economia» per vedere se l’abrogazione sia fattibile. Ma, aggiunge: «La stessa norma sul silenzio-assenso può svolgere, paradossalmente, un ruolo di rafforzamento dei livelli di tutela, costituendo uno stimolo per l’implementazione delle procedure di catalogazione e censimento dei beni culturali pubblici che costituisce una precondizione essenziale per garantirne la tutela». L’eloquio è petrolinesco, la sostanza è chiara: il ministro per i Beni culturali è pronto a farsi scrivere anche un pezzo cardine del «suo» Codice dal collega dell’Economia.