«Spalanca, spalanca» . Al piano nobile del castello di Camigliano risuona un pianoforte. Gualtiero Ghezzi, padrone di casa, guarda verso Montalcino. «Apri le finestre, tutti devono sentire» . Dieci metri più sotto, le note rompono il silenzio del borgo di Camigliano, entrano nelle case dei 36 abitanti, con i ragazzi che giocano ancora alla ruzzola a corda. Ghezzi è l’ultimo feudatario d’Italia. Un caso più che una scelta. Nel borgo semideserto, lui nel castello, i 36 attorno alle mura, si occupa dei destini incrociati degli abitanti. Distribuisce lavoro e, a date fisse, svago.
Tutti o (quasi) sono impiegati nella sua azienda agricola che con il borgo si identifica (e viceversa). Una volta l’anno Ghezzi chiude il paese e porta tutti in gita. Pranzo, discorso, generose sorsate di vino del podere. A Natale invita i paesani a pranzo. Sembra un borgomastro. Non eletto, ma designato in quanto possessore della terra. «Chiedono e io faccio — racconta l’ex ingegnere milanese trasformato in vignaiolo— organizzo lo scuolabus per Montalcino, decido che fare se l’unico negozio di alimentari chiude per anzianità dei proprietari (lo acquisto e trovo una famiglia di giovani per riaprirlo).
«Quando il padre di Gualtiero, Walter Ghezzi, arrivò qui da Milano — racconta la moglie Laura — c’erano solo maiali e mucche chianine. Era il 1957, due anni dopo vennero impiantati i primi vigneti di Sangiovese, che qui si chiama, appunto, Brunello. I Ghezzi si innamorarono di queste colline e dell’abbazia di Sant’Antimo, dove si celebra (e si canta) ancora con il rito gregoriano» . I vitigni sono stati recuperati fino a coprire 92 ettari dei 530 della proprietà, la vecchia cantina è stata ricostruita sotto terra per non ostacolare lo sguardo dal paese verso il bosco. Sono arrivati nuovi tini d’acciaio a temperatura controllata accanto alle botti in rovere di Slavonia da 25 a 60 ettolitri. E il vino viene lavorato con uno speciale metodo, a caduta.
«Per non farlo stressare» , spiega il produttore-ingegnere. Così il Brunello di Camigliano si è, poco a poco, affermato sul mercato. Fino a far scrivere al critico Luca Maroni, nell’annuario dei vini 2010, che il Brunello Gualto 2003 è «di intesa fragranza mentosa dell’aroma, violacemente balsamico, suadentemente armonioso, uno dei migliori del millesimo e di sempre» . «Far funzionare questa azienda è il modo per non far morire il borgo, senza di noi si svuoterebbe in fretta» , dice sicuro Gualtiero Ghezzi.
Ora le casette in pietra rimaste vuote vengono affittate ai turisti. È anche stato aperto un piccolo ristorante da una giovane coppia. C’è un sacerdote part time a Camigliano: arriva in Ape, confessa, benedice, poi chiude e se ne va. La chiesa ha la forza di una parabola: c’è una porta d’ingresso per i battesimi, l’altra per l’ultima uscita, il funerale. Una strage di pennuti, chiamata sagra del galletto, nella prima settimana di ottobre, è il solo evento plebeo del borgo, con tavolate e giochi d’altri tempi. La coppia dei neofeudatari, come impone il ruolo, apre il castello agli artisti. Fino a qualche anno fa chiamava a rapporto ogni anno un gruppo di disegnatori che esponevano i loro lavori tra satira e storia locale. Poi venivano organizzate rassegne di arte contemporanea. In quelle occasioni la cantina diventa una galleria.
È la signora del castello a mettersi al lavoro per sfamare ospiti e artisti con i piatti della tradizione, la ribollita e la bistecca alla fiorentina. I neofeudatari non hanno personale di servizio. «Ci aiutano le donne del paese, come gli uomini nei campi» . La visita in cantina inizia con le lodi di Ghezzi al Moscadello, rinascimentale vitigno citato dal poeta Redi nel suo «Ditirambo» . Poi il tesoro: 160 mila bottiglie di Brunello ottenute in 50 ettari tra le crete senesi. L’annata del 2006 del Camigliano dei castellani ha ottenuto 92 punti su 100 pochi giorni fa dagli americani di Wine Enthusiast, e ieri è stata presentata al Four Seasons di Milano con sette stelle del Brunello di Montalcino (Castello Banfi, Castello Romitorio, Col d’Orcia, Marchesato degli Aleramici, Mastrojanni, Siro Pacenti, Tenute Silvio Nardi).
Vigne, ulivi e il bosco padronale, non c’è altro per chilometri attorno al borgo. Il paese-azienda è un insieme di nuovo e antico: tutto sembra continuare da secoli, riti medievali compresi. Invece, almeno per l’economia delle vigne, tutto è cambiato. Il Brunello di Montalcino è un vino dell’età moderna. Dal 1870 fino agli anni Cinquanta c’era un solo produttore, Biondi Santi. «Quando siamo arrivati parte del castello era in rovina e nei campi servivano grandi investimenti» , raccontano i Ghezzi. Mezzo secolo dopo il castello, e il Brunello, hanno salvato il borgo.
Nota: non è certo questo modello neofeudale a ispirare i protagonisti di una vicenda simile ma al tempo stesso assai diversa, come quella raccontata nel film Langhe Doc da Paolo Casalis (f.b.)