1. Dall’Unità d’Italia alla caduta del fascismo
1.1. I primi provvedimenti
L’Italia unita tarda a dotarsi di norme per la tutela dei beni culturali e del paesaggio, e ciò è dovuto non tanto alla difficoltà di definire gli oggetti da salvaguardare quanto alla concezione integralistica della proprietà, a quel tempo ancora prevalentemente considerata jus utendi atque abutendi. Secondo Giuseppe Galasso, è solo nel periodo giolittiano che la necessità di provvedere alla tutela si traduce in iniziative legislative, “in quel periodo, cioè, della sua storia nazionale in cui l’Italia varcò molte frontiere della modernità e dei congiunti progressi, a cominciare da quella di un definitivo decollo quale paese industriale”.
In effetti, la prima legge per la protezione del territorio è quella (n. 411), approvata nel 1905, quarantacinque anni dopo l’Unità d’Italia, che riguarda solo la conservazione della Pineta di Ravenna. Una legge fortemente voluta da Luigi Rava, a quel tempo ministro dell’Agricoltura, industria e commercio, e subito dopo ministro della Pubblica istruzione. Nel 1909 ancora una legge parziale (364/1909) per la tutela delle antichità e belle arti, approvata dal Senato con l’eliminazione dei riferimenti alle bellezze naturali com’era stato richiesto dal ministro Rava.
Soltanto nel 1922 (sono passati 62 anni dall’Unità) vede la luce la legge generale (n. 788) per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico, che resta in vigore fino al 1939. Il decreto legge che l’aveva preceduta era stato presentato due anni prima da Benedetto Croce, ministro della Pubblica istruzione nell’ultimo governo Giolitti (1920 – 1921), il quale, tra l’altro, aveva messo in luce “che anche il patriottismo nasce dalla secolare carezza del suolo agli occhi, ed altro non essere che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, i quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli”. Il contenuto della legge del 1922 (solo sette articoli contro i 184 del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2008) è ben sintetizzato dal suo primo articolo: “Sono dichiarate soggette a speciale protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche”. Sono evidentemente tutt’altro che facili la distinzione fra la bellezza naturale e quelle panoramiche, oltre che il riconoscimento del carattere “notevole” e “pubblico” dell’interesse alla protezione. Di ciò si discusse lungamente negli anni successivi.
1.2. Urbanistica e tutela. Il disegno di legge Di Crollalanza.
Nel 1933 fu elaborato, per iniziativa del ministro dei Lavori pubblici Araldo Di Crollalanza, un disegno di legge urbanistica che prevedeva, fra i contenuti dei piani regionali, anche appositi vincoli per la tutela delle bellezze artistiche o panoramiche. Quella proposta non fu approvata per l’opposizione della federazione nazionale fascista della proprietà edilizia, e per quasi un decennio la nuova legge urbanistica fu accantonata. Ma la necessità che la pianificazione urbanistica comprendesse la tutela continuò a essere presente nel dibattito di quegli anni. Nel 1938, su «Urbanistica», rivista dell’Istituto nazionale di urbanistica (Inu), Virgilio Testa sostiene che: “La tutela delle bellezze panoramiche deve essere […] non l’elemento unico per la formazione di un piano regolatore paesistico ma uno degli elementi certo fra i più importanti in determinate località, per la disciplina integrale, dal punto di vista urbanistico, di zone più o meno vaste di territorio. La tutela delle bellezze panoramiche deve essere, cioè, inserita fra gli scopi da raggiungere attraverso la formazione di quei piani regolatori che fuori d’Italia hanno preso il nome di «piani regionali», e che tendono appunto alla disciplina integrale di zone più o meno vaste di territorio, avuto riguardo alla tutela del panorama, al miglioramento del traffico, all’impianto e perfezionamento dei servizi pubblici, alla zonizzazione, alla creazione di nuovi aggregati edilizi, ecc.”. Analoghe proposte sostenne Gustavo Giovannoni nel successivo fascicolo di Urbanistica.
1.3. Giuseppe Bottai e la legge n. 1497/1939
Prima che si concludesse il dibattito sulla legge urbanistica, fu però approvata la legge 1497/1939, sulla “protezione delle bellezze naturali”, subito seguita dal regolamento d’attuazione approvato con regio decreto (n. 1357/1940). La nuova legge, fondamentale e di lunga durata, dovuta in particolare all’impegno del ministro Giuseppe Bottai, riprende in parte i principi e le formulazioni della legge del 1922, aggiungendo peraltro l’importante distinzione fra le “bellezze individue” e le “bellezze d’insieme” Ma il pregio indiscutibile e l’originalità assoluta della legge 1497 sta nella previsione della pianificazione paesistica. Infatti l’art. 5, attribuisce al ministro dell’Educazione nazionale la “facoltà di disporre un piano territoriale paesistico”, volto a impedire un’utilizzazione pregiudizievole alla bellezza panoramica delle località vincolate dalla medesima legge. La relazione al disegno di legge (a firma del ministro Bottai), pone in evidenza il fatto che “la vigente legge non conosce i piani territoriali paesistici e quanto ai piani regolatori urbani detta una norma affatto insufficiente”.
La successiva legge urbanistica (n. 1150/1942) è conseguentemente priva di norme di tutela e regola solo le espansioni e le trasformazioni urbane. Detta legge, nonostante sia stata più volte oggetto di modifiche e integrazioni (cfr. successivo paragrafo 2.2), è anch’essa di lunga durata e tuttora in vigore. Un tentativo di radicale riforma fu tentato nei primi anni Sessanta per iniziativa del ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo, democristiano, sconfessato però del suo partito la proposta finì su un binario morto.
Con la legge sulle bellezze naturali del 1939 e quella urbanistica del 1942 si istituì la distinzione fra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche, una separazione che, nel bene e nel male, opera da settanta anni e caratterizza tuttora l’assetto dei poteri pubblici in materia di organizzazione del territorio.
Restano da ricordare le leggi relative ai primi parchi nazionali – Gran Paradiso (1922), Abruzzo (1923), Circeo (1934) e Stelvio (1935) – che, per ragioni di spazio, non sono oggetto della presente nota. Esse tuttavia testimoniano l’attenzione in quegli anni per la protezione della natura, ove si consideri che il primo parco nazionale istituito dopo il fascismo è quello della Calabria del 1968.
2. Dalla Costituzione repubblicana al Codice del 2008
2.1. L’art. 9 della Costituzione
Com’è noto, fra i 12 articoli della Costituzione relativi ai principi fondamentali è compreso l’articolo 9 (“La repubblica promuove lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). La repubblica italiana fu il primo Stato al mondo a considerare nella propria costituzione la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio. È impossibile fermarsi qui sull’importanza di quella decisione e si rinvia all’ultimo libro di Salvatore Settis.
Si deve invece osservare che il dettato costituzionale è restato per anni dimenticato e negletto. Anche i piani paesistici sono stati trascurati. A parte il piano paesistico dell’Isola d’Ischia, approvato nel 1943, negli ultimi mesi del fascismo, nel dopoguerra, prima della legge Galasso (1985) sono stati approvati solo 12 piani paesistici: S. Ilario di Genova-Nervi (1953), Osimo (1955), Monte di Portofino (1958), Appia Antica (1960), Versilia (1960), Gabicce Mare (1964), Argentario (1966), Sperlonga (1967), Assisi (1969), Ancona Portonovo (1970), Procida (1971), Terminillo (1972). Sono piani paesistici molto diversi da come li immaginiamo oggi. Alcuni sono limitati a minuscole porzioni di spazio: quello della zona di via Cinque Torri e via Leopardi in comune di Osimo, interessa appena 6 ettari, una specie di piano particolareggiato. Pessimo – come vedremo – il piano dell’Appia Antica, in effetti un vero e proprio programma di devastazione, che prevedeva nuova edilizia per milioni di metri cubi, fatta salva un’esigua fascia di rispetto a cavallo della regina viarum. Altri piani paesistici, invece, pur se in forma rudimentale, prevedevano norme drastiche, rigidissime. Il piano dell’Isola d’Ischia, approvato nel 1943, progettista Alberto Calza Bini, imponeva l’inedificabilità lungo quasi tutta la costa e nel nucleo interno dell’Isola. La metà circa delle aree edificabili consentiva indici di copertura molto bassi. È appena il caso di ricordare che quel piano è stato del tutto disatteso e, com’è noto, l’Isola d’Ischia, dopo la seconda guerra mondiale, è stata massacrata dalla speculazione edilizia legale e abusiva, nel sostanziale disinteresse delle amministrazioni comunali, regionali e statali. Analoga la sorte degli altri piani, approvati e sepolti nei cassetti ministeriali.
Esiste poi una sorta di seconda generazione di piani paesistici, quelli promossi nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso dalla Cassa per il Mezzogiorno con il lodevole intento di proteggere i 29 comprensori di sviluppo turistico individuati dalla stessa Cassa nei più bei luoghi del Mezzogiorno. Sono stati definiti “piani interrotti”, perché oggetto di lunghe, complesse, talvolta apprezzabili soluzioni, ma nessuno di essi è mai stato approvato.
2.2. La tutela nella pianificazione urbanistica
Il doppio regime. Abbiamo visto che in Italia, in materia di organizzazione del territorio, operano due regimi distinti: quello specifico delle tutele, che fa capo alla legge del 1939 e il regime delle trasformazioni urbanistiche, che fa capo alla legge del 1942 e ai successivi precetti statali (e poi regionali). Ma nel dopoguerra la disciplina urbanistica si è a mano a mano arricchita di contenuti fino a comprendere la salvaguardia dell’integrità fisica e dell’identità culturale. Tant’è che, talvolta, come vedremo, la strumentazione urbanistica è stata più efficace di quella specialistica ex lege 1497/1939.
In questo processo evolutivo è stata fondamentale la cosiddetta legge ponte (n. 765/1967), che include fra i contenuti propri del piano regolatore generale “la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici” (per la prima volta la parola “paesaggio” ex art. 9 della Costituzione è ripresa da una legge ordinaria). La legge ponte fu voluta da Giacomo Mancini, ministro dei Lavori pubblici negli anni del primo centro sinistra, per rispondere all’indignazione provocata dalla frana di Agrigento del luglio 1966 causata dall’immane sovraccarico dell’edilizia speculativa. Fu definita “ponte” perché doveva rappresentare un rimedio provvisorio, nell’attesa di un organico provvedimento di riforma urbanistica (quello che stiamo ancora aspettando).
Dieci anni dopo, il decreto presidenziale (616/1977) che regola il trasferimento delle funzioni dallo Stato alle Regioni definisce all’art. 81 la materia urbanistica come “la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente” (definizione di Massimo Severo Giannini).
La tutela dell’Appia Antica. L’obbligo o la facoltà di tutela da parte degli strumenti urbanistici non sono stati soltanto riconosciuti legislativamente, ma anche, come ricordato prima, ripetutamente utilizzati nella pratica della pianificazione. Solo qualche esempio. Il caso certamente più importante è quello del piano regolatore di Roma approvato dal ministero dei Lavori pubblici nel 1965 (non erano state ancora istituite le Regioni a statuto ordinario). Il decreto ministeriale di approvazione introdusse, per “preminenti interessi dello Stato” una strepitosa modifica al piano adottato, sottoponendo a tutela, e quindi destinando a parco pubblico, oltre duemila ettari dell’Appia Antica e della campagna circostante, da porta San Sebastiano al confine comunale. Ai fini del nostro discorso, va soprattutto messo in evidenza che con il decreto di approvazione del piano regolatore furono eliminate le possibilità edificatorie consentite invece dal già citato pessimo piano paesistico dell’Appia Antica del 1960.
Fra gli esempi illustri di urbanistica sposata alla tutela, si devono ricordare ancora almeno il piano regolatore di Firenze del 1962 (sindaco Giorgio La Pira, assessore all’urbanistica Edoardo Detti) che, tra l’altro, impose la tutela delle colline che racchiudono la città; e poi i piani coordinati dei comuni della maremma livornese dei primi anni Sessanta del secolo passato. E, ancora, Ferrara, la sua prodigiosa “addizione verde”, prevista dal piano regolatore del 1975, più di mille ettari fra la cinta muraria e il Po, destinati a formare un gran parco urbano come parte integrante del centro storico. Infine, mi permetto di menzionare il nuovo piano regolatore di Napoli, approvato nel 2004, che ha sottratto all’edificazione, per ragioni di tutela, quanto resta del territorio comunale non coperto di cemento e di asfalto nei decenni precedenti.
La tutela dei centri storici. La legge ponte del 1967 va ricordata anche per aver imposto un’appropriata tutela dei centri storici, riprendendo di fatto il principio dell’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici definito nella cosiddetta ‘Carta di Gubbio’ approvata per iniziativa dell’Associazione italiana centri storici (Ancsa) nel convegno che si tenne nel 1960 nella città umbra. Riguardo ai centri storici, la legge ponte subordina, di fatto, ogni intervento di sostanziale trasformazione all’approvazione di piani particolareggiati. Una soluzione all’apparenza precaria e semplicistica che però, con il passare degli anni, si è dimostrata di eccezionale efficacia. Tant’è che l’Italia è l’unico paese d’Europa che ha in larga misura salvato i propri centri storici. Certamente, nessuno può sostenere che nel nostro paese la tutela del patrimonio immobiliare d’interesse storico sia garantita in modo soddisfacente, ma certamente non sono più all’ordine del giorno gli episodi di gravissima alterazione, se non di vera e propria distruzione, che avvenivano frequentemente nei primi lustri del dopoguerra.
Specialmente dopo l’approvazione della legge ponte, i centri storici sono stati più volte oggetto di studio, di politiche e di interventi di salvaguardia nell’ambito della pianificazione urbanistica, mentre sono meno frequenti le proposte di conservazione promosse dai titolari di specifiche competenze in materia di tutela. È noto, infatti, che solo alcuni centri storici sono integralmente sottoposti alle leggi del 1939.
La distinzione fra legislazione di tutela e legislazione urbanistica ha retto al trascorrere degli anni, nonostante alcuni tentativi di superamento. Riguardo ai quali mi limito solo a citare i lavori della commissione cosiddetta Franceschini, dal nome del suo presidente, Francesco Franceschini, istituita nel 1964, con l’obiettivo di formulare proposte per la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico, artistico e paesistico. Circa gli strumenti di intervento, è indubbio ed esplicito l’orientamento della commissione a ricondurre gli obiettivi della tutela e dei valori culturali nell’ambito dell’ordinaria pianificazione urbanistica, assicurando peraltro la concorrenza dei poteri statali e specialistici nelle procedure ordinarie. Alla commissione Franceschini fece seguito la commissione presieduta da Antonino Papaldo che similmente propose di collocare la tutela nell’ambito dell’ordinaria pianificazione urbanistica, precisando che le determinazioni dell’amministrazione dei beni culturali sono però prevalenti su ogni altra. Anche le risultanze della commissione Papaldo, come quella della precedente commissione Franceschini, non produssero alcun effetto concreto.
Vanno ricordate infine le sentenze della Corte costituzionale n. 55 e n.56 del 1968. Con la prima fu stabilito il carattere “espropriativo” (e perciò da indennizzare) dei vincoli di natura urbanistica, quelli cioè che individuano la aree destinate a servizi; con la seconda fu confermata invece la non indennizzabilità dei vincoli a tutela del paesaggio. L’orientamento della Corte è stato ribadito da altre sentenze negli anni successivi.
2.3. L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario
Le Regioni a statuto ordinario furono istituite nel 1970 e due anni dopo avvenne l’effettivo trasferimento dallo Stato dei poteri previsti dall’articolo 117 della Costituzione. Le competenze in materia di urbanistica furono trasferite con il Dpr n. 8/1972 che, al secondo comma, prevede che il trasferimento “riguarda altresì la redazione e la approvazione dei piani territoriali paesistici di cui all’articolo 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497”. Trasferimento, quest’ultimo, rimasto del tutto ignorato e infatti non risultano piani paesistici approvati dalle Regioni prima della legge Galasso.
2.4. La legge Galasso
Inaspettatamente, la legge Galasso (n. 431/1985, che sostituisce il precedente decreto ministeriale, a firma del sottosegretario per i Beni culturali e ambientali Giuseppe Galasso) interrompe nove lustri di inerzia politica e legislativa in materia di tutela e pianificazione del paesaggio. Com’è noto, la legge integra gli elenchi delle bellezze naturali e d’insieme della legge 1497 con alcune categorie di beni (dai territori costieri alle zone d’interesse archeologico) ope legis assoggettati a vincolo paesaggistico. La tutela non è più puntiforme ma si estende alla globalità del territorio. La pianificazione paesistica non è più discontinua e facoltativa ma assume carattere strutturale e diventa obbligatoria. L’art. 1 bis della legge dispone infatti che le Regioni “sottopongono a specifica normativa d’uso e di valorizzazione” i territori dei beni vincolati “mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali da approvare entro il 31 dicembre 1986”. I “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” sono una importante novità a favore dell’inserimento della tutela fra i contenuti dei piani urbanistici ordinari, ritenendo quindi ammissibile la rinuncia a una pianificazione specializzata alla tutela del paesaggio.
Ma i risultati della legge Galasso sono deprimenti. A parte le province autonome di Bolzano e di Trento che tutelavano il paesaggio con approfonditi ed efficaci provvedimenti ancor prima della legge 431, entro la scadenza del 31 dicembre 1986 nessuna Regione disponeva di piano paesistico né di piano urbanistico-territoriale ad hoc. Solo quattro Regioni – Emilia Romagna, Liguria, Marche, Val d’Aosta – si dotarono di un piano paesistico in tempi accettabili. Altre Regioni provvidero in ritardo. Il Veneto fu la prima Regione, seguita da Piemonte e Venezia Giulia, che intraprese la strada del piano urbanistico territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici. Storicamente inadempienti Sicilia e Calabria.
In verità, un bilancio puntuale e significativo della legge Galasso è privo di senso e probabilmente inutile. L’assenza di indirizzo e coordinamento dell’azione regionale, la conseguente vistosa differenza dei comportamenti regionali sotto ogni punto di vista (di procedure, di merito, di scala degli elaborati, di caratteri dei vincoli e delle prescrizioni, di categorie dei beni interessati) ha determinato che ogni piano costituisce in effetti un caso a sé.
2.5. Le altre leggi di tutela (e di rinuncia alla tutela)
Come si è detto, nella presente nota, per evidenti ragioni di spazio, non possiamo trattare delle leggi che tutelano l’integrità fisica del territorio: dalle leggi n. 183/1989 per la difesa del suolo e n. 394/1991 sulle aree protette, alle leggi istitutive dei nuovi parchi regionali, a quelle per la protezione dell’ambiente, la sicurezza sismica, eccetera. Mi limito a osservare che le nuove leggi statali specialistiche e di settore che si sono moltiplicate a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso (insieme a un numero indefinito di norme regionali), hanno generato una molteplicità di nuovi piani che hanno modificato radicalmente il quadro concettuale e operativo della pianificazione del territorio in assoluta assenza di principi generali e di coordinamento (legge cornice sul regime dei suoli o simili). Si è perciò configurata una situazione normativa tanto complicata quanto insoddisfacente. All’intricata trama di perimetri e di poteri non corrispondono quasi mai coerenti e coordinate scelte di piano, ma un coacervo disarticolato di divieti e di prescrizioni prevalentemente transitorie. Tutto ciò ha contribuito ad alimentare l’insofferenza per qualsiasi forma di pianificazione, agevolando, di fatto, la proliferazione di quelle norme statali e regionali di natura derogatoria, “eversive” degli ordinamenti fondamentali che, proprio a partire dagli anni Ottanta, si sono moltiplicate in forma vertiginosa e devastante. Per non dire delle leggi di condono edilizio – tre in diciotto anni (1985, 1994, 2003) – e delle leggi statali e regionali relative al cosiddetto “piano casa” che rendono disonorevole la condizione italiana nel panorama europeo.
2.6. Il Codice del paesaggio
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, emanato nel 2004 (e definitivamente approvato nel marzo del 2008), non introduce sostanziali novità, e la struttura normativa resta fondata sul doppio riferimento alla legge 1497 e alla legge Galasso. Apprezzabile la definizione del paesaggio tutelato dal Codice (che riprende i concetti espressi da Benedetto Croce nel 1920), “relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (art. 131, c. 2). Ottimo il netto assoggettamento della valorizzazione alla tutela (art. 131, c. 5). Rispetto a precedenti stesure, risulta anche opportunamente stemperata la connessione con la Convenzione europea del paesaggio (cfr. successivo paragrafo 2.7).
Inedito e pregevole l’art. 145 (c. 1) che recita: “La individuazione da parte del Ministero delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, costituisce compito di rilievo nazionale, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali”. Ritorna il lessico del celebrato e colpevolmente disatteso art. 81 del Dpr 616/1977, che prevedeva la funzione centrale di indirizzo e coordinamento in materia di urbanistica. Le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ai fini della tutela del paesaggio restano però una pura dichiarazione d’intenti, in assenza di ogni determinazione organizzativa volta a dotare il ministero delle indispensabili risorse professionali e materiali per garantire concretezza all’azione d’indirizzo. A ciò si aggiunga la drastica riduzione del bilancio ministeriale, il progressivo invecchiamento e la diminuzione del personale, la sottovalutazione del paesaggio nella riorganizzazione degli uffici dirigenziali, e infine la manifesta ostilità governativa nei confronti della pianificazione. D’altra parte, non inducono all’ottimismo l’inconsistenza, meglio sarebbe dire l’inutilità, delle convenzioni finora stipulate fra ministero e regioni (Toscana, Campania, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Lazio, eccetera) per i piani paesaggistici, unitamente all’assoluta inerzia regionale.
Un inaccettabile passo indietro rispetto a precedenti stesure del Codice sta nella delimitazione del territorio oggetto del piano paesaggistico elaborato congiuntamente da Stato e Regioni. Prima dell’accordo con le Regioni, l’area di piano coincideva con “l’intero territorio regionale”. Il testo definitivamente approvato, assume invece come area di piano quella limitata “ai beni paesaggistici” (art. 135, c. 1), e cioè agli immobili vincolati a norma delle leggi del 1939, alle categorie della legge Galasso e alle loro integrazioni. Non è difficile intendere che in tal modo risulterebbe velleitario e astratto, quand’anche effettivamente praticato, l’obiettivo del citato art. 145: che senso ha che il ministero individui le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, se la pianificazione paesaggistica di cui può occuparsi il medesimo ministero comprende solo i beni vincolati?
A fronte della complessiva labilità della pianificazione paesaggistica prevista dal Codice, risulta probabilmente superflua la minuta, disordinata, faticosa articolazione dei contenuti. Sostanzialmente inutile il riferimento ai centri e ai nuclei storici di cui tratta l’art. 136, c. 1, lett. c), argomento già affrontato dal regolamento del 1940 di attuazione della legge 1497 e spesso oggetto di pianificazione ad hoc. In realtà, si è persa l’occasione per allestire finalmente un’efficace normativa nazionale per i centri storici. Walter Veltroni, da ministro dei Beni culturali, propose un ottimo disegno di legge che prevedeva un vincolo di tutela ope legis per i centri storici, come definiti dai piani regolatori, proposta poi ritirata dallo stesso proponente per le resistenze dei portatori di interessi colpiti.
Nell’ottobre del 2010, l’associazione Italia Nostra ha pubblicato un primo rapporto nazionale sulla pianificazione paesaggistica, dal titolo Paesaggi. La tutela negata, un documento che dà conto dello stato di attuazione del Codice. Emerge un quadro sconfortante. Solo la Sardegna, grazie alla determinazione di Renato Soru (presidente della Regione dal 2004 al 2008), dispone di un piano definitivamente approvato. In nessun’altra Regione risulta effettivamente operante l’elaborazione congiunta con lo Stato dei piani paesaggistici e il ministero non ha neppure provveduto a definire i criteri uniformi per la redazione degli accordi di pianificazione.
2.7. La Convenzione europea del paesaggio
Secondo la Convenzione europea del paesaggio, il paesaggio è “una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni”; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio “costituisce una risorsa favorevole all’attività economica” e “può contribuire alla creazione di posti di lavoro”.
Questi e altri enunciati della Convenzione non convincono, in quanto la subordinazione del valore paesaggistico alle percezioni dei cittadini direttamente interessati a eventuali trasformazioni e, ancor più, la funzionalizzazione del paesaggio allo sviluppo economico sono obiettivi evidentemente in contrasto con l’assunzione della tutela del paesaggio fra i principi della Costituzione repubblicana (art. 9) e con la tradizione della legislazione e delle politiche di settore. Insomma, almeno in teoria, nel nostro paese il paesaggio è sempre stato inteso come un valore in sé, svincolato da ogni subordinazione, soprattutto dalle convenienze locali, e quest’impianto concettuale è opportunamente ricordato in ogni occasione di dibattito su attentati alla bellezza del territorio.
Il testo completo di note e bibliografia nel file allegato