. La Repubblica, 4 novembre 2012
I flussi sono diventati un’ideologia che ha monopolizzato l’interpretazione delle cose fino a sostenere che “il mondo è piatto” Eppure resta importante approfondire i rapporti tra ambienti locali non solo per cogliere le differenze ma anche per evitare miti delle origini
Mai come in questi decenni dove tutto sembrava analogo ovunque, la scena è stata animata da rivendicazioni di diritti particolari legati alle singole zone del pianeta E i vecchi atlanti servono a spiegarne i motivi
Amore, il mondo è piatto!..Doveva essere piuttosto emozionato Thomas Friedman, effervescente star del giornalismo americano, quando una mattina d’inverno del 2004, di ritorno da Bangalore, comunicò alla moglie la sconvolgente verità. L’India gli appariva uguale all’America: stessi marchi, stessa lingua, la sensazione di appartenere a una medesima comunità universale, attraversata dal libero fluire di merci, capitali, persone, idee.
Sconvolto da tanta scoperta, che riportava la scienza a prima di Parmenide, Friedman non seppe trattenersi dal comunicarla al suo vasto pubblico. Di qui Il mondo è piatto, fortunato saggio diffuso in milioni di copie, manifesto dell’ultima ideologia del Novecento: il globalismo. Una filosofia della storia per cui spazi e frontiere non contano più, essendo l’umanità irrevocabilmente percorsa da un flusso permanente di scambi e informazioni indifferenti agli ostacoli naturali o artificiali, ai climi e alle culture. Esaltato dalla vista dei global Indians - e immune dal contatto con i tre quarti dei loro connazionali che sopravvivono con meno di mezzo euro al giorno - Friedman ci offriva la versione brillante di una teoria - il “villaggio globale” - assai diffusa nelle accademie, nei
think tank, fra i capitani d’industria del nuovo millennio. Una moda tuttora radicata e assai fungibile. Può servire, ad esempio, a seppellire con pochi onori ciò che resta del welfare europeo perché, assicura friedmanianamente Sergio Marchionne, “il mondo è piatto”.
Le ideologie sono refrattarie ai fatti. Non si curano delle repliche della storia. Sicché nello scorcio finale del secolo scorso e nei primi anni Duemila, proprio mentre fiorivano nuovi Stati, staterelli e frontiere più o meno formali — si pensi solo all’effetto moltiplicativo della disintegrazione del macroimpero sovietico e del mosaico jugoslavo — i guru del globalismo teorizzavano la “fine dello Stato- nazione” ( Keinichi Omahe) e il trionfo universale della liberaldemocrazia in quanto “fine della storia” (Francis Fukuyama). La globalizzazione come destino dell’umanità, la Rete come paradigma universale. Frutto della rivoluzione dell’informazione che ci illude di conoscere tutto subito, non importa chi e dove siamo. «Con il paradossale esito che abbiamo perduto il senso delle distanze», osserva Ilvo Diamanti nel suo nuovo sillabario, Tempi strani.
Se le distanze non esistono, a che serve la geografia? Ma finché resteremo persone fisiche e non virtuali - uomini e donne, non avatar - non potremo trovarci contemporaneamente dappertutto. Navighiamo in Internet quanto vogliamo, almeno se apparteniamo alla vasta minoranza capace di fruirne. Eppure la nostra storia, il nostro ambiente, i pregiudizi e gli schemi culturali ereditati per luogo di nascita e di educazione, continueranno ad esercitare un potente magnetismo, a condizionarci nei pensieri e nelle azioni (basta pensare alle polemiche scoppiate in questi giorni nel nostro Paese dopo la decisione di accorpare alcune Province). Di questo non sembrano perfettamente consapevoli i governi che nel festival dell’ideologia globalista hanno pensato bene di comprimere se non annullare l’insegnamento della geografia. Come per esempio i nostri. Nelle
scuole italiane questa disciplina è residuale, ancillare, quasi umiliata. Forse l’uso del Gps ci esime dalla necessità di leggere e interpretare una mappa? Nascere a Bangalore o a New York, a Roma o a Bamako, a Pechino o a Buenos Aires è davvero indifferente? Si può capire la storia di una nazione o di una civiltà senza interessarsi a dove si è svolta? Montanari e pescatori, isolani e metropolitani: tutti uguali?
No. La geografia fisica come quella antropica, lo studio della cara vecchia Terra e dei suoi variegati ambienti, la capacità di rappresentare il pianeta e le sue regioni a seconda del proprio punto di vista, riducendo le tre dimensioni a due — atto eminentemente politico — dovrebbero permanere centrali in ogni percorso pedagogico. Spalancare un atlante e seguirvi con l’indice un percorso immaginario resta un at-to creativo. Capire come funziona un vulcano non è mero esercizio tecnico, ma bagaglio essenziale per qualsiasi individuo di media cultura, specie se gravato di responsabilità pubbliche. Altrimenti la condanna degli scienziati “colpevoli” di non aver saputo prevedere il terremoto dell’Aquila non sarà più ascrivibile all’ignoranza/arroganza di questo o quel magistrato, ma assurgerà a modello giuridico. Negli ultimi tempi la retorica globalista ha cominciato a perdere colpi. E la coscienza della necessità di una cultura geografica a recuperare dignità. Persino in America. L’11 settembre ha risvegliato non solo nel manager di Manhattan ma anche nell’agricoltore del Midwest la vaga coscienza che non siamo così simili. Di più: non vogliamo affatto esserlo. L’interdipendenza che secondo i globalisti avrebbe dovuto
partorire omologazione ai valori occidentali, supposti universali, invita semmai a riscoprire identità nazionali e locali.
Mai come in questi decenni “globali” la scena strategica è stata animata dal festival dei “diritti storici” - l’idea che la legittimazione del potere politico sia fondata sul presunto radicamento di un popolo in un territorio di sua esclusiva proprietà. L’influenza reciproca non facilita la convivenza, implica semmai uno sforzo di comprensione per le ragioni altrui. Nulla di spontaneo. Una scelta che abbisogna di una cultura, anzitutto storico-geografica.
S’intravvede all’orizzonte la “rivincita della geografia”, stando al titolo del molto mediatizzato saggio di Robert Kaplan? Forse. Ma il rischio è di cadere da un determinismo all’altro. Dal mito globalista alla geografia come destino. Kaplan è l’altra faccia di Friedman. Ci riprecipita nella geografia politica tedesca di fine Ottocento, in versione liofilizzata. La pretesa di fissare le leggi della politica attraverso la geografia è altrettanto illusoria del tentativo di astrarre dallo spazio. Non sta scritto in nessun libro che uno Stato dotato dell’estuario di un fiume debba per forza volerne controllare l’intero bacino fluviale, come asserivano Ratzel e i suoi seguaci.
Globalismi, geografismi e altri determinismi continueranno a orientare il discorso pubblico, non solo nei media. A influenzare le scelte dei decisori economici e politici. Speriamo solo che negli ambiti educativi, a cominciare dalla scuola di base, possa rinascere il gusto del sapere geografico. Sapere laico, se mai ne resiste uno.