Martedì 19 ottobre, in una relativamente affollata sala cittadina monzese, a mica tante centinaia di metri dal luogo in cui è stata sciolta nell’acido una scomoda collaboratrice di giustizia, si è parlato di criminalità organizzata e territorio. Titolo ufficiale scelto dal Pd, Edilizia Inquinata: forse un pochino fuorviante visto che l’argomento è l’ormai mitico “controllo del territorio”, ma abbastanza azzeccata la composizione degli oratori. Roberto Camagni, maestro di economia urbana e di imbarazzanti comparazioni internazionali in materia di do ut des quando si trasformano pezzi di città; Serena Righini, che sta sviluppando la sua ricerca sui possibili strumenti legislativi e normativi per ammaestrare almeno in parte il cavallo imbizzarrito dell’iniziativa privata sul territorio; il giornalista Giuseppe Caruso, autore del libro dal titolo che è tutto un programma, A Milano comanda la ‘ndrangheta; e ultimo in ordine di apparizione (non certo in ordine di aspettativa) quel Pippo Civati esponente Pd che il mondo ci invidia, giovane speranza di una politica rinnovata, vicina ai bisogni reali e meno chiusa nelle stanze dei palazzi.
E tanto per cominciare, giudizio critico: mixed results, perché a usare un bel termine inglese non si sbaglia mai, o almeno se si sbaglia non se ne accorge quasi nessuno.
Insomma poteva andare meglio, perché le premesse parevano buone, visto che l’argomento criminalità e territorio al nord è saltato vistosamente in primo piano, ancora di più nella Brianza dei consiglieri comunali, provinciali, regionali indagati e intercettati, per non parlare appunto della citata poveretta sciolta nell’acido giusto dietro le linde palazzine di San Fruttuoso, frazione di Monza. L’interesse al tema era anche confermato dalla buona presenza in sala, nonché dall’attenzione e dagli interventi successivi alle relazioni ufficiali. Ma …
Ma oltre la classicissima indignazione, il non se ne può più, il bisogna girare pagina, basta tutti affanculo eccetera, magari un pochino di “coerenza scientifica” avrebbe aiutato. Si diceva sopra della buona composizione del gruppo di relatori, e proprio qui forse vale la pena di dare un’occhiata più da vicino. A partire dal fatto che la serata aveva un tema specifico, ovvero le domande implicite: quale forma di strisciante controllo del territorio sta assumendo la presenza mafiosa al nord? e cosa si può fare per evitare che quanto sta emergendo dalla cronaca scivoli poi verso l’ineluttabile destino, di trasformare anche la padania in un’area dove non si muove foglia se la criminalità organizzata non consente?
Roberto Camagni e Serena Righini questo problema se lo sono posto, eccome. Spiegando con dovizia di particolari qualche fatto, ovvero che il pertugio da cui questo nuovo inquilino si è infilato inopinatamente in “casa nostra” è una vera e propria autostrada a molte corsie. Ovvero i ponti d’oro via via costruiti dalla pubblica amministrazione agli investimenti privati sul territorio.
Che fare? Che fare, si intende, oltre a chiamare il 113, o mobilitare la magistratura ecc. Ma soprattutto, che fare oltre all’ormai altrettanto ovvia antropologia del picciotto, o considerazione sarcastica del caso sul “cancro dello Stato che si sta infiltrando nella Mafia” (è una vecchissima battuta di Paolo Rossi)?
Restando alla metafora dell’autostrada da cui ha fatto il suo ingresso nelle strategie territoriali il grande interesse privato, la soluzione si può riassumere in: non demolire l’autostrada, ma applicare un adeguato pedaggio e controllo agli ingressi. Ovvero, se con tutti i limiti dal caso non esiste alcun motivo per escludere tout court l’interesse privato da alcuni aspetti delle scelte – anche importanti – di trasformazione territoriale, occorre chiedersi come eliminare tutte le distorsioni che a monte e a valle dei processi favoriscono il degrado: del prodotto/trasformazione e del sistema di decisione che la determina.
Camagni indica nella comparazione internazionale un metodo per stabilire il “pedaggio” di ingresso: ovvero allineare la distribuzione di oneri, rischi e vantaggi della trasformazione urbanistica a quanto avviene in altri paesi, sia sul versante quantitativo che qualitativo. Ovvero, stabilendo quanto, come, e con quale livello di trasparenza e verificabilità, le operazioni sul territorio avvantaggino sia gli investitori che la collettività, visto che proprio a quest’ultima si deve l’alimentazione delle aspettative che rendono appetibile l’affare.
Righini, comparando i due circoli vizioso e virtuoso delle decisioni sul territorio, individua ancora nella trasparenza il fattore chiave discriminante fra un processo discrezionale, che produce e riproduce all’infinito distorsioni, e forme certamente non perfette, ma se non altro non sottratte al controllo, e aperte ad ulteriori e condivisi miglioramenti. È ad esempio il caso della VAS, una cui interpretazione non-bucrocratica parrebbe proprio a portata di mano, e con risultati potenzialmente clamorosi di selezione all’ingresso.
Bene, bravi, bis. Applausi in sala. La palla passa ovviamente alla società e alla politica. Ma qui a quanto pare inizia qualche imbarazzo, al momento travestito da discontinuità del racconto.
Inizia senza darlo troppo a vedere il giornalista Caruso, che leggendo qualche pur gustoso brano del suo libro, fra una intercettazione e l’altra ci racconta sì di come A Milano comanda la ‘ndrangheta, ma ahimè si muove nel solco ormai consolidato del bisogna ridere per non piangere. Non solo per incoraggiare la platea ripropone la nota tesi letteraria del criminale che diventa tale soprattutto perché è un imbecille (quindi implicitamente debole se si usa l’intelligenza), ma sostanzialmente ci porta nel mondo noir dove quello che fino a un attimo prima chiamavamo territorio, di cui ci sforzavamo di costruire mappe antropo-spaziali, diventa sfondo di battaglie più o meno sotterranee.
Ma la vera delusione, almeno rispetto alle aspettative, deve ancora arrivare. E arriva col pur interessante e argomentato intervento dell’ enfant prodige democratico Pippo Civati: che fare? al momento, boh!
Il panorama della politica, nazionale e locale, è abbastanza desolante e i buchi, sia culturali, che di attenzione, che spesso anche di decisa distanza da determinati interessi, molto vistosi. Chiarito questo, ovvero declinata in termini sereni e oggettivi quella che a livello sociale si esprime come indignazione, ci si aspetterebbe almeno in questa sede qualcosa di più. Le domande esplicite e argomentate di Camagni e Righini restano sospese nell’aria: la sede tutto sommato è politica, e alla politica toccherebbe - in un modo o nell’altro - chiudere il cerchio. Cosa che non accade, nonostante i vari interventi del pubblico (amministratori, aspiranti urbanisti, aspiranti cittadini non solo indignati) riprendano proprio i medesimi aspetti di metodo e strumenti espressi dalle relazioni introduttive.
Stanchezza? In fondo è mezzanotte, o giù di lì. O forse problemi di linguaggio più profondi del previsto. Resta più di una perplessità, si spera limitata alle sensazioni del sottoscritto, ma temo proprio di no.