Il manifesto, 3 luglio 2016 (c.m.c.)
Nessun tempo della storia umana, prima del XX secolo, ha avuto il privilegio di registrare tante dichiarazioni e normative in materia di diritti umani. Salvo poche e brevi eccezioni, mai prima della Dichiarazione universale del 1948 l’umanità era riuscita a distillare e fissare una lingua dei diritti in grado di sostituire tutte le altre parole etiche.
Giustamente l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali, aprendo a Vienna il summit sui diritti umani nel 1993, affermò che essi sono «il linguaggio comune di tutta l’umanità» e persino oggi, sfaldate tutte le grandi ideologie, la narrazione dei diritti è la sola ideologia che resiste.
Le norme internazionali sui diritti umani ancora non riescono ad alleviare in misura sensibile la sofferenza dell’umanità, ma su di esse poggia la legittimazione costituzionale di molti Stati, e grazie a esse i movimenti popolari e i decisori responsabili nel mondo hanno il potere di sfidare le pratiche politiche che producono sofferenza e frantumano la dignità delle persone.
Questo potenziale inestimabile non riesce ancora a umanizzare la politica mondiale, spiega lo studioso indiano Upendra Baxi, ma resta l’unica strategia a nostra disposizione per sfidare quelli che John Berger chiama i gesticolanti nuovi tiranni.
Contro questa genia di inafferrabili profittatori, i protagonisti assoluti della storia globale negli ultimi decenni del secolo scorso, il visionario socialista Lelio Basso orchestrò una straordinaria demarche internazionale con un gruppo di militanti giuristi, politici e intellettuali del nord e del sud del mondo, che il 4 luglio 1976 lanciarono ad Algeri la Dichiarazione universale per i diritti dei popoli.
Bisognava denunciare apertamente la contraddizione violenta tra gli assunti teorici di libertà e la pratica storica degli Stati Uniti, e il discorso di Lelio Basso ad Algeri non cede ad ambiguità: «L’espressione centrale della propaganda americana mondo libero equivale a quella di un modo in cui la libera impresa può agire liberamente senza l’ostacolo delle nazionalizzazioni o di qualsiasi altra restrizione un mondo al servizio di quella alleanza tra multinazionali e intervento statale nell’economia che costituisce il perno dell’attuale politica imperialista».
Riproporre la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli oggi, a quaranta anni dalla sua proclamazione, può sembrare nostalgica memoria di un’idea oramai sconfitta e datata. Viviamo i deliranti effetti di un mondo in cui il diritto retrocede – con l’eccezione del diritto alla guerra (ius ad bellum) – e il potere elitario avanza.
Le Nazioni Unite hanno definitivamente abdicato alla loro funzione, istituzionalizzando al proprio interno la presenza di un settore privato senza briglie, oggi acclamato come partner essenziale per lo sviluppo sostenibile. Gli accordi del commercio internazionale, costruiti per ispirazione di un mercato sempre più organizzato in cartelli, sono l’unica declinazione della diplomazia internazionale di paesi privi di autonomia decisionale.
Le ingerenze esterne sono esercitate su scala globale da sovrani inconoscibili alla guida della speculazione finanziaria, e questa è la sola novità rispetto a 40 anni fa. I 30 articoli della Dichiarazione di Algeri, così asciutti eppure trasudanti buonsenso di civiltà, hanno mantenuto intatta la loro rilevanza. Semmai hanno acquisito nuove pieghe di attualità nel disegnare l’orizzonte di un ordine internazionale oggi più che mai necessario, incardinato sui diritti di popoli protagonisti, e non più vittime marginalizzate dal diritto formale e dalla storia.
Non è affatto commemorativa dunque la conferenza internazionale che la Fondazione Basso e il Tribunale Permanente dei Popoliorganizzano per l’occasione il 4 e 5 luglio a Roma (http://www.fondazionebasso.it/2015/the-universal-declaration-of-peoples-rights/) con un’agenda ambiziosa e un parterre di esperti da tutto il mondo chiamati a una diagnosi severa, ma anche a proposte di ripensamento, per un diritto dal basso.
Attraverso i temi dell’immigrazione, dell’ambiente, dei popoli indigeni, dei diritti salariali delle donne, la conferenza riprenderà concetti come “democrazia”, “autodeterminazione”, “sovranità” per illuminare i limiti del diritto internazionale nel momento in cui le democrazie costituzionali non sono più in grado, ovvero non sono più autorizzate, ad affermare e garantire i diritti fondamentali dei popoli. Un nodo che noi europei abbiamo imparato a conoscere molto bene.