Articolo21.org, 12 ottobre 2014
Vorrei chiedere ai colleghi che conducono i telegiornali: non usate più l’espressione “bomba d’acqua” al posto di nubifragio, fortunale, forte temporale, ecc. A parte che tecnicamente la “bomba d’acqua” è un’altra cosa, ma, evocandola, sembra che assolviate chi ha assistito, come a Genova, inerte ad una nuova tragica alluvione. La terza disastrosa che colpisce e sconvolge il capoluogo ligure in cinque anni. Non siamo di fronte ad eventi eccezionali, né, tantomeno, a “calamità naturali”. Siamo di fronte ad un caso “di scuola” della distruzione di un sistema idrogeologico naturale manomesso e devastato dall’uomo nei decenni
Le polemiche più immediate riguardano soprattutto il mancato preallarme della Protezione Civile e del Comune, ma c’è ben altro a monte di quel pur deplorevole ritardo. Perché Genova? Ma potremmo dire perché il Gargano, Olbia, la foce del Tevere, la collina trevigiana o Messina? Perché la nostra bella Italia è sempre più sfigurata dal cemento+asfalto e quindi resa in tal modo fragilissima. Genova poi è un caso da manuale dell’imprevidenza di massa, anche della stupidità e del menefreghismo. Come si può assistere ai grovigli del Tar (la cui istituzione è fra le principali cause di rallentamento dei lavori indispensabili) senza muovere un dito, vedendo che i fondi stanziati nel 2010 non producono una sola opera di imbrigliamento, di difesa, neppure la demolizione di una tombatura di torrente, o di uno degli edifici-killer?
Sono passati ben 44 anni dalla tragica alluvione del dicembre 1970, che seminò lutti in più di quaranta famiglie e devastazioni in mezza Genova. Mi ci trovai in mezzo per caso, inviato da Milano ad un convegno marittimo alla Fiera del Mare dove rischiammo di rimanere intrappolati dalla piena di Bisagno e Polcevera. Rimasti al buio, riuscimmo a scappare, a piedi, avendo per guida il console della Compagnia portuale, Agosti, verso il centro di piazza De Ferrari. Da lì vedemmo che la città a monte era illuminata e pressoché normale, mentre verso Brignole tutto era buio e sommerso. Tragicamente buio e sommerso, con 44 morti.
Il giorno dopo scoprimmo che i letti di fiumi e torrenti su in alto non erano stati ripuliti da quando gli ultimi contadini se n’erano andati e che in basso gli stessi erano stati improvvidamente occupati, rialzati e ristretti da orti, campi da calcio e da tennis in serie, circoli sportivi e ricreativi, creando così le condizioni ottimali perché straripassero. Negli anni successivi si è continuato a cementificare le alture genovesi, quasi a strapiombo sulla città, coi Forti antichi che sorgono fra 400 e 800 metri di altitudine, a sradicare bosco e sottobosco, a desertificare campi e pascoli. Col risultato di far precipitare le acque piovane a valle, sulla città, ad una velocità un tempo rallentata da boschi, coltivi, terrazzamenti, ecc. ed ora divenuta pazzesca grazie all’asfaltatura ossessiva di ogni viottolo. In basso poi si sono lasciati costruire edifici, anche di notevole cubatura, a filo delle sponde, o sul percorso dei corsi d’acqua costretti fra argini di cemento, e magari “tombati” in città, i quali, in regime di piena, “esplodono” letteralmente invadendo case e strade divenute a loro volta vorticosi corsi d’acqua. Nel Sud tutto è aggravato da un disperante abusivismo edilizio che ha costipato colline, pianure, ripe di fiumi, alvei di torrenti e di fiumare, pareti, colate di fango. Ma anche a Genova non si è scherzato quanto a stravolgimento del tessuto urbano con le lottizzazioni, ben nel cuore del centro storico, di Madre di Dio e di Piccapietra, e con grandi quartieri in montagna, di fatto. Per una città la cui popolazione peraltro è drasticamente calata: dalla punta di 816 mila residenti del 1981 ai 586mila del 2010, con una diminuzione del 28,2 per cento. E magari si vuole “rilanciare l’edilizia”.
Ci si può rassegnare a tanto disastro? Assolutamente no. Che si può fare? Molto, se si concentrano subito fondi e investimenti sulla difesa e la ricostruzione idrogeologica dell’Italia, sulla messa in sicurezza ambientale, anche anti-sismica (dove ci sono più frane, i terremoti risultano devastanti). E’ il più vero, urgente, incombente dramma nazionale, da affrontare con un non meno urgente e adeguato piano anch’esso nazionale, articolato per regioni, per bacini idrografici. Il suo costo è stato calcolato in 40 miliardi scalati in più anni, ovviamente. Tanti. Però se non si comincia mai, lo sfacelo aumenta e con esso i danni, i morti, gli sfollati, i senza lavoro. E novembre deve ancora arrivare.
Nel 1989 la tanto deprecata Prima Repubblica si era data un’ottima legge, la n. 183, che istituiva Autorità di Bacino, da quelle nazionali (sette, dal Po al Volturno) alle locali, sul modello dell’Authority del Tamigi che aveva risanato il grande fiume, la rete idrica e protetto l’ambiente fluviale della “great London”. Là l’Autorità funziona avendo riunito in sé i poteri di ben 11mila enti. Qui Comuni e Regioni insofferenti di una Autorità superiore si sono applicati con puntiglio a smontare e a svuotare quella buona legge. Un suicidio di massa che tv e giornali dovrebbero raccontare. Altro che prendersela ogni momento con la Prima Repubblica!
Un Salva Italia strategico, pianificato insomma: altro che questo Sblocca Italia del governo Renzi teso ad eludere vincoli e piani, a cancellare i controlli delle Soprintendenze (magari esse stesse) e di altre Autorità territoriali rendendo i costruttori, figurarsi, i responsabili di se medesimi. La semplificazione burocratica può avvenire soltanto riunendo i molti passaggi cartacei in alcuni passaggi strategici però efficaci, non eliminando i controlli. E’ il momento di riportare in onore – per un nuovo New Deal italiano del territorio e del paesaggio – la pianificazione. Altrimenti, come profetizzava Antonio Cederna, ci resteranno davvero “brandelli d’Italia”.