Era chiaro fin dall’inizio che la richiesta di tregua all’interno del Pd avanzata da Renzi mirava a tutt’altro che a una moratoria della politica. Occupando l’intero orizzonte con l’enfasi sull’epocale obiettivo della riforma costituzionale, si volevano creare le condizioni propizie per costruire nel fuoco di una lotta senza quartiere un’altra politica e un altro partito. Man mano che passano le giornate, e l’attivismo del Presidente del Consiglio si fa sempre più frenetico e compulsivo, tutto questo diviene più evidente, un rullo compressore viene lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo, e di questo contesto bisogna tenere conto perché la discussione sul referendum costituzionale corrisponda alla sostanza delle cose.
Innovato il linguaggio con la parola “rottamazione”, Renzi ne ha via via esteso l’uso dalle persone ai corpi sociali, poi alle istituzioni e, infine, alla stessa storia. La storia, perché ormai è evidente che si è costruito un oggetto polemico totale, un ancien régime che coincide con tutta la passata vicenda repubblicana della quale, a dire del Presidente del Consiglio, o ci si libera con un colpo solo o si sprofonda nell’impotenza, nell’inciucio.
Chi conosce un po’ di storia, sa quale ruolo possa giocare il richiamo a un regime precedente. Oggi, tuttavia, non si tratta di affrontare una questione teorica, ma di rispondere a una domanda precisa: quanto è attendibile la presentazione renziana della storia della Repubblica?
Di fronte a questa domanda vi è una responsabilità di storici e scienziati politici. L’informazione corretta, non falsificata, è premessa indispensabile per il voto consapevole dei cittadini, e chi ha le conoscenze necessarie deve metterle a disposizione di tutti. Rischia altrimenti di consolidarsi un modo di discutere che colloca il voto referendario tra un passato inguardabile e un futuro infrequentabile, se diverso da quello affidato al testo della riforma. Un anno zero, l’evocazione del caos, l’associazione del “no” con l’irresponsabilità.
Poiché si sollecita la discussione sul merito, bisogna segnalare l’insistente falsificazione della posizione di coloro i quali nel passato avevano proposto l’uscita dal bicameralismo perfetto. Proposte che smentiscono la tesi di un radicato conservatorismo, ma che andavano nella direzione opposta da quella seguita dalla riforma, perché mantenevano al centro una legge elettorale proporzionale come garanzia essenziale per gli equilibri costituzionali. Vi sono poi episodi minori, anche se rivelatori dell’approssimazione di chi parla, per cui i governi della storia repubblicana da 63 ogni tanto diventano 69 e si giunge addirittura ad adottare logiche da seduta spiritica annunciando che Enrico Berlinguer avrebbe votato “sì”, con una falsificazione clamorosa dei suoi atti e delle sue posizioni.
La storia della Repubblica non è una zavorra da buttare via senza un fremito. Nelle tambureggianti rievocazioni di Marco Pannella e della sua azione per i diritti civili bisogna dare a ciascuno il suo e ricordare anche che gli anni Settanta furono un tempo di vera rivoluzione dei diritti civili, politici e sociali. Di pari passo con divorzio e aborto andarono i diritti dei lavoratori, la scuola, la salute, la carcerazione preventiva, la maggiore età a 18 anni, l’obiezione di coscienza al servizio militare, gli interventi su carceri e manicomi e una riforma del diritto di famiglia scritta con uno spirito ben più aperto di quello che ha accompagnato la legge sui diritti civili.
Fu un tempo di sintonia tra politica e società, tra politica e cultura, ma non fu il solo, e bisogna ricordarlo non con spirito nostalgico, ma per ristabilire una qualche verità storica e istituzionale, perché quel rinnovamento avvenne basandosi proprio sulla Costituzione.
Certo, sarebbe antistorico fermarsi qui e sottovalutare le dinamiche che hanno poi percorso il sistema politico- istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti.
Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sottorappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una «illimitata compressione della rappresentatività» del Parlamento, «alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza». Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale.
Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario.
Stando sempre attenti al merito, si incontrano due questioni paradossali. Persino accesissimi sostenitori della riforma riconoscono che poi saranno necessari aggiustamenti, altri condizionano il loro voto a cambiamenti della legge elettorale. Ma come? Si dice che stiamo combattendo la madre di tutte le battaglie, stiamo traghettando la Repubblica dal buio alla luce e invece sembra che si possano ancora cambiare le carte in tavola in una affannosa ricerca di consenso, ribadendo quella logica di inciucio preventivo all’origine dei tanti vizi della riforma.
Più sorprendente ancora è l’argomentazione di chi descrive il diluvio, il caos che inevitabilmente si determinerebbero se la riforma fosse bocciata, perché si dovrebbe tornare al voto intrecciando diverse leggi elettorali per Camera e Senato con problemi di governabilità. Singolare argomentazione, perché proprio i critici della riforma avevano messo in evidenza questo rischio ed è davvero da apprendisti stregoni, o da irresponsabili, prima creare le condizioni di un possibile fallimento, quindi agitarlo come uno spauracchio.
E poi chi dice che alle annunciate dimissioni di Renzi di fronte ad un “no” debba seguire lo scioglimento delle Camere? La democrazia ha le sue risorse, produce i suoi anticorpi, si potrebbe anzi avviare una seria stagione riformatrice, visto che proprio sui punti caldi del bicameralismo o monocameralismo, del governo, dei sistemi elettorali più adeguati erano venute proposte precise e diverse dal semplice accentramento dei poteri e della democrazia d’investitura.
Futile, a questo punto, diviene il balletto intorno alla personalizzazione del referendum, alla richiesta che Renzi non lo trasformi in un plebiscito su di sé. Le cose stanno così fin dall’inizio. Il Presidente del Consiglio continuerà ad esibire la sua pedagogia sociale su Facebook, invaderà ogni spazio pubblico. Ma questo non fa scomparire i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati.