«In questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”».
La Repubblica, 17 febbraio 2015
L’aveva detto nel messaggio d’insediamento, il Presidente Mattarella: «Garantire la Costituzione significa » anche «amare i nostri tesori artistici e ambientali». Il verbo “amare” appartiene ad un vocabolario davvero lontanissimo dalla retorica corrente della “valorizzazione” (leggi mercificazione) del nostro patrimonio culturale: perché il sottotesto è il brano del Vangelo di Matteo dove si dice che: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore». È la stessa lingua della Costituzione, che dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio della Nazione » non per aumentare il Pil, ma per favorire «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3) attraverso «lo sviluppo della cultura» (art. 9). Parole che oggi diventano concrete nell’annuncio che il Quirinale sarà aperto tutti i giorni agli italiani.
E anche in questo simbolo della reggia dei papi che diventa reggia dei cittadini c’è un nesso profondo con la Carta: con l’articolo 1, che ci vuole “sovrani”. Entrare nel Palazzo del Quirinale significa camminare sulla cresta sottile del vertice dell’arte barocca: quando Roma era, per l’ultima volta, la capitale artistica del mondo. Nemmeno i Palazzi Apostolici del Vaticano possono sfoggiare un appartamento di Stato delle dimensioni e della solennità del nesso costituito dall’immensa Sala Regia (oggi detta Salone dei Corazzieri) e dalla contigua Cappella Paolina, separate e unite da un portale di marmo degno di una basilica, disegnato da Carlo Maderno (autore, tra l’altro, della navata e della facciata di San Pietro) e scolpito dal dimenticato (ma bravissimo) Taddeo Landini. In questi spazi straordinari, che sfociano in una serie infinita di sale e gallerie, Paolo V Borghese (papa dal 1605 al 1621) riceveva gli ambasciatori, circondato dalle figure dipinte dai seguaci dei due grandi rivoluzionari di primo Seicento, Annibale Carracci e Caravaggio.
Come spesso succede nell’arte barocca, nella Sala Regia va eternamente in scena uno spettacolo, basato sullo sdoppiamento: grazie agli affreschi del fregio, anche quando è vuoto il salone sembra gremito di diplomatici, giunti ad omaggiare il papa da ogni angolo del mondo. Tra i tanti volti esotici che si affacciano dalle balconate dipinte è possibile riconoscere quelli degli inviati del re del Congo, e quello del dignitario giapponese Hasekura Rokuemon, che fu a Roma nel 1616. È una scena che si presta ad una doppia lettura: da una parte essa sottolinea l’aspirazione universale, oggi diremmo globale, del potere papale. Ma è solo il trucco di un bravo pittore illusionista: perché già al tempo di Paolo V il papato era ridotto al rango di potenza regionale, e per giunta di seconda fila. Dopo quattro secoli il messaggio colpisce con la stessa forza, e ci ricorda che la proiezione internazionale dell’Italia rischia di rimanere un’aspirazione, anzi un’illusione: la lama della retorica barocca è a doppio taglio, e noi non siamo cambiati.
Ma il Quirinale non è solo una scenografia piena di specchi (reali e metaforici), è anche il contenitore di una sterminata raccolta di opere d’arte (che vanno dall’antichità ai nostri giorni) e di una importantissima serie di arredi (dagli arazzi ai mobili) provenienti dalle regge degli antichi sovrani di tutta la Penisola, e qui concentrati (anche troppo disinvoltamente, per la verità) dai Savoia. Non c’è davvero alcun bisogno di pensare di trasformare questo luogo unico in un museo, perché è già un meraviglioso racconto del nesso profondissimo tra nazione italiana e patrimonio culturale. Bisogna solo farlo “parlare”: ed entrarci - da sovrani - ci verrà perfettamente naturale.