Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)
L’isteria con cui il governo avanza nella discussione sulla riforma della Costituzione e sulla legge elettorale è un fatto del tutto nuovo nel nostro paese, e per questo deve farci riflettere. La necessità di attuare le riforme, da noi condivisa, non può prescindere da un percorso di confronto e di ascolto sul merito delle questioni, e invece il governo si limita all’affermazione, più volte ripetuta dal ministro Boschi, «abbiamo già discusso». Le riforme istituzionali per la loro specifica natura devono essere approvate con il più ampio consenso e non a colpi di maggioranza.
La Cgil da tempo sostiene il superamento del bicameralismo perfetto, l’istituzione di una Camera rappresentativa delle Regioni e delle autonomie locali e la modifica del Titolo V della Costituzione. La stessa modifica del Titolo V apportata nel 2001 sulla quale è unanime il giudizio negativo per aver prodotto un confuso federalismo con una forte sovrapposizione tra le prerogative dello Stato e quelle delle Regioni, ci dimostra che non basta volere il cambiamento, bisogna anche saperlo promuovere e soprattutto qualificare.
Nel merito della discussione, ciò che ci preoccupa maggiormente è il combinato disposto della modifica costituzionale con la nuova legge elettorale.
La riforma costituzionale proposta dal governo introduce un procedimento legislativo farraginoso e non fa della seconda camera un luogo di rappresentanza delle istituzioni locali adeguato a definire un nuovo equilibrio istituzionale, reso ancor più necessario dall’accentramento di competenze legislative previsto dalle modifiche proposte nel Titolo V.
Per noi il problema non è l’elezione diretta dei senatori, ma quali saranno i poteri della seconda camera del Parlamento. Se il Senato deve rappresentare le Regioni e le Autonomie, in una logica di equilibrio tra Stato, Regioni e Comuni e con l’obiettivo di esercitare la necessaria cooperazione istituzionale tra i differenti livelli di governo, deve poter votare le leggi che hanno una ricaduta territoriale, a cominciare dalle risorse. Nell’attuale testo di riforma, invece, si attribuisce a Palazzo Madama la potestà legislativa piena sulla Costituzione, ma non sui principali provvedimenti che interessano Regioni e autonomie.
Questa situazione, unitamente ad una legge elettorale come l’Italicum, che prevede un ballottaggio con regole sbagliate e determina una grave incertezza su chi sceglie realmente i deputati che siederanno a Montecitorio, potrebbe portare ad una pericolosa contrazione democratica.
Nella legge elettorale, noi non contestiamo che il premio di maggioranza venga dato al secondo turno, ma riteniamo che per quest’ultimo debbano valere regole diverse da quelle contenute nel testo governativo. L’Italicum non prevede né la possibilità dell’apparentamento, né una soglia che permetta il ballottaggio unicamente tra partiti con una rappresentanza pari, almeno, al 50% degli elettori del primo turno, come avviene in Francia per l’elezione dell’assemblea nazionale, dove in caso di mancato superamento di tale soglia il ballottaggio è allargato ai primi tre candidati.
Senza queste previsioni si rischia di dare la maggioranza assoluta dei seggi a una forza politica che ha conquistato solo il 20% dei voti al primo turno. Al contrario, l’auspicata semplificazione istituzionale che si avrebbe con il superamento del bicameralismo perfetto, richiede necessariamente un sistema elettorale in grado di garantire un forte mandato ai deputati, che renda l’aula di Montecitorio la sede della rappresentanza politica del paese in tutta la sua complessità, senza mortificare, in nome del principio di governabilità che deve essere comunque tutelato, il pluralismo politico.
I mutamenti dell’organizzazione democratica posti dalla modernità e i cambiamenti del sistema istituzionale proposti nei disegni di legge rimettono in discussione il rapporto che esiste tra governo, parlamento e cittadini. Si pone dunque l’esigenza di rivedere, in modo adeguato, gli strumenti di partecipazione attiva della popolazione. Su questo fronte pensiamo che con la riforma costituzionale si sia persa un’occasione: il governo ha apportato delle piccole e insufficienti modifiche al referendum abrogativo e alla proposta di legge di iniziativa popolare, e nel prevedere l’istituzione del referendum propositivo e di indirizzo lo ha rimandato ad una successiva legge costituzionale, senza fissarne criteri e parametri, rinviandone di fatto la reale introduzione.
Poiché siamo nell’epoca delle istituzioni sovranazionali e della velocità, c’è bisogno di riequilibrare il rapporto tra governo, parlamento e popolo attraverso un’idea della democrazia che preveda l’espressione del popolo nel merito delle grandi scelte. Questa, secondo noi, deve essere la nuova frontiera degli stati democratici moderni e deve diventare il principio di governo anche nei grandi stati, non solo nei piccoli, altrimenti si rischia una democrazia rovesciata in cui i governi decidono e i popoli si devono adeguare.