Uscito giorni fa su queste pagine, l'articolo di Paolo Brogi sul «Chiostro del Bramante ridotto a stand» ha suscitato una replica della società che lo ha in locazione. Il dibattito verte sull'ingombro e l'intrusività della struttura ideata per ospitare serate di gala ed eventi a pagamento: un'ampia piattaforma in legno, varie colonnine metalliche, una copertura in cellophane e un groviglio di faretti e fili elettrici. Rivendicando il merito di aver restituito l'edificio cinquecentesco (di fatto inaccessibile da tempo) alla cittadinanza, l'azienda ribadisce che la tensostruttura autoportante viene usata solo per brevi allestimenti. Brogi ribatte invece che l'installazione resta per troppo tempo in loco, e nota che i tavoli del bar (situato nel loggiato e aperto anche da chi non frequenti le mostre del Chiostro) occupano a lungo l'intera balaustrata, anche se ora sono stati rimossi.
Perché accanirsi su tali dettagli? È presto detto: dietro questioni tecniche si nasconde uno fra i temi centrali della Capitale, relativo al contrasto fra la tutela di un manufatto storico e il suo impiego. Secondo una tesi espressa da Cassiodoro e ripresa da Alberti, Roma sarebbe abitata da due distinti popoli, più o meno equivalenti: il primo composto da uomini, il secondo da statue. Questo per dire quanto le vestigia dell'antichità condividano intimamente il nostro destino, in una sorta di vita parallela. Ma cosa fare di tanti smaglianti e insieme ingombranti tesori del passato?
Durante la Prima Repubblica, quella ricchezza venne bellamente ignorata. Mentre all'estero i musei producevano reddito, qui molti monumenti erano chiusi o affidati a pochi sorveglianti. Ci volle la legge Ronchey per ammodernare un sistema decrepito, così come servì l'avvento delle tv private per cogliere le potenzialità pubblicitarie occultate dai paesaggi dell'«Intervallo». Per certi versi, si trattò di una mutazione contemporanea. Le inutili sale polverose si riempirono di redditizi bookshop e caffetterie, mentre gli spazi morti fra una trasmissione e l'altra diventarono il motore dell'universo mediatico (e, per inciso, politico). Ma torniamo ai Beni culturali. Nel delicato rapporto fra conservazione e guadagno, l'unica soluzione risiederà nell'oculatezza dello sfruttamento, badando a che il privato non danneggi il patrimonio affidatogli. Con qualche regola, un po' più precisa, sarebbe tutto più semplice.