Da sempre chi opera nel settore dei beni culturali si lamenta che gli organi mediatici riservino alle vicende del nostro patrimonio un’attenzione distratta e concentrata quasi esclusivamente sull’”evento” - la grande mostra o la scoperta archeologica eccezionale – e per lo più confinata nell’ambito degli articoli di alleggerimento.
Non così è successo il 6 novembre in seguito al crollo avvenuto a Pompei. Le immagini di quel cumulo di massi rovinosamente crollati lungo uno degli assi viari principali del sito archeologico, via dell’Abbondanza, hanno fatto il giro del mondo in poche ore e monopolizzato le cronache dei media internazionali per settimane. Un cumulo di rovine: a questo è ridotta la così detta Casa dei Gladiatori, o meglio Schola Armaturarum, un edificio destinato probabilmente a magazzino o palestra per la juventus pompeiana. Nei giorni successivi nuovi crolli – con devastante effetto domino - hanno interessato altre domus nella stessa area, rafforzando la consapevolezza di una situazione di gravissimo rischio, se non addirittura fuori controllo.
L’attenzione mondiale riservata all’evento pompeiano deriva senz’altro dall’importanza assolutamente cruciale di questo sito per la cultura non solo occidentale. Tappa obbligata del Grand Tour, la suggestione di Pompei, unicum archeologico, l’ha resa una delle matrici della nostra memoria e immaginario dell’antico, per essere trasformata, in quest’ultima fase, in location sempre più congestionata di un turismo di massa inconsapevole e smemorato.
Gli scavi di Pompei hanno subito, da duecentocinquant’anni a questa parte, ingiurie di ogni tipo, dall’incuria ai terremoti, e financo le bombe della seconda guerra mondiale, ma i crolli di cui parlano le cronache di oggi possono essere classificati come il risultato diretto della scelta di commissariare l’area archeologica campana. Fin dall’avvio di quella esperienza (luglio 2008) da molti studiosi erano stati evidenziati i rischi di tale soluzione, connessi a prerogative di deroga sistematica dalle normali procedure amministrative e dall’annullamento di verifiche e controlli propri di un’ordinanza di Protezione Civile.
La Corte dei Conti, a posteriori, ha giudicato illegittima quella Ordinanza per la pretestuosità palese delle motivazioni – la situazione di degrado del sito segnalata dai media - ma nel frattempo la gestione commissariale è continuata per due anni con un crescendo attivistico (e di spesa) impennatosi a partire dall’estate del 2009.
Da allora i fondi, non irrisori, della Soprintendenza sono stati gestiti per un affastellarsi di iniziative eterogenee e di dubbio risultato, in un climax di autocelebrazione mediatica: con questa operazione il sito campano è di fatto divenuto il primo esperimento di una gestione che si voleva “innovativa” del nostro patrimonio, il primo esempio, da esportare, di una divaricazione drastica fra patrimonio culturale di serie A in quanto di certa redditività economico-turistica (Colosseo, Pompei, Uffizi) e patrimonio di serie B, costituito dalla stragrande maggioranza dei nostri beni culturali dispersi a migliaia sul territorio a costruire quel museo diffuso che è caratteristica davvero unica del nostro paese ma destinato, soprattutto dopo i ripetuti tagli di Bilancio del Mibac, ad un incerto futuro.
Senonchè, soprattutto a partire dal gennaio 2010 (primo crollo presso la Casa dei Casti Amanti), le lacune e inadempienze gestionali del commissariamento sono venute emergendo con evidenza sempre maggiore.
Così ha suscitato le aspre critiche del mondo scientifico internazionale il restauro del Teatro Grande, giudicato invasivo e distruttivo e allestito con fretta estrema anche tramite ampio impiego di mezzi impropri, escavatrici e bobcat, per ospitare eventi di ogni tipo e per tutti i gusti. Allo stesso modo l’allestimento della Casa di Giulio Polibio con gadgets tecnologici (ologrammi e video) alquanto superati dal punto di vista dell’efficacia comunicativa, non solo è risultato costosissimo, ma non ha risparmiato la stessa domus da problemi di crolli successivi.
Sia detto senza ambiguità: Pompei soffre davvero di una situazione di degrado diffuso che è legata principalmente ad un contesto “ambientale” ad alta complessità e ad alto rischio. E tale situazione, è doveroso riconoscerlo, precede l’avvio del commissariamento: su una sua soluzione efficace, quindi, avrebbero dovuto essere concentrati gli sforzi di un intervento straordinario, lasciando nelle mani della Soprintendenza le risorse e la piena operatività delle attività di tutela, peraltro svolte fino allo scorso anno con risultati di riconosciuto prestigio e finalizzate ad un piano di restauro e conservazione dell’immenso patrimonio pompeiano graduale, ma sistematico.
L’arrivo del commissario ha stravolto tale piano, concentrando e spesso dissipando le risorse su attività di “valorizzazione” effimere e talora incongrue con le finalità di tutela: i risultati sono quelli che stanno dilagando, da alcune settimane, sui siti e le televisioni di tutto il mondo.
Il commissariamento di Pompei e i suoi esiti deludenti e addirittura negativi, rivestono però un carattere esemplare non solo perchè accadute in uno dei luoghi simbolo della cultura occidentale, ma perchè incarnano i rischi di una deriva delle politiche culturali e del nostro rapporto col patrimonio culturale in atto da molti anni e giunta probabilmente ad un punto di non ritorno.
Deriva che possiamo far risalire per lo meno ai famosi “giacimenti culturali” voluti dall’allora Ministro dei Lavori Pubblici Gianni De Michelis alla fine dei ruggenti anni ’80. Da quel momento, pur con rallentamenti, ma irreversibilmente, si è radicata, a partire dal mondo politico nostrano (e in maniera bipartisan) l’accezione di “bene culturale” come portatore di sviluppo economico (nella versione politically correct) o addirittura di “prodotto” da vendere sul mercato, in rapida espansione, del turismo culturale.
In questa trasformazione semantica, accellerata nell’ultimo lustro, ma che è fenomeno non solo italiano, indagato acutamente, fra gli altri da Marc Fumaroli, il patrimonio culturale ha quindi cessato di essere un bene in sè, finalizzato alla conoscenza, all’educazione, per divenire il mezzo – uno dei tanti – di produzione economica, tanto più apprezzabile quanto maggiormente “produttivo”.
Nella mancanza complessiva di una visione culturale che connota soprattutto l’ultimo biennio di attività del Ministero dei Beni e delle Attività culturali, unico indirizzo coerentemente perseguito è stato rappresentato dall’accentuazione esasperata delle pratiche di valorizzazione, culminate con la nomina di apposito manager e codazzo annesso di pubblicitari che, in nome del marketing, in un anno e mezzo di attività hanno saputo produrre, fra continue fanfare mediatiche, solo qualche bislacca campagna promozionale per rendere ancor più appetibili i monumenti icona del nostro patrimonio già oppressi da una pressione antropica che non ha mancato di provocare i primi segnali di rischio: i cedimenti dei mesi scorsi al Colosseo stanno a dimostrarlo.
Alla stessa visione pubblicistica (essendo il marketing vero e proprio comunque collocato su un altro livello di complessità), è ben presto risultata ispirata anche la pratica dei commissariamenti dei principali siti e monumenti nazionali.
Nati per risolvere situazioni di degrado – vere o pretestuose che fossero – caratterizzati da una gestione mediatica aggressiva quanto superficiale, sul piano della strategia culturale queste iniziative hanno ben presto evidenziato un vuoto preoccupante, rifugiandosi in operazioni di maquillage (Pompei) o di semplice manutenzione ordinaria (Roma) dei siti e monumenti. A conclusione dell’esperienza, oltre agli esiti drammaticamente evidenti per quanto riguarda la stessa integrità fisica del patrimonio, del tutto irrisolti appaiono i molti problemi di carattere amministrativo, organizzativo e culturale che affliggono non solo i siti commissariati, ma l’intera struttura del Ministero Beni Culturali, da anni avviata verso un graduale collasso, accelerato, nell’ultimo biennio, da un affastellarsi di provvedimenti spesso punitivi (tagli di bilancio draconiani) e contraddittori (riorganizzazioni e “semplificazioni”). Per tali ragioni, l’esperimento dei commissariamenti è stato equiparato al “modello Alitalia”, in quanto mirato a separare, come sopra ricordato, il patrimonio culturale a maggiore redditività (Colosseo, Pompei, Uffizi) da gestire coi privati, dalla bad company rappresentata dallo sterminato patrimonio minore diffuso sul territorio e destinato ad un gramo destino di lenta asfissia economica. Non è un caso che per il futuro di Pompei si continui tuttora a parlare di una Fondazione mista (pubblico-privato), incuranti del fatto che l’unico esempio di qualche consistenza di questo modello, il Museo Egizio di Torino, stenti da anni a trovare una decorosa identità culturale.
I commissariamenti hanno costituito, insomma, l’iniziativa più fragorosa, ma non l’unica, di un disegno di dismissione complessiva del sistema delle tutele evidente, ad esempio, anche per quanto riguarda la tutela del paesaggio aggredita da una miriade di provvedimenti legislativi tesi a favorire in ogni modo le iniziative di sfruttamento del territorio, da quelle edilizie a quelle infrastrutturali e commerciali.
Nel frattempo, le biblioteche nazionali chiudono i servizi al pubblico per mancanza di fondi, le soprintendenze archeologiche denunciano, dopo gli ultimi tagli inferti dalla manovra finanziaria, di non riuscire più a garantire lo svolgimento del loro lavoro e l’opera di monitoraggio e presidio svolta sul territorio dalle strutture periferiche del Mibac è divenuta ormai impossibile.
Con esemplare congruenza le dichiarazioni del Ministro (comunicato ufficiale del 25 novembre 2010) dopo gli eventi pompeiani identificano esplicitamente la mission ministeriale nella facilitazione coûte que coûte della funzione infrastrutturale ed edilizia del territorio non più ostacolata dai “ritardi” derivanti, ad esempio, dai ritrovamenti archeologici: in tali affermazioni è ormai chiara la tendenza al sovvertimento dei principi dell’art. 9, nella Costituzione anteposti ad ogni altro interesse che non fosse quello pubblico, il principio guida che da Benedetto Croce a Concetto Marchesi, ha ispirato i legislatori e i padri costituenti.
Non esistono scorciatoie per tutelare il nostro patrimonio nel senso più completo del termine e quindi per far sì che il numero più ampio di cittadini ne possa godere attraverso una comprensione culturalmente adeguata e costantemente aggiornata.
Occorrono risorse ingenti che non ci sono a livello pubblico e non ci saranno per molto tempo ancora: in questo senso bisognerà concentrare gli sforzi per trovare soluzioni innovative.
Ma nel frattempo, occorre almeno che questo patrimonio possa sopravvivere al degrado provocato dalla micidiale interazione di incuria e becero attivismo “valorizzatorio” e che nelle mani degli organismi tecnici sia affidata, con ampia disponibilità delle risorse residue e pieno riconoscimento istituzionale, quell’insostibuibile operazione di manutenzione programmata cui è affidata la sola speranza di salvezza.
Con significativa simmetria, nelle stesse ore in cui gli schermi ci rimandavano le immagini del primo crollo pompeiano, quelle sull’alluvione in Veneto rafforzavano, nella loro drammaticità, lo stesso assunto: come per salvaguardare il nostro territorio nel suo insieme non ci occorrono le “Grandi Opere”, ma la quotidiana, incessante opera di ripristino e contenimento del rischio idrogeologico, così per salvare il nostro patrimonio culturale non abbiamo bisogno di iniziative effimere e culturalmente risibili o addirittura controproducenti, bensì di quell’opera di manutenzione ordinaria che, in una dichiarazione di drammatica impotenza a commento immediato del crollo pompeiano, il segretario generale del Mibac, ha affermato “non facciamo più da almeno mezzo secolo”.
Ma soprattutto occorre rovesciare radicalmente l’accezione economicista ultimamente imperante che ha trasformato i nostri beni culturali e il nostro paesaggio in una risorsa da sfruttare e in una merce da vendere. Anche se rappresentano uno dei motori di una delle poche industrie in attivo, quella turistica, il patrimonio e le istituzioni culturali non debbono avere l’obiettivo di produrre ricchezza materiale, ma senso di cittadinanza e integrazione culturale e sociale. Essi rappresentano uno dei nostri beni comuni più fragili in quanto irriproducibili e assieme uno dei servizi, come l’istruzione e la sanità, sui quali si misura il livello di civiltà di un paese.