«Ma in quali mani si trovano, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?» . Così scriveva, nel 1775, Alphonse de Sade, inorridito dalle condizioni in cui erano i capolavori di Pompei. «Ma in quali mani si trovano, gran Dio!» , ripetono oggi i giudici della Procura di Torre Annunziata che hanno sequestrato, finalmente, il teatro di Pompei. Sottoposto l’anno scorso a una ristrutturazione con il calcestruzzo che lo ha letteralmente stuprato. Come fosse fino al 2009 il teatro della città annientata dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. descritta da Plinio il Giovane, si può vedere nelle foto di milioni di visitatori passati in questi decenni e ancora presenti in Internet: i gradini erano stati erosi dal tempo e coperti di erba. Amedeo Maiuri, grande archeologo e «protettore» di Pompei (un uomo di valore tale che quando Mario Resca, già a capo della McDonald’s Italia, si insediò come nuovo direttore generale dei Beni culturali gli spedì una richiesta di collaborare nonostante fosse morto da 47 anni) aveva avuto un’idea. Per consentire nella stagione estiva qualche spettacolo che restituisse la vita all’arena al posto dei gradini era stata collocata una struttura di ferro leggera. Quando c’era un’esibizione, ci posavano sopra delle tavole che, finita la rappresentazione, venivano rimosse lasciando tutto come prima. Finché non arrivò, imposto dall’allora ministro Sandro Bondi, il commissario straordinario Marcello Fiori, stretto collaboratore di Guido Bertolaso. Una decisione contestata dalla Corte dei conti in una delibera che ricordava come per legge la Protezione civile può intervenire nel caso in cui sia necessario difendere «l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri grandi eventi» . Tutte cose che con Pompei non c’entravano niente. La reazione della «Protezione» fu irritata: «A nostro avviso la Corte dei conti ha deliberato riconoscendo la legittimità del nostro operato» . No, replicò la Corte spingendosi a fare addirittura un affilato comunicato ufficiale: «Come si evince dalla lettura della delibera, la Corte ha escluso che nel caso dell’area archeologica di Pompei sussistessero i presupposti per la dichiarazione dello stato d’emergenza. Pertanto non appare corretta l’affermazione che la Corte dei conti avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile» . Come siano stati spesi 79 milioni di euro in due anni (soprattutto nei 18 mesi della gestione Fiori) è da tempo oggetto di inchieste giornalistiche, come quella di Emiliano Fittipaldi e Claudio Pappaianni su l’Espresso, e di amare risate. Per i 55.000 euro spesi per comprare mille bottiglie di vino (mille!) con l’etichetta Villa dei Misteri», della cantina Mastroberardino e per un terzo spedite in giro per le ambasciate e i consolati nel mondo e per due terzi lasciate in un magazzino. Per i 102.963 euro spesi nel «censimento» di 55 randagi al modico costo di quasi duemila euro per ogni cane non allontanato ma «censito» e messo in Internet con una scheda «autobiografica» : «Mi chiamo Menade, ho appena compiuto un anno e, come ogni sacerdotessa del dio del vino, vivo davanti alla casa del mio unico sposo: Bacco. Sono nera e lucida come la notte. Quando danzo alle stelle per lui piena del suo nettare...» . Per non dire dei 3.164.282 euro dati alla Wind per il progetto «Pompeiviva» il cui cuore è, nell’omonimo sito internet, un video stupefacente dove un ragazzo entra nella magica «Villa dei Misteri» , scatta una foto a una donna dipinta sulla parete e tutti i personaggi affrescati si mettono a fare un coretto cantando una cover (in inglese) di «I Will Survive» di Gloria Gaynor. O ancora degli 81.275 euro spesi per la visita (poi annullata!) di Silvio Berlusconi, preparativi che avevano visto il loro surreale capolavoro nella posa, lungo il cardo che porta alla domus di Lucrezio Frontone, di una «moquette» di stoffa poi coperta da un po’ di carriole di ghiaia lavica. Ma fino a qui, con rabbia, si ride. Assai più grave, invece, è la scelta denunciata da Antonio Irlando (presidente dell’Osservatorio archeologico che tenta di arginare gli stupri sulla meravigliosa città d’arte) di avviare la costruzione, ad esempio, tra porta Vesuvio e porta di Nola, in piena area vincolata, di un mostruoso hangar di cemento armato definito «deposito di materiale archeologico e spogliatoi per il personale» . Il tutto 35 anni dopo l’inizio dei lavori dell’Antiquarium, chiuso per restauro nel lontano 1975 in cui Steve Jobs fondava la Apple e si separavano Ike &Tina Turner, e non ancora riaperto. È in questo contesto che il Corriere, con un articolo di Alessandra Arachi, denuncia il 25 maggio 2010 lo scempio oggi al centro dell’indagine della magistratura: «Già il rumore non lascerebbe dubbi: i martelli pneumatici producono quelle vibrazioni perforanti inequivocabili. Ma poi basta scavalcare una piccola recinzione ed ecco che sì, diventa complicato credere ai propri occhi. I martelli pneumatici diventano quasi un dettaglio nel terribile cantiere del Teatro Grande di Pompei, invaso da betoniere, bobcat, ruspe, cavi, levigatrici e chi più ne ha ne metta. Nel condominio sotto casa vostra sarebbero più prudenti nel fare i lavori. E invece qui, roba di archeologia del II secolo avanti Cristo, gli operai si muovono in mezzo alle rovine come elefanti dentro una cristalleria» . Foto alla mano, alla fine di maggio Irlando scrive a Bondi una lettera allarmatissima: «Sono in corso nell’area archeologica lavori definiti nella tabella di cantiere "Restauro e sistemazione per spettacoli del complesso dei teatri in Pompei Scavi"che hanno sin qui comportato evidenti stravolgimenti dello stato originario dei monumenti e dei luoghi archeologici, con gravi danni al loro stato di conservazione. L’evidenza della gravità degli interventi è facilmente e banalmente dimostrabile attraverso una rapida ricognizione dell’attuale consistenza del teatro, in particolare della cavea, che, rispetto a una qualsiasi foto o disegno di diversi momenti della vita degli scavi, risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura» . Risposta del ministero? Zero: zero carbonella. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: il teatro lasciato fino a due anni fa così come era stato trovato, è stato stravolto. Gradino per gradino sono stati gettati dei cordoli di cemento armato e su questi sono stati posati mattoni di tufo giallognoli che somigliano a quelli usati nell’Appennino meridionale per costruire i tuguri di campagna e i ricoveri per le bestie. I lavori di «restauro» dovevano costare 449.882 euro più Iva: sono costati undici volte di più, cioè 5 milioni 966 mila. Appalto dato (senza gara) a un raggruppamento temporaneo di imprese trainato dalla Caccavo Srl di Pontecagnano, scelta in meno di due anni dal commissario per 26 interventi per un totale di 16 milioni e mezzo di euro. «In quali mani, Gran Dio...» .