manifesto, 24 maggio 2016
«Riforme. 184 nomi favorevoli alla riforma costituzionale. Non tutti costituzionalisti, e neanche giuristi. Quel che conta è fare numero. Ma nemmeno loro se la sentono di difendere l’incrocio con l’Italicum»
Anche Renzi ha i suoi professori. È comparso ieri – sul sito della campagna governativa per il Sì al referendum costituzionale – un appello di docenti favorevoli alla riforma. È un contrappello e una prova di forza. Se infatti erano 56 i costituzionalisti raccolti da Onida e Cheli che un mese fa si sono pronunciati per il No, e sono una decina i costituzionalisti del comitato del No, quelli del Sì messi insieme dai professori Caravita, Ceccanti, Fusaro e Ciarlo sono ben 184. Non sono però tutti costituzionalisti, e nemmeno tutti giuristi: ci sono filosofi, storici, economisti, tributaristi, sociologi. Non sono neanche tutti professori ordinari, nell’elencone che chiama al sì ci sono diversi associati e ricercatori. Un buon segnale, dal punto di vista della partecipazione alla vita pubblica dei più giovani. Ma anche un’innovazione nel galateo universitario, in base al quale è generalmente ritenuto più corretto non far schierare i docenti che devono ancora superare un concorso. E che dunque saranno giudicati da accademici che hanno aderito all’una o all’altra cordata.
Buona parte delle firme di questo nuovo appello provengono da quelle raccolte già due mesi fa dal professor Caravita, costituzionalista della Sapienza di Roma, in calce a un appello che non si schierava ancora né per il Sì né per il No. Ma si presentava, allora, come un invito a non personalizzare la partita del referendum e a favorire «un voto informato e consapevole». La nuova lista dei professori per il Sì contiene nomi noti – Bassanini, Panebianco, Treu, Salvati, Tabellini – e si apre con la firma di Salvo Andò. Socialista, già ministro della difesa del governo Amato, compare come docente dell’università Kore di Enna, della quale è stato rettore, anche se le cronache raccontano di una sua estromissione (seguita dal commissariamento della fondazione).
Nel frattempo il governo è ancora impegnato nella sua polemica con L’Associazione nazionale partigiani, colpevole di aver deciso al congresso (300 voti contro 3 astenuti) di invitare a votare No al referendum. Come del resto aveva già fatto nel 2006, contro la riforma Bossi-Berlusconi (appoggiata invece da alcuni dei professori che oggi sono schierati per il Sì a Renzi), in quel caso senza polemiche. Dopo che la ministra Boschi ha spiegato in tv come riconoscere i «veri» partigiani (sono quelli schierati per la riforma, e ce ne sono), il presidente del Consiglio Renzi ha corretto il tiro: «Quella dell’Anpi è una posizione legittima, ci sono veri partigiani che voteranno Sì e che voteranno No e noi abbiamo rispetto per tutti». Segue un triste censimento di ex combattenti, tutti naturalmente assai anziani, schierati con l’una e con l’altra parte. Che raggiunge lo scopo: limitare l’impatto negativo della notizia che l’associazione più importante dei partigiani ha deciso, con una discussione e un voto, di bocciare la nuova Costituzione.
L’operazione non finisce qui, perché la propaganda del Pd ha arruolato con il Sì Pietro Ingrao – notoriamente favorevole al monocameralismo, ma in tempi di legge elettorale proporzionale – e Nilde Jotti – che una dirigente Pd ha recentemente rivisto nella figura della ministra Boschi: tra due giorni in un convegno a Piombino è in programma la reincarnazione. Alla propaganda ha replicato Celeste Ingrao, prima figlia di Pietro: «Gira una foto di papà con appiccicato sopra un grosso Sì e il simbolo del Pd, prendendo a pretesto frasi pronunciate in tutt’altro contesto e avendo in mente tutt’altra riforma. Se, come si usa dire ora, bisogna metterci la faccia, allora ci mettano la loro e quella dei loro ispiratori».
SE RENZI ALZA
LA BANDIERA DEL PCI
di Alberto Burgio
Se il buon giorno si vede dal mattino, l’avvio della campagna referendaria lascia prevedere cinque mesi di violenza verbale, di forzature, menzogne e abusi di potere di cui proprio non si sentiva il bisogno.
Non si era ancora spenta l’eco dei nuovi editti bulgari all’indirizzo di giornalisti non ossequiosi, che è scoppiata quest’altra penosa grana. Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao e Nilde Jotti variamente arruolati tra gli antesignani della «riforma» renziana. Non certo perché davvero lo si creda, che discorsi. Ma perché può servire, se non altro, a confondere le acque e le carte.
Naturalmente chi ha a cuore la buona memoria del Pci e dei suoi dirigenti storici ha subito reagito e puntualizzato. La questione potrebbe con ciò considerarsi chiusa, almeno in punto di diritto. Ma forse vale la pena di dedicare qualche minuto a quello che episodi del genere rivelano o confermano. E, appunto, fanno presagire.
In primo luogo, perché questa scelta, perché queste figure?
È ovvio che, chiamando in causa emblemi del «vecchio Pci», i propagandisti del Sì sperano di convincere l’ala sinistra dell’elettorato democratico, in sofferenza per lo sgangherato protagonismo renziano e per le politiche padronali del governo, oltre che per il merito di un pateracchio che minaccia di trasformare la repubblica parlamentare in un regime iper-presidenzialistico.
Si dirà: è la logica della propaganda. Vero. Ma c’è propaganda e propaganda, come c’è argomento e argomento. Questo uso della propaganda politica è odioso proprio perché, come si diceva, punta a disinformare e a fuorviare. Odioso, ma anche utile: una misura fedele di che cosa è diventata la politica oggi, nell’Italia del renzismo trionfante.
Si fa una cosa di destra, che più di destra non si può. Si pongono le premesse per una dittatura della premiership sfigurando la Costituzione e agganciandola a una legge elettorale che consegna i pieni poteri al Capo del partito di maggioranza relativa (una esigua minoranza del paese). Ma al tempo stesso la si camuffa da cosa di sinistra, per raggirare qualche milione di disinformati.
Di più. Mentre si medita di disegnare le istituzioni della Repubblica in forme consone allo strapotere delle oligarchie vicine al capo del governo, si agitano i volti di personaggi della storia repubblicana che incarnano valori antitetici. Il rispetto delle istituzioni e della cosa pubblica. La concezione partecipata della democrazia. L’appartenenza alla storia e alla cultura di quel movimento operaio che si considera un’anticaglia e un fastidioso residuo del tempo che fu. Una perfetta vergogna.
Spiace in tutto questo soprattutto l’abuso dell’icona di Enrico Berlinguer, chiamata in causa direttamente dal presidente del consiglio, come già fece qualche tempo fa Veltroni, altro campione dell’americanismo italiota. Avesse se non altro buon gusto, Renzi non si sarebbe permesso di scomodare un uomo che mai avrebbe fatto del proprio partito una macchina da guerra contro il mondo del lavoro e contro il sindacato.
Ma si capisce, per chi vuole vincere a tutti i costi non è semplice resistere alla tentazione di sfruttare l’immagine di chi non può difendersi. Propaganda, sì: ma di infimo ordine. O piuttosto irrisione e presa in giro. Conforme, del resto, a tutto uno stile di governo.
Veniamo infine ai due argomenti che Renzi si è inventato per dare forza alle proprie esternazioni in giro per l’Italia.
Se prevale il No, sostiene, vince l’ingovernabilità e trionfano gli inciuci. Quindi oggi, visto che la bella «riforma» non è ancora in vigore, l’Italia non sarebbe governata? Per certi versi in effetti è così, dipende dall’idea che si ha del governo e del buongoverno. Ma evocare il caos si inscrive a pieno titolo nella categoria del terrorismo mediatico per la quale valgono le considerazioni precedenti.
Quanto agli inciuci, forse è questa l’unica punta di paradossale verità in questa fiera della mistificazione. Lui, che sistematicamente impone alle Camere la propria volontà grazie al soccorso verdiniano, sembra voler dire – o dire suo malgrado – che simili mezzi – simili inciuci, appunto – imperverseranno, finché siederà a Palazzo Chigi, a meno che non gli si consegnino tutte le chiavi del potere con la sua «riforma».
In altri termini: bisogna «dire sì», come ai bei tempi delle adunate oceaniche, giusto per rendere superfluo lo sconcio al quale siamo costretti ad assistere. Non per «cambiare verso», solo per dare al Capo la possibilità di fare il bello e il cattivo tempo.
La morale di questa storia è tutta politica, oltre che morale. Il renzismo si riduce a un binomio: strapotere delle lobbies e uso spregiudicato – compulsivo e mendace – della comunicazione (con la zelante complicità dei giornali «perbene»). Per i prossimi mesi questa miscela tossica minaccia di pervadere la sfera pubblica. Contrastarla sin d’ora – oltre che prepararsi a bocciare sonoramente la controriforma della Costituzione – è indispensabile per scongiurare l’inquinamento irreversibile della politica italiana.
ALL'ANPI LA RIFORMA NON PIACE
E RESISTE
di Massimo Villone
«Riforme. La scelta del No arriva dopo una discussione lunga e complessa, con un dibattito vissuto anche nella stagione congressuale. L’aggressione renziana è segno di difficoltà»
Adesso sappiamo che se vince il no nel referendum costituzionale se ne va anche la Boschi. Il piatto diventa davvero interessante: due al prezzo di uno.
Monta la preoccupazione a Palazzo Chigi. Si alzano i toni, si aggredisce chi non si allinea, si lancia la coscrizione obbligatoria di sostenitori non si sa quanto convinti. Da ultimo, 70 senatori scrivono all’Anpi una lettera aperta, affiancandosi alla frase della Boschi sui «veri partigiani» che votano sì. Non accade certo per caso: è una strategia di provocazione verso un’associazione che è ad un tempo un pezzo di storia del paese e un’icona della sinistra, e non prende ordini da nessuno.
Non sapevamo che ectoplasmi senatoriali fossero in grado di parlare. In realtà i senatori firmatari sono la prova che almeno per una parte Renzi ha avuto ragione. Se una rottamazione riesce, allora andava fatta, perché era meglio comunque liberarsi del fradicio su cui si è abbattuta. E i 70 senatori ne sono la prova. Come possono parlare all’Anpi di una democrazia piena ed efficace, quando hanno approvato una riforma costituzionale e una legge elettorale che la ridurrebbero a un teatrino di comparse pronte all’omaggio servile? Siamo lieti che i senatori protagonisti dello scempio siano rottamati e ancor più per il futuro rottamandi. D’altronde, su quale seguito e consenso popolare potrebbero più contare?
Ma proprio per questo siamo contrari al senato di Renzi, che lo vuole riempito di personaggi non migliori, ed anzi peggiori. Gli è sfuggito, nella foga del discorso a Bergamo, un richiamo alle mutande verdi comprate con i soldi pubblici. Peccato non abbia colto l’ironia: secondo la sua riforma proprio gli acquirenti delle mutande – come tutti ricordano, consiglieri regionali – sarebbero domani elevati alla dignità del seggio senatoriale. E avrebbero la copertura delle prerogative parlamentari anche per l’acquisto delle anzidette mutande.
La politica alla Renzi la conosciamo ancora prima del voto sulla riforma. È la junk politics – la politica spazzatura – tipica degli Stati uniti. La vediamo proprio in questi mesi di primarie per la presidenza. E l’atteggiamento e il linguaggio di Renzi e dei suoi sostenitori sono un buon esempio di “trumpismo” all’italiana. La stessa propensione all’invettiva, all’insulto, alla derisione quando non alla denigrazione dell’avversario. La stessa avversione per il ragionamento e il pensiero intelligente.
L’Anpi è giunta a definire l’atteggiamento sulla riforma e sui referendum attraverso un dibattito lungo e complesso. Un dibattito che è vissuto anche in una stagione congressuale. Le ragioni dei favorevoli e dei contrari hanno avuto modo di svolgersi in un confronto pienamente democratico, e la maggioranza favorevole a difendere la Costituzione è stata ampia. È confluita in essa la consapevolezza che un momento storico decisivo per l’Italia si è trasfuso nella Costituzione, che ha definito e definisce ancora oggi l’identità del paese, nei suoi elementi essenziali di paese moderno e democratico. La sgangherata legge Renzi-Boschi, unitamente all’altrettanto sgangherato Italicum, attacca quella identità. Ed è del tutto ovvio e naturale che una associazione come l’Anpi, per quel che è e quel che rappresenta, si schieri a difesa. L’Anpi, non i pochi pezzi di essa renziani a prescindere.
La frase della Boschi segnala la rabbia per la disobbedienza di chi si vorrebbe subordinato e servo. Noi siamo per l’Anpi che decide di resistere, come siamo per i magistrati che vogliono prendere posizione in difesa della Costituzione. E ancora siamo per i professori autorevoli che decidono di parlare contro le cattive riforme, senza farsi intimorire da quelli che si arruolano nelle truppe del premier nella qualità di giovani di belle speranze. A questi facciamo comunque i migliori auguri di successo per una brillante carriera. Ci permettiamo solo un consiglio: studino la vasta letteratura sulla intrinseca fragilità del potere personale, per dato genetico destinato a durare poco. Gli ultimi che pensavano di durare mille anni sono finiti male.
Renzi deve farsene una ragione. C’è un pezzo di Italia che la sua Costituzione proprio non la vuole. La legge Renzi-Boschi è il peggior prodotto che decenni di dibattiti abbiano mai visto, per il banale motivo che il manico non era buono. Si poteva fare meglio? Certamente, cambiando in profondità ma senza scivolare in una deriva di potere personale e cerchi magici. Gli atti parlamentari sono pieni di proposte. Si poteva con soluzioni efficaci e condivise risparmiare di più e mantenere il senato elettivo, superare il bicameralismo paritario, rafforzare l’istituzione parlamento, ampliare la partecipazione democratica, consolidare il sistema di checks and balances, riequilibrare il rapporto Stato-Regioni. Bastava leggere, ascoltare, riflettere.
Invece l’arroganza di Renzi ora ricatta e spacca il paese. E che gli varrebbe vincere il referendum per una manciata di voti? Ne uscirebbe comunque indebolito lui, e ancor più la sua costituzione. Per questo è nell’interesse del paese che perda. E se volesse rimanere in carica dopo la sconfitta del sì, non avremmo nulla in contrario. Gradiremmo solo che decidesse, da qui a ottobre, se vuole fare lo statista, o il faccendiere di Palazzo Chigi.