Siamo alla paralisi: le concessioni per i «servizi al pubblico» sono scadute da anni e le nuove gare, bandite un anno e mezzo fa, si sono arenate. Non rispondono alle esigenze dei musei, non consentono investimenti né guadagni alle imprese, contengono errori e requisiti incongrui per i concorrenti che hanno costretto i Tar di mezza Italia a sospendere o bocciare i bandi. Il Tar del Lazio ha annullato quello per il bookshop del Polo Museale Romano; la Soprintendenza della Calabria ha preferito ritirare il bando per i maggiori musei della Regione; annullata dal Tar la gara per la ristorazione nel Polo Museale Fiorentino (Uffizi, Pitti, Boboli); annullata anche quella per i servizi di biglietteria del Polo Museale Romano; sospeso, a novembre, il bando in Puglia; il Tar della Campania deciderà il 25 gennaio sui servizi di Napoli e Pompei. Uniche gare andate a buon fine: Ravenna e Cerveteri-Tarquinia, alle quali ha partecipato un solo concorrente. Un rosario di bocciature che danno ragione alle tante imprese che hanno ritenuto insostenibili e illegittimi i termini dei bandi. La situazione è di caos e incertezza, i concessionari in proroga garantiscono soltanto i servizi essenziali.
In prima linea, a guidare la rivolta dei concessionari è Confcultura, aderente a Confindustria, che riunisce gran parte delle imprese del settore. Quali sono i punti critici e gli errori di un’operazione sulla quale il Mibac contava molto e che si può ormai dire fallita? Per Patrizia Asproni, presidente di Confcultura, il primo errore è stato quello di suddividere i bandi per specializzazioni: ristorazione, biglietteria, bookshop ecc. Il Mibac ha scartato l’idea dei bandi «integrati», che raccolgano cioè imprese specializzate per gestire insieme i diversi servizi, come avevano raccomandato le due società di consulenza (costate 200mila euro) chiamate dallo stesso Mibac a preparare le linee guida dei bandi. «Il direttore della Valorizzazione Mario Resca ha adottato il metodo “disaggregato” per evitare la concentrazione dei concessionari», spiega la Asproni. Lo scopo dichiarato era cioè quello di «aprire il mercato» dominato da pochi. «Ha ottenuto l’effetto opposto. Le imprese concorrenti sono pochissime, una o al massimo due per sito». Perfino la gara per la ristorazione agli Uffizi, a Boboli e a Palazzo Pitti, una delle più appetibili, ha avuto un solo concorrente e il Tar ha poi annullato la gara. «È la prova, dice ancora la Asproni, che con le gare disaggregate non è possibile bilanciare tra loro spese e ricavi dei diversi servizi e le imprese non possono investire per migliorare i servizi, anche perché la durata della concessione è di soli 6 anni (prima erano 12), troppo pochi per recuperare un serio investimento».
Patrizia Asproni mette poi l’accento sul problema di fondo: i concessionari non possono intervenire nei criteri di gestione dei musei. In primo luogo gli orari di apertura, che sono decisi dal Ministero in maniera spesso non razionale. Altro elemento che soffoca i concessionari: il prezzo del biglietto, deciso dallo Stato senza consultarli. Secondo Confcultura sarebbe necessario lasciare al gestore la possibilità di modulare il prezzo: una politica di incentivi gioverebbe anche al museo, per esempio con sconti in bassa stagione e alle famiglie. Tutto viene invece deciso da commissioni ministeriali. Basti pensare che la percentuale sui biglietti spettante ai privati che gestiscono il servizio è stabilita in anticipo. Per i musei più frequentati è al massimo il 14%, e questo assicura un guadagno, ma nella maggior parte degli altri arriva al 30% e la perdita è garantita: in molti musei con basso numero di visitatori lo sarebbe anche assicurando al concessionario il 100% del prezzo del biglietto. Infatti diversi musei statali hanno scelto di renderlo gratuito. «I concessionari sono ridotti al rango di impiegati, fa notare Patrizia Asproni, eppure non stiamo parlando di “appalti”, ma di “concessioni” e la Cassazione ha stabilito che si tratta di due cose ben diverse. Alle imprese adesso si chiedono “servizi” che devono limitarsi a eseguire. Il principio della concessione è basato invece sul rischio di impresa, e non puoi rischiare i tuoi investimenti se non hai autonomia. Bisogna insomma cambiare il rapporto tra pubblico e privato, stabilire principi di partnership». Certo, questo sistema non funziona e le imprese sono troppo spesso in passivo, non investono, non migliorano i servizi e i musei ne soffrono. La ricetta di Confcultura è drastica: il Mibac è obsoleto. E lancia una proposta politica. «La cooperazione fra Stato, Regioni ed enti locali diventa necessaria per coordinare le iniziative. Il Ministero per i Beni culturali e quello del Turismo sono frammentati. Ci vorrebbe, come in altri Paesi, un Ministero della Cultura che si dedichi alla salvaguardia del patrimonio e allo stimolo della produzione culturale. Le altre competenze, come la gestione, dovrebbero far capo al Ministero per lo Sviluppo economico. Quanto ai servizi al pubblico, conclude Patrizia Asproni, la soluzione è affidare ai privati la gestione diretta dei servizi museali. comprese le decisioni su marketing, orari, personale, prezzi ecc. Naturalmente in accordo e con il controllo delle Soprintendenze in una vera partnership».
Proposte shock ma applicate in molti Paesi stranieri. Quanto ai bandi, sono necessarie decisioni urgenti: vanno ripensati e corretti per uscire dalla paralisi.