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Mario Dogliani
Riforma costituzionale: chi semina vento raccoglie tempesta
30 Giugno 2016
Difendere la Costituzione
«La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura». Occorre continuare a ragionare sugli effetti devastanti della riforma.
«La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura». Occorre continuare a ragionare sugli effetti devastanti della riforma.

Libertà e Giustizia, 30 giugno 2016 (p.d.)
Il Presidente del Consiglio ha scatenato il suo plebiscito, convinto di vincere perché pensa di avere contro solo dei piagnoni (la memoria fiorentina gli fa pensare di essere un Lorenzo de’ Medici contro dei Savonarola, i cui seguaci erano detti, appunto, dalla brillante società ultracorrotta del tempo, “piagnoni”).
Che il referendum “confermativo”, o “oppositivo”, si trasformasse in un plebiscito, era ovvio. Ed altrettanto ovvio era che si sarebbe trattato in uno scatenamento – come dice la parola – della plebe. La riforma Renzi è infatti una mossa di antipolitica dall’alto per cavalcare (o meglio, per ingoiare) l’antipolitica dal basso.

1) Con la calma della ragione continuiamo a dire che:

a. La revisione costituzionale cd. Renzi-Boschi (unita alla nuova legge elettorale) è fatta male. E’ malfatta nel senso che, dati (presi per buoni) i suoi fini proclamati, essa è intimamente contraddittoria e, dunque, incapace di raggiungerli.
Aumenterà la sudditanza del Parlamento verso il Governo (il rapporto di fiducia si trasforma in una catena di comando); genererà ulteriori malfunzionamenti nello svolgimento dell’attività legislativa e nel rapporto tra Stato e Regioni; ma, primo fra tutti, genererà una determinazione della politica nazionale avventurosa (più simile a una partita a poker che al coagularsi di un indirizzo politico-sociale maggioritario nella società) e, conseguentemente, una frantumazione delle forze politiche sulla base di motivi egoistici sempre più superficiali, perché sempre più determinata da mosse di corto respiro (di reazione a sondaggi, campagne giornalistiche …), e dunque una loro sempre maggiore subalternità alle pulsioni irrazionali dell’elettorato e dei mass-media, accompagnata, di converso, da una sempre maggiore cecità politico-intellettuale di fronte alle dinamiche profonde del Paese e del contesto internazionale.

b. Il giudizio sulla coerenza e sulla efficacia della revisione rispetto ai fini da essa stessa prefissati non può essere disgiunto dal giudizio su quegli stessi fini rispetto a quelli costituzionalmente stabiliti. Ogni Costituzione è un programma di altissima politica sui profili fondamentali che la società deve raggiungere. Un programma aperto al conflitto, o, se si preferisce, “l’asse della morale politica di un popolo”.
Certi fini (ad esempio perseguire l’onnipotenza nell’esercizio dei diritti di proprietà) sono vietati; altri (ad esempio impedire che sul suolo della Repubblica si possa morire di una malattia curabile) sono obbligatori.
La riforma renderà più agevole perseguire i fini obbligatori, e più difficile perseguire i fini vietati? Il giudizio sulla revisione dipende dalla risposta a questa domanda. Non è dunque possibile una discussione che si esaurisca sul piano tecnico: la congruità dei mezzi rispetto ai fini richiede che contemporaneamente si definiscano criticamente i fini (mantenere o sostituire esplicitamente gli obblighi e i divieti che la Costituzione impone; facilitarne l’attuazione o propiziarne lo scivolamento nell’oblio).

c. La natura del potere democratico è oggi estremamente confusa, e va chiarita; ma la riforma non lo fa.
La Costituzione vigente è fondata sull’assioma ottimistico che il volere del popolo sia “cosa in sé buona”. Caduto il fascismo e il nazismo, sperimentata l’unità ciellenista e quella costituente, si pensava che il popolo si sarebbe risollevato con tutta la sua forza, e con una sostanziale unità d’intenti, dovuta alla condivisione degli stessi problemi vitali, al di là delle divisioni politiche, sostanzialmente esogene. Di qui la scelta del sistema pluripartitico e della legge proporzionale pura come fondamenti dello “Stato di tutto il popolo”.
Il potere politico è dunque – secondo l’idea di democrazia adottata dalla nostra Costituzione – “fatto” di scelte compiute dagli individui intesi come parti del popolo concreto, e dunque delle “formazioni sociali” che lo compongono (alcune volontarie, altre determinate dall’economia o dalla tradizione). Di azione collettiva (dei cittadini “associati”, come dice la Costituzione) e contemporaneamente di azioni individuali, di cittadini come elettori “liberi”, i cui voti si contano, non si pesano. E infine, il potere politico è “fatto” dagli eletti e da tutti coloro che attuano le loro scelte, che dovrebbero agire con disciplina ed onore. La materia di cui dovrebbe essere fatto il potere politico dovrebbe dunque essere solo e soltanto la volontà dei cittadini, e la “disciplina e onore” (che comprende il divieto di vendere, e comperare, i voti) con cui questa volontà viene politicamente tradotta in atti pubblici ed eseguita. Il potere politico, insomma, dovrebbe essere fatto della stessa pasta della democrazia organizzata e delle istituzioni sociali che essa presuppone. Non è l’esito momentaneo di una scelta di gusto e di una delega assoluta. Invece la democrazia d’investitura (non prevista dalla nostra Costituzione) presuppone il potere istituzionale come un potere pre-politico, e cioè progettato, finanziato, finalizzato da qualcuno, nell’ombra, e poi “investito”, scelto, votato, acclamato, con un delega assoluta, da maggioranze irrazionali.
La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura.

2) di carattere finanziario e sovranazionale (crisi del debito pubblico italiano con rischi di contagio a tutta la UE, impennata dello spread, lettera della BCE al Governo) – che hanno portato alle dimissioni del IV Governo Berlusconi, alla formazione del governo Monti, e alla confusa e inedita rielezione del Presidente Napolitano, sono state, per il nostro sistema politico e il nostro assetto costituzionale, unitamente allo zoccolo duro del malaffare e della mala gestio della cosa pubblica, una “Algeria”, che mise a nudo – come reale e tragico – il divario tra volontà popolare e capacità di assumere scelte politiche “buone” (che almeno salvassero il paese tutto dal naufragio).
Conseguentemente, e contemporaneamente, quella crisi manifestò in tutta la sua drammatica evidenza e urgenza la necessità di una politica costituzionale che rafforzasse lo Stato, travolto da una crisi finanziaria che non aveva saputo prevenire e combattere per i suoi antichi mali, ma che al contempo (secondo il pensiero di molti) salvaguardasse la Costituzione del ’47, mettendola al riparo dagli umori populisti che infuriavano in quei tempi.
Che cosa voleva dire? Garantire continuità e stabilità ai Governi, ma senza schiacciare il pluralismo. Solo il pluralismo, e cioè la libertà, rende accettabile il principio (il mito, la finzione …) del popolo buono, perché ciò che è veramente buono non è il “popolo” in sé, ma la libertà, e la saggezza, con cui affronta i suoi conflitti interni senza autodistruggersi (cioè stando dentro le “forme e i limiti della Costituzione”: art. 1 della Cost. italiana).
Ma non tutti hanno creduto in quella drammatica e urgentissima necessità. Senza ripercorrere i tentativi del Governo Letta, fatti abortire, va sottolineato che il presidente del Consiglio avviò – è questo il punto – un procedimento che è stato il contrario di quello che avrebbe dovuto essere un procedimento di revisione costituzionale: il più possibile inclusivo, tale da tendere alla unanimità. L’antico principio, da cui tutti discendiamo: “ciò che tocca tutti sia approvato da tutti” è stato messo sotto i piedi, all’urlo di “Abbiamo i voti!” (distorti dal premio di maggioranza e, ciononostante, insufficienti ad evitare aiuti ambigui). Il disegno di revisione si è caratterizzato fin da subito come un disegno di rottura, sprezzante della tradizione costituzionale italiana e delle sue nobili e straordinarie origini – si è detto, a ragione, “miracolose” (Onida) -, chiuso ad ogni dialogo e insultante verso tutte le voci anche solo dissonanti.
Con questo inizio, il procedimento di approvazione dell’attuale testo è stato obbrobrioso. L’originale “maggioranza riformatrice del Nazareno” si è spappolata; una nuova maggioranza è stata rabberciata con il ricatto e con le negoziazioni sottobanco; il Parlamento, anche grazie alla stupefacente arrendevolezza dei Presidenti delle due Camere, è stato costantemente tenuto sotto schiaffo; e – in questo vuoto di politica – si è andato progressivamente cementando un blocco affaristico-finanziario con contorni inquietanti (fino al riapparire di personaggi della P2) che ha imposto la scrittura del testo che ora ci troviamo a giudicare.
La riforma, di per sé, è essenzialmente un pasticcio. Ma collegata con la legge elettorale crea un meccanismo micidiale per cui l’indirizzo politico sarà la plebiscitazione delle scelte opache compiute da quel blocco (che scioccamente ha ritagliato la riforma su se stesso, come se fosse eterno).

3) Occorre essere chiari: se ci limitiamo a queste critiche, senza interrogarci con spietatezza sulle cause dei nostri antichi mali, e sul perché dell’emergere di “cerchi magici” che privatizzano il potere pubblico, si dà l’impressione che stiamo vivendo in un paradiso che qualcuno vorrebbe farci perdere, da cui rischiamo di essere cacciati. E invece i cittadini sanno bene di non essere vissuti affatto, negli anni recenti, in un paradiso che rischia di essere perduto.
Le nostre istituzioni – politiche ed economiche – sono collassate; e sono collassate alla radice. La conoscenza e l’esperienza di questo collasso è comune; ed è ancora diffusa la consapevolezza dei rischi che la democrazia corre quando si avvita sui propri conflitti interni (Italia del primo dopoguerra, Weimar …).
Per questo è urgente uscire da questo avvitamento impantanato.
Occorre però una risposta più articolata all’obbiettiva verticalizzazione e privatizzazione del potere che il disegno di riforma persegue, e che va giustissimamente criticata per gli squilibri che porta con sé.
Il punto è chiaro: l’epicentro della crisi è il Parlamento. E la causa della crisi è – direttamente – quella dei partiti.
La casa brucia. Ma chi accorre a spegnere l’incendio?
La revisione ha come baricentro la neutralizzazione e l’umiliazione del Parlamento. Di un Parlamento, è vero, che è stato ed è il peggior nemico di se stesso.
In pochi abbiamo cercato di salvare la forma parlamentare. Non ci siamo riusciti. Ne è uscito un ibrido che assomma il peggio del maggioritarismo (il dominio del governo su un parlamento impotente) con il peggio del parlamentarismo (lo spappolamento del parlamento stesso). L’equilibrio dovrebbe invece consistere in una “direzione” del governo su un parlamento forte (e in grado di poterla – in casi gravi, esaurite le possibili mediazioni – rifiutare).
Il nucleo della riflessione che non è stata pubblicamente condotta avrebbe dovuto consistere nel chiarire quali giudizi sulla capacità di rinascita dei partiti siano oggi possibili: quali giudizi siano improntati a cinismo (incentrati sull’inevitabile investitura irrazionale) e quali improntati ad una, politicamente ragionevole, scommessa sulla ripresa della politica organizzata.
Forse difendere la forma parlamentare non è più possibile. Chissà se “tornando allo Statuto” ci saremmo evitati i decenni di fango a cavallo di Otto e Novecento, e il fascismo. Ma proprio questa incertezza (cioè il dubbio che “forse sì”) dovrebbe non impedirci di pensare ad una forma di governo più rigidamente ispirata al principio della divisione dei poteri, e dunque più “accogliente” per il pluralismo politico e per la libertà e dignità parlamentare: una forma di governo cioè che non trasformi il rapporto di fiducia in una catena di comando del Governo sul Parlamento.
E’ questa la riflessione che deve essere subito avviata.

4) Certo, quale che sia l’esito del referendum, la Costituzione avrà subito un terremoto.
Sarà difficile continuare a dire che è la casa di tutti, l’asse condiviso della nostra cultura politica, il “bene comune” per eccellenza, o addrittura, usando le parole di un costituente (Togliatti) “l’Arca dell’Alleanza” tra le parti di un popolo, uscito da una guerra, anche civile, e che è stato capace di non precipitare in un’altra.
La spaccatura, parlamentare e civile, c’è già stata; e il Governo irresponsabilmente soffia sul fuoco. E chi, come molti tra noi, ha avanzato in questi anni proposte e obiezioni (preoccupato, e angosciato, dallo stato delle cose e dalle pieghe che stava prendendo il discorso sui rimedi), e se le è viste respingere e disprezzare, che cosa deve fare?
Se gli italiani voteranno massicciamente “si”, e gli avversari verranno “asfaltati”, la cultura politica del pluralismo e della democrazia redistributiva, inclusiva ed emancipante verrà sepolta, e chissà se risorgerà (preoccupazione che è in cima ai nostri pensieri, a differenza di quel che sembra pensare l’ex Presidente Napolitano).
Se questo non avverrà, la lotta per la Costituzione potrà continuare. Il Governo ha già ammesso che su alcuni punti saranno necessari approfondimenti e correzioni. Ammissione straordiaria e stupefacente se pronunciata dal protagonista di una ampia revisione, perché denuncia la consapevolezza che in ogni caso i nodi di questo testo confuso, contradditorio e pericoloso verranno al pettine.

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