«». Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2016 (c.m.c.)
Partiamo da Dossetti, perché è di lui che si occupa l’ultimo libro di Paolo Prodi (Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi, Il Mulino). «Comincio dal periodo immediatamente successivo all’approvazione della Costituzione, quando io studiavo alla Cattolica e il mio professore di Diritto costituzionale era Antonio Amorth, uno degli autori della nostra Carta», spiega Prodi. «La Costituzione, attraverso la Commissione dei 75 ha degli autori e, com’è noto, il testo fu perfino rivisto da linguisti e letterati, perché fosse efficace: la preoccupazione era che fosse comprensibile e armonico tra le sue varie parti».
E Dossetti?
Fu un protagonista di quella fase: come Aldo Moro era un giurista e dunque particolarmente preparato al compito. La sua attenzione alla Carta ebbe una nuova spinta all’inizio degli anni 90, con la nascita dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Allora parlai a lungo con lui: considerava la Carta certamente il patto tra tutti gli italiani, ma anche un patto per garantire l’equilibrio.
Nel ’46 – per evitare i pericoli di una guerra fredda, possibile in Italia perché eravamo sul confine tra i due mondi – bisognava approntare tutte le misure necessarie perché non ci fosse una prevalenza di una parte sull’altra. È qui che nasce il bicameralismo perfetto.
Qualche settimana fa Pierluigi Castagnetti ha detto: «Basta tirare per la giacca don Dossetti: è sempre stato contrario al bicameralismo paritario».
Stavo per dirlo: Dossetti ha dovuto digerire, all’epoca, il bicameralismo. Era contrario, ma lo riteneva politicamente essenziale. Una medicina amara, ma fondamentale per garantire quell’equilibrio di cui parlavamo.
Veniamo all’oggi. Cosa pensa di questa riforma?
Davanti alla Costituzione bisogna levarsi il cappello. La Carta è di tutti e non si cambia a colpi di maggioranza, specie se è una maggioranza come questa che si tiene in piedi a malapena. Ma prima ancora bisogna dire che questa nuova Costituzione è assolutamente incomprensibile, illeggibile. Sembra il bugiardino di un farmaco.
I sostenitori della legge di revisione dicono che non si tratta di estetica, ma di funzionamento delle istituzioni. La parola magica è “governabilità”.
Sento spesso parlare con disprezzo dei numerosi governi che si sono succeduti, specialmente nella Prima Repubblica. Quei governi però navigavano in acque tranquille, sia internamente che a livello internazionale. Certo calibravano, con o senza manuale Cencelli, i pesi delle correnti e delle varie personalità dentro ai partiti. Ma allora c’era una stabilità che di questi tempi ci sogniamo: a mancare non è oggi la stabilità dei governi, ma i partiti che sono evaporati.
Un problema che non si risolve con mezzucci tipo i capilista bloccati dell’Italicum. Piuttosto bisognerebbe applicare l’articolo 49 della Carta che dava ai partiti rilievo costituzionale. Nel ’58 Sturzo presentò in Parlamento un progetto di legge proprio sull’attuazione dell’articolo 49: ecco, oggi potremmo prenderlo e avremmo ben poco da aggiungere. La responsabilità politica non esiste più e si pensa di rimediare con il rafforzamento dell’esecutivo!
Il presidente del Consiglio ha legato il suo destino al felice esito della riforma.
Tutto parte dall’equivoco del doppio ruolo di premier e segretario del partito. Nella Dc uno statista come Alcide De Gasperi sapeva benissimo che se voleva vincere doveva permettere che il partito avesse una sua vita interna, dove lui come presidente del Consiglio non interveniva. Quanto a Renzi, puntando sulla vittoria come vincolo per la sua permanenza al governo si è preso un bel rischio. Quel che sta accadendo dopo il referendum sulla Brexit lo dimostra.
La riforma è molto disomogenea: voteremo su tantissime materie.
Da un punto di vista giuridico e razionale io sarei per lo spacchettamento, anche se so che è improponibile. Sottoporre al giudizio dei cittadini materie così diverse è un errore enorme.
Questa riforma è stata approvata con scorciatoie di ogni sorta: ghigliottine, canguri, sostituzione dei membri della commissione Affari costituzionali, sedute fiume. Lo spirito dell’articolo 138 è tutt’altro: una saggia ponderazione.
La forma non è stata violata, ma il metodo è profondamente sbagliato: certo i costituenti non pensavano a questo quando hanno scritto l’articolo 138. Tutta la riforma è un bitorzolo che cresce sulla nostra Costituzione. Non posso riconoscere valore costituzionale a un testo nato sotto spinte umorali e illogiche. Dicono che si migliorerà con il tempo: io studio la storia da mezzo secolo e non ho mai visto migliorare un sistema politico con questi percorsi. Il problema della democrazia è far coincidere la rappresentanza degli interessi con il tessuto sociale. Qui non si vede nulla di tutto questo.